Tre notizie, quasi da prima pagina, che fanno discutere.
I voucher trasformati in problema prioritario e drammatico, la sentenza della Cassazione che ha ritenuto non necessario essere in presenza di una crisi aziendale, un calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento e, infine il caso Almaviva con le sue implicazioni sindacali e sociali.
Nel primo caso la preoccupazione per il probabile referendum richiesto dalla CGIL ha scatenato una campagna di disinformazione con al centro la numerosità dei voucher e una serie di abusi commessi in alcune situazioni.
Pochi riferimenti internazionali a situazioni analoghe, scarso interesse a comprendere le dinamiche e i fenomeni correlati, disinteresse quasi totale all’endemico fenomeno del lavoro nero o malavitoso in Italia. Ma, soprattutto, il tentativo di far credere che, l’eliminazione dei voucher sia in sé un elemento positivo e possa portare a forme di stabilizzazione del lavoro saltuario.
A chi serve questa pessima gestione della notizia? Non credo alla CGIL che rischia di vincere una battaglia sull’onda emotiva del post referendum ma di perdere, immediatamente dopo, la guerra.
Né, credo, all’opinione pubblica che rischia di essere inutilmente trascinata in una discussione sulla precarietà del lavoro su presupposti scorretti perdendo di vista il problema principale: il lavoro. Come si crea, come e dove lo si può trovare, come lo si mantiene, e cosa si deve fare se lo si perde. E questo non è solo un problema per addetti ai lavori.
La sentenza della Cassazione sul licenziamento è, da questo punto di vista, paradigmatica. I motivi che spingono un’azienda a ricorrere a licenziamenti individuali o collettivi sono quasi sempre riconducibili a motivazioni organizzative o gestionali.
Il fatto che, secondo alcuni, si dovrebbe attendere sempre e comunque una situazione economica di non ritorno per poter procedere, ha solo determinato la proliferazione di accordi sindacali fantasiosi e lacunosi, di “non accordi” con ampia facoltà a procedere unilateralmente da parte delle aziende, di licenziamenti “spintanei” tollerati e di incentivazioni individuali di ogni tipo.
Adesso, con un certo ritardo, la Cassazione certifica ciò che chiunque ha avuto a che fare con ristrutturazioni o riorganizzazioni sa da sempre e cioè che come sosteneva il Macchiavelli, “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al Popolo”.
A volte occorre prendere decisioni drastiche e in tempi certi. Altrimenti il problema diventa irrisolvibile. E non servono avverbi o aggettivi per mascherare la realtà. Purtroppo.
Infine il caso Almaviva. Nessuno spiega che, una volta aperta una procedura di mobilità, una sua eventuale interruzione rischia di invalidare la procedura stessa.
Qualche anno fa mi trovai in una situazione analoga. Durante un difficile negoziato che coinvolgeva tutta una intera rete nazionale di vendita il sindacato confederale mi chiese di recuperare una filiale al sud che, chiusa l’anno precedente, stava terminando gli ammortizzatori sociali. In questo modo gli ultimi lavoratori rimasti avrebbero guadagnato un anno di ammortizzatori arrivando così alla pensione.
Faticai a convincere i vertici della multinazionale che non capivano perché fosse necessario riaprire un capitolo chiuso da tempo però concordammo con le OOSS che, per questi ultimi, non sarebbe stato ovviamente possibile prevedere alcun trasferimento al nord essendo in grado di agganciare la pensione.
Fatto l’accordo due lavoratori, tramite un avvocato suggerito dai COBAS, lo impugnarono sostenendo che, pur essendo vicino alla pensione sarebbero stati comunque disponibili al trasferimento in qualsiasi zona del Paese.
Nessuno però glielo aveva proposto proprio perché loro stessi avevano concordato, tramite i sindacati, un’altra soluzione.
Quella vicenda, costruita in buona fede insieme alle organizzazioni confederali e con il consenso tra le parti, avrebbe purtroppo potuto finire molto peggio causando l’annullamento della procedura con costi e conseguenze gravissime.
Per questo posso capire l’atteggiamento di Almaviva e questo indipendentemente da altri argomenti di cui non ho elementi sufficienti per giudicare.
C’è stato un tempo dove era possibile trovare un’intesa. Quel tempo però si è esaurito nei tempi e nei modi previsti dalla procedura stessa. Le lettere di licenziamento ne sono solo la conseguenza inevitabile.
Tre vicende apparentemente differenti con un unico comune denominatore. Nella materia del lavoro contano solo gli elementi oggettivi. Le norme e ciò che è scritto nelle leggi e nei contratti. Il resto appartiene alle opinioni.
La “Politica” può creare le condizioni affinché le parti in campo abbiano a disposizione strumenti adatti, opzioni concrete e tempistiche certe nelle quali esercitare i rispettivi ruoli.
Oppure la politica stessa può strumentalizzare, sulla pelle dei lavoratori, prospettando soluzioni inesistenti come ha fatto l’on. Di Maio un minuto dopo la conclusione della vicenda.
Purtroppo il Paese avrebbe bisogno di buona politica e di buoni politici. E di buona informazione. Soprattutto nelle vicende sindacali.