Quando Antoine Riboud pronunciò a Marsiglia davanti ad una platea di imprenditori il suo discorso dal titolo “Crescita economica e qualità della vita” fece scandalo ( http://Bit.ly/2HaBE1v ).
Il sessantotto francese era ormai alle spalle. Gli imprenditori stavano riprendendo il controllo della situazione e i rapporti di forza si erano già ribaltati.
In quegli anni il PDG di Danone propone la partecipazione agli utili in termini di una o due mensilità aggiuntive per anno. In una bottiglieria di Reims del Gruppo, concordò con il sindacato la riduzione a 34 ore dell’orario di lavoro e, contemporaneamente, tutti i dipendenti francesi del Gruppo ricevettero due azioni a testa.
Ho personalmente avuto la fortuna di lavorare a lungo nel Gruppo Danone in alcune occasioni anche a fianco di Muriel Pénicaud oggi Ministra del Lavoro francese che, in quegli anni si occupava della gestione dei dirigenti aziendali Danone dislocati in tutto il mondo, e quindi sono cresciuto con quei principi e ho condiviso quella filosofia.
Poi sono cambiate tante cose. La quotazione del titolo in Borsa, il processo di internazionalizzazione e il passaggio generazionale in azienda hanno in parte sterilizzato quella strategia la cui validità e attualità, a mio parere, non sono, però, mai venute meno.
Quando Antoine Riboud afferma:” Dobbiamo sforzarci di ridurre le disuguaglianze eccessive in materia di condizioni di vita e di lavoro per rispondere alle aspirazioni profonde dell’Uomo individuando i valori e le azioni che migliorano la qualità della sua vita e applicandoli sia nella nostra comunità nazionale che nell’azienda” sa che sta riposizionando il ruolo dell’imprenditore e dell’impresa nella società.
E ancora:” la vera sfida per chi si occupa di politica ma anche per gli imprenditori è di saper integrare quattro valori fondamentali: l’efficacia imprenditoriale, la solidarietà, la responsabilità e la personalizzazione, senza dimenticare che questo va fatto con gli uomini e dagli uomini e non per essi”.
Ed è proprio su questo punto che Riboud inserisce il tema del coinvolgimento, della collaborazione e della corresponsabilizzazione di tutte le componenti dell’azienda. Imprenditori, manager, sindacati e l’insieme dei collaboratori.
Tradotta in pratica la sua proposta restituiva senso ad una impresa sempre più responsabile, proattiva sui problemi sociali, pronta a farsi carico delle conseguenze quando impegnata nei processi di ristrutturazione e riorganizzazione.
Soprattutto una impresa che sapeva ascoltare e dialogare con il territorio nel quale era insediata e che voleva condividere i suoi progetti con le organizzazioni sindacali in tutti i Paesi nei quali era presente il Gruppo Danone. Un impegno non troppo distante da quello lanciato in questi giorni anche da Confindustria per la sua prossima assise del 16 febbraio ben sintetizzata in un tweet:” Lavoriamo per una società inclusiva, che elimini i divari tra imprese, territori e persone”.
Personalmente credo sia da qui che occorra partire. La crisi della Politica ma anche della rappresentanza sociale non si supera senza una visione nuova del ruolo dell’impresa e del lavoro nella società e nel Paese.
Ciò che il novecento ci ha lasciato in termini di contenuti e contenitori sociali è destinato inevitabilmente a declinare. I confini tra settori tendono ad assottigliarsi fino a scomparire, l’impresa grande o piccola fatica ad assumersi il rischio degli investimenti necessari alla sua crescita, la capacità di attrazione dei territori sconta i limiti strutturali e infrastrutturali tipici di un Paese che stenta ad adattarsi al nuovo.
Come sostiene l’economista Luigino Bruni:” Oggi non è più sufficiente – come nel Novecento – chiedere all’impresa di produrre valore economico, pagare le tasse e non inquinare.
Occorre chiedere molto di più, perché in un contesto globalizzato nel quale gli Stati e la loro politica sono sempre più deboli e frammentati, se l’impresa non si assume le sue responsabilità globali, finiremo presto per sentirci cittadini soltanto nei pochi momenti elettorali, e sudditi in tutti gli altri giorni. Maggiore potere significa maggiore responsabilità”.
Alla crisi politica e istituzionale alla quale sembra siamo comunque destinati alla fine di questa sconclusionata campagna elettorale, si somma il rischio di una lacerazione preoccupante del tessuto sociale e la difficoltà di ricomporre una sempre più evidente frattura generazionale e territoriale.
Rischi ai quali pochi sembrano voler mettere mano. Anzi. Sembra stia succedendo esattamente il contrario. D’altro canto nelle organizzazioni di rappresentanza convivono uomini disposti a scommettere sul cambiamento e sulla innovazione necessaria con forme di “cacicchismo” inconcludente che però boicotta e frena qualsiasi iniziativa (spesso) per esclusivo calcolo personale.
Certo ci sono segnali in controtendenza importanti. La firma recente dei contratti nazionali, il documento Calenda/Bentivogli, la voglia di rimettersi in discussione comunque presenti nei corpi intermedi.
Quello che manca è un disegno, un punto di riferimento sul quale innescare questi segnali positivi. E questo non può provenire da una parte sola. Sarebbe un errore. Occorre lavorare su più fronti, insieme.
Soprattutto tenendo presente l’insegnamento di Antoine Riboud ai suoi colleghi imprenditori; “Io vi propongo di accogliere la sfida seguente:” mettere l’impresa al servizio delle persone, riconciliare l’impresa e l’uomo. L’uomo ha messo la sua creatività e le sue competenze al servizio della crescita economica ma deve vegliare affinché non si creino disequilibri tra mezzi e obiettivi. È difficile certo, ma non impossibile. Io ho la convinzione profonda che si possa essere efficaci, efficienti e umani a condizione, come ha scritto il poeta René Char, di “prevedere da stratega e agire da primitivo”.
Siamo nel 1972 quando il PDG di Danone propone queste riflessioni ad un pubblico di imprenditori e conclude: “Conduciamo le nostre imprese con il cuore oltre che con la testa e non dimentichiamo che se le risorse della terra hanno dei limiti quelle dell’uomo sono infinite se si sente motivato”.