La stagione dei grandi contratti nazionali del settore privato si sta avviando ai titoli di coda. Ci sono distanze che devono ancora essere colmate in alcune categorie ma la sostanza non cambierà.
Un dato sembra emergere in modo pressoché definitivo. Non è più il conflitto sindacale tradizionale a spostare sostanzialmente il risultato finale. Così come la rigidità di alcune associazioni o federazioni datoriali, alla lunga, non riesce più ad imporre alcunché.
In altri termini, la legge del pendolo, è anch’essa entrata in crisi quindi i rapporti di forza, favorevoli o meno, non sono più una opzione perseguibile.
Il contesto mediatico, sociale ed economico spinge comunque e sempre per soluzioni condivise e non sollecita contrapposizioni inconcludenti e infinite. Tra l’altro molti degli stessi obiettivi enunciati da entrambe le parti nei negoziati presuppongono quasi sempre una sostanziale condivisione.
E questo vale sia per il welfare contrattuale, la bilateralità in generale ma anche per l’esigenza che emerge con forza nelle imprese più innovative di coinvolgere, condividere e ingaggiare su obiettivi comuni l’azienda intesa come comunità di persone.
Quindi occorre andare oltre l’apporto semplicemente individualistico mettendo in gioco la disponibilità, l’intelligenza collettiva e lo spirito di iniziativa dell’insieme dei collaboratori su obiettivi condivisi. Un’impresa che vuole coinvolgere deve conoscere innanzitutto le sue persone, proporre loro percorsi di crescita, premiarne il merito, condividere economicamente i risultati raggiunti.
Ma deve anche riconoscerne la maturità, l’apporto e gli specifici interessi collettivi di cui sono portatori. L’opposto dell’azienda fordista, di matrice autoritaria dove le persone erano tutte uguali, intercambiabili e da gestire nella singola mansione affidatagli. O collettivamente come numeri tramite il vecchio modello di relazioni sindacali.
In questa “nuova” impresa la cultura tradizionale della contrapposizione e del conflitto collettivo ancora presente in una parte del sindacalismo italiano non ha più ragione di esistere nei termini prodotti nel secolo che abbiamo alle spalle. Anche il linguaggio, utilizzato spesso dal sindacato stesso per insistere in una logica caricaturale un po’ forzata delle posizioni della controparte, rischia di essere controproducente innanzitutto per chi lo utilizza.
Senza mai dimenticare che, l’inevitabile conclusione, ormai generalmente “win win” di qualsiasi negoziato, rende l’enfasi spesso utilizzata nella comunicazione tradizionale assolutamente inadatta a gestire i risultati ottenuti.
Quando la narrazione impiegata a sostegno delle proprie tesi è distante dalla realtà il distacco che si crea tra chi parla e chi ascolta diventa inevitabile.
E, se tutto questo è vero, non sarà sufficiente lavorare sui luoghi del confronto. Non esiste alcun automatismo tra decentramento e un conseguente ruolo collaborativo e propositivo. Ne c’è alcuna disponibilità esplicita di tutto il sindacato né da parte degli imprenditori di darlo per acquisito.
Su questo equivoco merito e metodo rischiano di non coincidere e quindi di sprecare un’opportunità di innovazione e di crescita per l’intero sistema. L’impresa di oggi, ma soprattutto quella di domani non può prescindere dalla implementazione un vero sistema collaborativo.
Il successo sarà sempre più costruito insieme ai clienti, ai fornitori, e ai partner ma anche insieme ai propri collaboratori con i quali andranno condivisi rischi e opportunità. Ciascuna componente, con il suo contributo, rafforza o indebolisce il brand, quindi, di fatto, accelera o frena i potenziali risultati.
Ma questo cambiamento presuppone visione, coerenza, rispetto e valorizzazione di tutti i soggetti in campo. Ma, soprattutto, coinvolgimento. E questo coinvolgimento non si ferma davanti ai cancelli né può escludere il sindacato a prescindere.
Soprattutto in tempi dove la navigazione è a vista e i rischi sono talmente elevati che non possono essere esclusivamente in capo all’imprenditore. Certo quando si coinvolge occorre saper ascoltare, condividere, ingaggiare e poi comunque decidere. Ma è una navigazione diversa dal passato. Più responsabile e attenta al contesto e a tutto l’equipaggio.
È la corresponsabilità.
Una parola tutta da riempire di significato concreto perché le navi non sono costruite per restare in porto. Lo stesso vale per il sindacato. Tutto il sindacato. Ormai fermo ad un bivio: accettare il declino continuando a sognare un ruolo e un peso che non c’è più nelle singole imprese o cogliere la sfida della corresponsabilità fino in fondo?
E questa sfida non può essere raccolta se si inseguono ancora superate egemonie novecentesche o se si cerca solo di farsi concorrenza nelle imprese scavalcandosi sui contenuti del confronto con l’azienda stessa. A mio parere il sindacato in questo modo rischia solo di fare la fine dei polli di manzoniana memoria che si beccavano tra di loro mentre venivano portati dal pollivendolo.
La stagione che abbiamo alle spalle ha lasciato in eredità solchi profondi dentro il sindacalismo confederale tra differenti sigle difficili da superare. Forse non sarà sufficiente un rinnovo unitario di uno o più contratti per invertire la tendenza.
Per questo, un semplice spostamento del livello del confronto in un contesto ancorato a modelli più o meno formalmente conflittuali, suscita legittime perplessità negli imprenditori e, di per sé, non farà evolvere un bel nulla.
A volte mi sembra che chi ne scrive la faccia troppo semplice. Senza un riorientamento culturale unitario, il ruolo del sindacato, e quindi la contrattazione aziendale, non decollerà in chiave collaborativa neanche attraverso robusti incentivi economici ma resterà confinata (ad esaurimento) solo laddove ha messo radici tradizionali. O sotto il saldo controllo delle imprese.
E questo non è sempre un bene. Il sistema ha bisogno di profondi cambiamenti e di equilibrio, non di scorciatoie.