A settembre 2017 il CNEL ha certificato 868 contratti nazionali. Probabilmente anche Confindustria riuscirà ad avere il suo contratto del “terziario avanzato”. Sarà il numero 869. Prima o poi toccherà anche a Federdistribuzione. Così saranno 870. E altri verranno poi.
Siamo ormai “alla via così” in gergo marinaro. Tutti sono concordi nel ritenerli troppi. Ovviamente solo quelli degli altri. Ciascuno cerca di delimitare o incrementare il proprio recinto a spese altrui. Nessuno crea le premesse per andare oltre. È una politica francamente suicida.
E questo a scapito anche del sindacato confederale o delle sue categorie che, anziché reagire, abbozzano. Quello che è avvenuto nel perimetro del contratto del terziario lo dimostra in modo inequivocabile.
La concorrenza tra contratti genera solo un dumping salariale continuo sfavorevole innanzitutto ai lavoratori ma anche alle stesse imprese che non sanno più se è più conveniente condividere una scelta responsabile di applicazione di un contratto o sfruttare l’ignavia dei controllori (in questo caso il Ministero del Lavoro) impegnati a guardare altrove non rendendosi minimamente conto delle conseguenze nefaste di questa politica.
Ed è questa anarchia che spinge alcune multinazionali a ritenere possibile una omologazione di comportamenti, regole e organizzazione del lavoro a livello planetario di cui poi rischiano di pagare le conseguenze sul piano mediatico.
È però un errore anche per le organizzazioni datoriali. Oggi si discute di rappresentatività e di come pesarla. È certamente utile e importante ma, a mio parere, nella migliore delle ipotesi, si rischia di convincersi che questa sia la soluzione. È utile, ovviamente, ma non sufficiente.
È vero, ci sono pseudo organizzazioni datoriali e sindacali che operano indisturbate. E bisogna certamente affrontare il tema. Ma la concorrenza, a volte, esasperata tra le stesse grandi organizzazioni da entrambe le parti non è da meno.
Eppure basterebbe osservare quello che è successo nel mondo del lavoro dove i vent’anni che abbiamo alle spalle passati tra divisioni e derive identitarie in ciascuna organizzazione sindacale confederale non hanno portato a nulla di significativo in termini di crescita organizzativa.
E non sto pensando con nostalgia ad un fantomatico quanto inutile sindacato unico. Sto pensando che né la sua parte riformista né quella più conservatrice sono riuscite a imboccare una strategia convincente. Soprattutto sulle nuove generazioni e sui nuovi lavori.
Lo ha tentato solo qualche federazione dell’industria, a volte a livello unitario, soprattutto perché in quelle realtà il cambiamento non è solo materia di convegni. E oggi, con la vicenda delle pensioni, si rischia di ritornare, purtroppo, al via.
Le organizzazioni datoriali corrono, però, lo stesso pericolo. L’ibridazione dei settori dovrebbe far propendere ad una ricerca per una rappresentanza diversa che sappia ripercorrere gli interessi vecchi e nuovi che si manifestano nelle filiere e che sappia portarli a sintesi.
Quindi un ruolo importante che dovrebbe essere assunto soprattutto dalle rispettive federazioni di settore che rappresentano gli interessi veri nelle filiere. Oltre i confini oggi scolpiti nella pietra.
Cosi come i contratti di lavoro che più che sterili fotocopie l’uno dell’altro dovrebbero accompagnare aziende e lavoratori nel nuovo paradigma economico e sociale.
Il caso Amazon è solo l’ultimo campanello di allarme in ordine di tempo. Lo sfaldamento del fordismo di cui è intriso il nostro sistema contrattuale e l’affermazione strisciante di un nuovo “fordismo 4.0” non sono né paragonabili né gestibili con le stesse regole.
È vero che firmare e applicare i contratti nazionali, di questi tempi, è già un successo però pensare di lasciare in balìa dei soli rapporti di forza il sistema contrattuale e la sua applicazione concreta è una miopia gravissima di cui, prima o poi, saremmo costretti tutti a pagare un conto salato.
Secondo Thomas Bialas, Industry 4.0, in Germania, è già messo sotto accusa da accademici, economisti, giornalisti, sociologi molti dei quali sostengono che: “La sigla 4.0 rappresenterebbe solo l’illusione che lo stato sociale tedesco e l’industria tedesca possano, nella versione di economia digitale, proseguire con le stesse regole di prima.
Si automatizza e si digitalizza tutto quello che si può automatizzare e digitalizzare in modo adattivo e reattivo: fabbriche, magazzini, uffici, processi e servizi, senza però sciogliere il nodo dell’occupazione e più in grande senza avere una visione di una nuova società.
Se volessimo essere coerenti dovremmo parlare di economia 4.0, di lavoro 4.0, di organizzazione 4.0, di scuola 4.0, di società 4.0 e soprattutto di un’impresa 4.0, che ragiona ed esiste oltre le categorie primario, secondario e terziario. Il futuro è dell’impresa della conoscenza e non dell’industria della resistenza (che resiste o tenta di resistere al suo declino).”
Parole assolutamente condivisibili che però dovrebbero spingere i corpi intermedi a non impegnare le loro migliori energie a difesa di un perimetro che rischia di essere superato dalla realtà.
La stagione dei rinnovi dei contratti nazionali non decollerà tra molto tempo. In molte imprese, è inutile negarlo, c’è molta voglia di smontare ciò che c’è e poca voglia di innovare, insieme.
È il mindset cioè la mentalità e l’approccio che dovrebbero essere cambiati. Senza questo sforzo sarà molto difficile affrontare le sfide che il cambio di paradigma ci sta proponendo quotidianamente nel mondo del lavoro.