Nel rileggere un vecchio manuale il cui titolo non rende a sufficienza il valore e i messaggi che contiene (Philippe Petit – Trattato di funambolismo, 1985) ho ritrovato le ragioni profonde che raccontano più di qualsiasi testo specifico la natura dell’imprenditore o del top manager di successo. “Bisogna battersi contro gli elementi per apprendere che tenersi su un filo è poca cosa, ma restare dritti e ostinati nella nostra follia di vincere i segreti d’una linea è per noi funamboli la forza più preziosa”.
Per queste ragioni non mi arrendo quando sento parlare di ineluttabilità delle divisioni e della realtà della GDO che ne impedirebbero un concreto passo in avanti unitario.
Nella grande distribuzione italiana leadership imprenditoriale e insegna sono un binomio inscindibile. La fortuna della stragrande maggioranza delle imprese sia locali che pluriregionali nasce proprio intorno alla visione, alla determinazione e alle caratteristiche degli imprenditori che le hanno costruite. Dinastie di piccoli e medi tosti come i Podini, gli Arena, i Ratti, i Panizza, i Bastianello solo per citarne alcuni, ne sono un esempio.
Quando Bernardo Caprotti ha inaugurato nel 1957 l’Esselunga di viale regina Giovanna a Milano ero lì, piccolo e in fila con mia madre trascinato dalla sua curiosità per un commercio che, con quella assoluta novità, stava cambiando volto. Così come ho avuto il privilegio di partecipare, cinquant’anni dopo nel 2007, alla acquisizione di quel punto vendita da parte del gruppo Rewe nel quale lavoravo come DHR. Un’emozione e un po’ la sensazione che stavamo portandoci a casa un pezzo di quella storia, una specie di “Numero Uno” la prima moneta guadagnata da zio Paperone. Un punto vendita portafortuna. Una condivisione indiretta di un percorso iniziato molto tempo prima.
Nella cultura della bottega classica e quindi della GDO italiana che da quella cultura cresce e prende forma, la leadership del proprietario è intimamente legata al brand. Un ingrediente fondamentale che ne rappresenta la chiave di lettura. Solo Coop e le multinazionali in Italia hanno scommesso su gestori attenti e lungimiranti. Quando la base associativa è costruita su un numero molto vasto di soci o la proprietà si allontana dai confini nazionali credo sia un processo inevitabile. Non necessariamente servono leader carismatici. Servono interpreti e gestori attenti e consapevoli.
Ma laddove c’è una realtà in costruzione o impegnata a ridisegnare una sua nuova identità, la leadership è determinante. Il venir meno di queste figure sta mettendo piombo alle ali a numerose insegne nei diversi passaggi generazionali o nelle fasi di cambiamento. Certe caratteristiche, purtroppo, non si possono ereditare. Realtà ormai troppo grandi per accettare di condividere progetti di fusione o percorsi con altri imprenditori ma contemporaneamente troppo piccole per resistere al livello dei costi delle innovazioni necessarie, alla concorrenza o alle pesanti intemperie in arrivo.
In Conad sembravano averlo compreso ben prima dell’operazione Auchan. Francesco Pugliese, un leader sicuramente ruvido ma riconosciuto, ci ha provato dalla sua entrata nel 2004 a portare l’insieme delle cooperative ad un livello di fatturato, di unità e di peso mai raggiunto prima. Non tutto però ha funzionato. L’importante aggregato imprenditoriale del consorzio alle prime difficoltà nell’acquisizione ha mostrato differenze sostanziali tra chi, pur rischiando, aveva colto il significato della sfida e chi pensava che quell’operazione sarebbe dovuta servire solo per acquisire qualche punto vendita e continuare come nulla fosse cambiato in una logica un po’ datata. Essere i primi della classe comporta un carico di oneri e onori che prima di essere esibiti andrebbero fatti propri.
Diverso è il caso di Carrefour dove Cristophe Rabatel sta cercando di riportare in carreggiata un’azienda che ha rischiato di deragliare scommettendo su un modello organizzativo snello, policentrico, difficile da portare a sintesi ma senza alternative percorribili; e che possa contare su una sede centrale essenziale, efficiente, orientata alla periferia e non viceversa. Una scommessa rischiosa che presuppone un salto di qualità del tradizionale franchising in termini di visione, coinvolgimento e senso di appartenenza. I discount, per ora, non sono inquadrabili. Almeno finché marciano a questa andatura. Ma presto, anche lì assisteremo a qualche inevitabile assestamento. Resta però uno scenario caratterizzato da un orgoglioso nanismo che impedisce seri processi di concentrazione che non riguarda però solo le imprese ma anche l’associazionismo di categoria.
L’idea che bastasse avere un contratto dedicato e sostituire un ansiogeno ma attivissimo direttore generale di Federdistribuzione con un “Papa straniero” come presidente estraneo alle dinamiche del settore non ha funzionato. Le divisioni sono rimaste perché i diversi associati, “padroni a casa loro”, non amano trovare nell’associazione altro che un mero coordinamento che non urti i loro specifici interessi. Ma contemporaneamente temo che lo stesso presidente non ha fatto abbastanza per superare le ragioni alla base di questo ostacolo. E così anche il CCNL è rimasto al palo, ridotto ad un problema come un altro è non si è trasformato in un elemento distintivo della categoria su cui costruirne la nuova identità.
Eppure una delle ragioni del cambio di leader e dell’affidamento alla selezione esterna era la volontà di ricostruire una possibile unità dell’intero comparto. Federdistribuzione si è limitata a trasmettere un’immagine di rappresentanza del comparto senza nemmeno provare a proporre una leadership forte e autorevole in grado di far convergere su di un progetto innovativo l’intera categoria.
Non ha imposto il suo passo sul CCNL ma ha scelto di mettersi in coda a Confcommercio non riuscendo ad interpretare a sufficienza il disagio delle imprese che nel frattempo stava aumentando portando addirittura alcuni associati a sostituire il CCNL con altre tipologie contrattuali. Fortunatamente per loro, ma sfortunatamente per le prospettive del settore, Confcommercio e le altre associazioni, in cui si riconoscono le imprese del comparto, non stavano certo meglio. Così si sono sedute intorno ad un tavolo insieme cercando, in una formale unità di facciata, di nascondere i reciproci limiti. Che sono innanzitutto limiti di leadership, visibilità e capacità di farsi ascoltare.
Lo dimostra la composizione stessa del nuovo Governo. La denominazione del ministero dell’Agricoltura e della Sovranità’ alimentare è stata costruita in un lungo rapporto di anni tra alcuni partiti, oggi al Governo, e Coldiretti e punta a tutelare le produzioni nazionali sul modello francese. Il Ministero del “Commercio”, grande auspicio per molti operatori, resta purtroppo, solo nelle lodevoli fantasie di chi ci ha creduto, a causa delle divisioni e della debolezza politica dell’intera Distribuzione nazionale.
Imprese e associazionismo, a mio parere, dovrebbero ripartire da lì più che dare per scontato che le reciproche gelosie siano insuperabili. I candidati con il giusto standing ci sono in diverse associazioni. Occorrerebbe metterle a fattor comune. Ma solo chi comprenderà che “marciare divisi per colpire uniti” non è più sufficiente, visto la situazione economica e sociale, potrà ambire ad interpretare con sufficiente autorevolezza il nuovo ruolo che non può che guardare oltre gli steccati attuali costruiti in tutt’altro contesto storico.
Ed è su questo che si gioca il futuro della categoria. Non semplicemente limitandosi a ribadire le ragioni, pur legittime, che ne hanno impedito fino ad ora una visione comune.