Il recente attacco di Carlo Calenda ai vertici di Confindustria mi ha fatto riflettere. Non credo all’accusa di opportunismo rivolta a Vincenzo Boccia né alla strumentalità del dibattito scatenato in rete che ha preso di mira sia Confindustria che la CGIL elevandoli a simboli di un 900 oggi improponibile.
Certo non sottovaluto il problema delle imprese partecipate dal Tesoro, le difficoltà del Sole 24 Ore però sono temi, credo, sui quali il Presidente di Confindustria si trova più nelle vesti di gestore di una eredità del passato e non certo di responsabile diretto.
C’è, ed è vero, la preoccupazione nel mondo datoriale che i 5S perseguano pervicacemente una politica anti industriale e punitiva contro le imprese in un momento in cui il Governo dovrebbe mettere in campo, al contrario, strumenti a sostegno della ripresa. Da qui l’appello alla Lega.
A caldo io stesso ho puntato il dito su ciò che sembrerebbe essere evidente. L’eccessivo tatticismo delle organizzazioni di rappresentanza di fatto annichilite dalla vittoria giallo verde e dal decisivo contributo dei rispettivi associati a quel risultato.
Alle insistenti richieste di autocritica rivolte al PD non c’è stata un’analoga richiesta alle organizzazioni di rappresentanza e questo ha favorito una fuga dalle rispettive responsabilità. Il 4 marzo è stato rovesciato integralmente sulla Politica. Su chi ha vinto, assumendone le supposte buone ragioni e su chi ha perso ribaltando su di loro tutte le responsabilità. Una autoassoluzione molto pericolosa e gravida di conseguenze su un futuro che rischia di non essere tanto remoto.
La CGIL molto meno “suonata” di come la si vorrebbe far passare, anche grazie a Susanna Camusso, si appresta nel 2019 ad un congresso difficile. Dietro l’alternativa Colla/Landini si nascondono due strategie entrambe di difficile realizzazione. Il primo rappresenta la volontà di portare a compimento una scelta riformista che punta ad un dialogo con le imprese e con gli altri sindacati confederali. Il secondo più vocato a inserirsi negli interstizi lasciati scoperti dalla politica disintermediatrice quindi teso a rivendicare un ruolo da protagonista sulle inevitabili contraddizioni. La prima ha bisogno di interlocutori disponibili (che oggi purtroppo latitano) e di capacità negoziali di nuovo conio la seconda di nemici e di dichiarazioni dai toni alti.
Ad oggi, nelle altre due organizzazioni confederali, non sembra emergere nulla di altrettanto stimolante dal dibattito interno. Se togliamo l’intenso lavoro di alcune categorie pur diversissime tra di loro come metalmeccanici, chimici e agroalimentari (e spero di non dimenticare nessuno) il sismografo a livello confederale, visto da fuori, non segnala particolari movimenti.
Sul fronte datoriale ci sono attività interessanti nei territori, soprattutto nel nord, confederazioni che hanno capito più di altre i nuovi spazi da occupare (vedi Coldiretti nella filiera agroalimentare), altre come Confcommercio, attraversate da una crescita interessante che però sta cambiando in profondità natura e esigenze strategiche, altre infine declinanti o marginali.
I vessilli del cambiamento e della consapevolezza però sembrano ripiegati. Le leadership del 900 (CGIL e Confindustria) non sono né ribadite né sostituite. Qui credo stia il punto della riflessione.
Siamo di fronte ad una riedizione metaforica del grande Grigorij Alexandrovic Potemkin che mascherava i miserabili villaggi russi con facciate di legno e cartapesta per far credere a Caterina II che la Russia era meno povera e arretrata quindi ad un’illusione ottica di un ruolo che sta declinando inevitabilmente, ad una insufficienza di analisi dei gruppi dirigenti cresciuti in altra epoca o solo alla fine di un modello novecentesco di protagonismo sociale?
L’eclissi è per sua natura temporanea. Il mio ottimismo mi fa propendere per la terza opzione; occorre riscrivere ruoli, compiti e funzioni per chi è chiamato a vivere questo tempo senza nostalgie o ritorni al passato. La rappresentanza sociale, a mio parere, resta un pilastro fondamentale della democrazia.
Per affrontare questa sfida occorre però non perdersi in inutili tatticismi ma proporre sia un’idea diversa di Paese ridando senso e ruolo alle comunità che lo compongono in un contesto europeo ma anche fare un passo in avanti tutti insieme su di un modello di impresa e di lavoro che rimetta al centro il contributo che il lavoratore dà allo sviluppo dell’impresa. Marco Bentivogli, oggi, centra il tema (http://bit.ly/2Nh0qie).
Se il “patto della fabbrica” proposto proprio da Vincenzo Boccia vuole essere un punto di partenza vero è da qui che bisogna partire. Altrimenti ci toccherà assistere sempre più spesso ad accelerazioni improvvise e a brusche frenate senza avere alcuna possibilità di capire né dove stiamo andando né la coerenza di ciò che stiamo facendo.