È difficile replicare a Roger Abravanel. La sua convinzione sulla sostanziale inutilità dei corpi intermedi è granitica. Così come la certezza che la contrattazione nelle singole aziende di qualsivoglia dimensione rappresenterebbe la soluzione ottimale per imprese e lavoratori. Nella sua intervista televisiva auspica, addirittura, una fine parallela per le organizzazioni datoriali e sindacali. Anzi. Utilizza le critiche di Bombassei e Marchionne per generalizzare un opinione di sostanziale inutilità dell’organizzazione datoriale che, a suo giudizio, sarebbe condiviso da molti imprenditori. È una opinione diffusa. E non da oggi. Innanzitutto essere iscritti ad un’organizzazione sindacale non è obbligatorio così come è ovvio che chi ha ritenuto opportuno non rinnovarne l’iscrizione ha tutto il diritto di criticarne i comportamenti. La volontarietà e quindi la libertà di aderire o meno, di per sé, dovrebbero far riflettere chi crede nel tramonto imminente dei corpi intermedi. Personalmente credo che questa prospettiva non sia né prevedibile né auspicabile. I corpi intermedi, pur attraversando, nel tempo, cicli di crescita e di calo del tutto fisiologici, hanno una vitalità propria difficile da contestare. La loro legittimità è data dalle migliaia di imprese e lavoratori che nei territori, nelle associazioni o nelle federazioni conferiscono loro un mandato. Basterebbe entrare in una qualsiasi sede associativa periferica per rendersene conto. Far da soli non è sempre possibile. Chi è in grado di farlo sottovaluta spesso l’esigenza di rappresentanza che ha chi non è in grado di tutelarsi da solo. Per fare solo un piccolo esempio recente basta citare il caso dei proprietari di appartamento di Firenze sostenitori della disintermediazione, che, ai primi problemi di rapporto con la loro controparte, hanno ritenuto indispensabile associarsi per trattare al meglio con Airbnb. Ma è così ovunque e su ogni tema che abbia un interesse minimamente collettivo. Quindi ipotizzarne un declino irreversibile e definitivo è, di per sé, un errore di valutazione. Non va sottovalutata, inoltre, la capacità di rigenerazione dei corpi intermedi. Sicuramente più marcata in periferia, meno evidente al centro, dove resta però fondamentale la presenza di una leadership riconosciuta e autorevole in grado di determinare un impatto mediatico specifico. In periferia, è evidente registrare una presenza a macchia di leopardo a seconda del differente insediamento territoriale e della capacità di interazione con il contesto economico, sociale e politico. Detto questo nessuno nega la necessità di profondi cambiamenti sia per le organizzazioni datoriali che sindacali. Ma questo non c’entra nulla con la disintermediazione auspicata da alcuni esponenti del mondo politico e da alcuni opinionisti poco informati sulle dinamiche organizzative e sociali proprie del nostro Paese. La presenza di più candidati alla carica di Presidente di Confindustria è un segno di grande vitalità. Ciascuno di loro porta con sé un modo specifico di intendere la rappresentanza. Chiunque vincerà proporrà scelte differenti che influenzeranno non poco il contesto politico. Confcommercio ha, da parte sua, da tempo avviato profondi programmi di rinnovamento investendo su progetti organizzativi importanti sia a livello locale che centrale. Anche nei sindacati dei lavoratori si registrano chiari segnali di cambiamento, ad esempio, nelle categorie industriali della CISL ma anche in scelte precise di rinnovamento dei gruppi dirigenti locali e centrali in molte categorie della Cgil. Tutto questo è sufficiente? Ovviamente no. La velocità di cambiamento del contesto economico nazionale e internazionale impone una accelerazione continua per fornire alle imprese e ai lavoratori punti di riferimento costanti su temi quali modelli contrattuali praticabili, nuove tutele, servizi innovativi, welfare integrativo, reti e capacità di sviluppare integrazione nelle filiere. Quindi tutto ciò che è fuori dalla portata dei singoli. Ipotizzare un contesto futuro che non preveda contrappesi sociali significa inevitabilmente rassegnarsi ad un modello di società darwiniana dove solo ai più forti è consentito dettare le regole del gioco. Esattamente l’opposto di ciò che serve ad una comunità nazionale complessa come la nostra che deve trovare nella convergenza di interessi e nella collaborazione tra generazioni e territori la sua rinnovata ragion d’essere.