La GDO italiana l’ha svangata a suo tempo con il cosiddetto “patto anti inflazione”. Il conto del “caro carrello”, che comunque è stato salato, lo hanno pagato in contanti i consumatori (e, in parte, volumi di vendita della GDO). Le responsabilità sono state recapitate, dalla politica, ad un altro indirizzo. Il problema sembrava ormai alla spalle. Non è così. Skrinflation e greedflation hanno accompagnato la riduzione dell’inflazione confondendo i consumatori e lasciando loro la convinzione che in molti ci hanno marciato e ci stanno ancora marciando. E il problema è tutt’altro che archiviato. Non solo da noi.
La Food Industry Association è intervenuta duramente in risposta a Kamala Harris appena incoronata alla convention di Chicago come candidata del Partito Democratico. La sua Presidente Leslie G. Sarasin ha dichiarato: “ È l’inflazione, non certo nostre presunte speculazioni sui prezzi, che ha causato aumenti dei prezzi tra i beni di consumo”. E ha aggiunto che le discussioni sui prezzi degli generi alimentari dovrebbero “rimanere radicate alla realtà e ai dati, piuttosto che oggetto di speculazione politica”.
Kamala Harris ha presentato un programma economico definito «aggressivamente populista» dal Washington Post. L’economia e l’inflazione sono priorità per i cittadini americani. Harris incolpa gli imprenditori e i retailer di ricercare profitti scaricandoli sui portafogli dei consumatori e del reddito degli agricoltori. Il cosiddetto price gouging. Se eletta, ordinerà alla Federal Trade Commission di lavorare con i procuratori generali degli Stati per perseguire speculatori di ogni genere, comprese le catene di supermercati e le grandi aziende agroalimentari che controllano le forniture alimentari. Kamala Harris vuole che l’agenzia si concentri sull’arresto dei prezzi alle stelle della carne, la cui produzione (manzo, pollo, tacchino e maiale) è controllata da poche aziende. Farà anche in modo che la FTC combatta le mega-fusioni e acquisizioni che limitano la concorrenza.
A febbraio, la FTC si è formalmente opposta alla mega-fusione di due tra le più grandi catene di supermercati del paese, Kroger e Albertson’s, tra gli applausi della National Consumers League e della United Food and Commercial Workers, che annovera tra i suoi membri lavoratori del settore alimentare, addetti alla lavorazione della carne e lavoratori degli allevamenti intensivi di pollame. La FTC si è anche rivolta al tribunale per bloccare l’accordo da 24,6 miliardi di dollari, che secondo l’agenzia riduce la concorrenza per i consumatori e i posti di lavoro per i lavoratori. Le udienze della corte federale su tale causa inizieranno il 26 agosto a Portland, Oregon.
Il presidente dell’UFCW Marc Perrone ha dichiarato “l’UFCW si oppone, e continuerà a farlo, a qualsiasi fusione che avrebbe un impatto negativo sulle nostre centinaia di migliaia di membri che lavorano presso Kroger e Albertsons”. L’azienda ha ovviamente tenuto il punto: “La fusione tra Kroger e Albertson è focalizzata a garantire prezzi più bassi già dal primo giorno, garantendo al contempo il futuro dei posti di lavoro”, ha replicato Rodney McMullen, presidente e amministratore delegato di Kroger. “Siamo pronti a difendere questa fusione nel prossimo processo al tribunale federale”. Se eletta a novembre, la vicepresidente Kamala Harris prevede di proporre un divieto (unico nel suo genere) di speculare “manovrando sui prezzi” da parte dell’industria alimentare. In una dichiarazione, Harris ha affermato che la sua proposta includerebbe “regole esplicite per evitare che le grandi aziende non possano scaricare sui consumatori la loro volontà di realizzare eccessivi profitti aziendali sui generi alimentari”.
“Il pane costa il 50% in più, lo stesso vale per la carne macinata», ha detto Kamala Harris proponendo misure che «puntano a ridurre i costi per le famiglie» e creare una «economia delle opportunità». Nel mirino cibo e farmaci. Harris prevede inoltre di verificare più da vicino le fusioni e le acquisizioni tra grandi produttori alimentari e retailer, “in particolare per il rischio che le fusioni producano effetti negativi sui consumatori”. Sarà un argomento caldissimo nello scontro elettorale anche se l’inflazione USA sta mostrando segni di rallentamento. Al di là della campagna elettorale americana il tema dei prezzi ritorna centrale ovunque. Gli anni di bassa inflazione e salari fermi hanno lasciato il segno. Pochi l’hanno capito.
Per gli economisti la ricetta per risolvere il problema dei prezzi è semplice. Più produttività (per alzare le retribuzioni) e più concorrenza (per abbassare i prezzi, combattendo ovunque gli ostacoli). Come non essere d’accordo. Se parliamo di prodotti alimentari, di filiera e di grande distribuzione e se passiamo dalla teoria alla realtà, il discorso però si complica. Non ci sono solo problemi di “giusto compenso” per i diversi componenti. Ci sono problemi irrisolti sul piano dimensionale, nei passaggi intermedi. Problemi di logistica, di trasporto, di numerosità dei punti vendita e di atteggiamento verso i consumi da parte del cliente finale che influenzano il prezzo sul bancone.
Prezzo finale che, pur gravato di queste inefficienze del nostro sistema Paese, non è però molto diverso rispetto a quello praticato in altri Paesi. È, viste le reazioni in altri Paesi (vedi ad esempio, Germania, Francia e Grecia), il problema non è solo italiano. Personalmente non credo affatto che tutto tornerà come prima. Anzi. Si rafforzerà la tendenza, nei consumi alimentari, ad acquistare il necessario evitando ciò che si ritiene superfluo. Probabilmente si andrà a cercarlo laddove costa meno, continuerà la tendenza a valutare i sostitutivi e si cercherà di ridurre al minimo indispensabile il tempo da dedicare agli acquisti, alla fatica del trasporto e ai costi collaterali.
Che il problema dei prezzi sia però centrale lo si può notare dalla differenza con cui gli esperti e le persone normali stanno vivendo il momento. I primi osservano i dati. Misurano gli andamenti e certificano le tendenze sulla carta. I secondi sono guidati dall’esperienza di acquisto e concludono che i costi sono più alti rispetto a prima della pandemia e questo li rende più sobri e cauti. Con conseguenze e ripercussioni economiche, politiche e sociali immaginabili. Le aziende perdono volumi di vendita, i consumatori riducono il budget destinato alla spesa alimentare, la filiera a monte si lamenta. La politica quindi si schiera.
Mancando una regia intelligente che affronti il tema senza demagogia ognuno si muove come crede. Industria, insegne e consumatori. Vedere il tema al centro delle elezioni americane non può però non colpire. Inflazione e aumento dei prezzi potrebbero avere un impatto significativo addirittura sull’esito stesso delle elezioni di novembre. I miglioramenti degli ultimi due anni non sembrano sufficienti a convincere gli americani.
E così, mentre gli economisti esultano per il calo dell’inflazione, le famiglie non si sentono tanto allegre ed è probabile che le diverse prospettive potrebbero fare la differenza nelle urne non solo americane. Da noi nessuno pensa a riprendere il tema a livello di filiera. Le insegne si muovono in ordine sparso non riuscendo a cogliere il problema complessivo, le associazioni latitano incapaci di incalzare la politica in attesa di improbabili chiamate. E, quest’ultima, non sembra cogliere il cambio di clima sociale in atto. È vero, siamo ancora in agosto ma….