Pensare che il corona virus in qualche modo possa accelerare l’adozione dello Smart working nelle imprese è una delle tante scorciatoie sulla materia che si leggono in queste settimane sui giornali. A parte le poche aziende strutturate e orientate verso modelli organizzativi più flessibili per la stragrande maggioranza di quelle che si sono trovate nella necessità di lasciare a casa parte dei propri collaboratori ci sarà presto un ritorno alla normalità.
In qualche direzione HR si rifletterà se prevederlo nei futuri piani di crisi o se sperimentarlo sul serio. Lo smart working non è affatto il semplice “lavorare da casa”. In termini generali è lavorare “anche” al di fuori del tradizionale luogo di lavoro. In questo modo la postazione di lavoro non è più vincolata ad un luogo fisico, ad un orario di lavoro, ad un controllo visivo della gerarchia. Fanno testo i progetti, gli obiettivi assegnati, i risultati ottenuti. I contenuti del proprio lavoro prevalgono sul contesto organizzativo nel quale questo contenuti si realizzavano in precedenza.
Per parlare di smart working occorrerebbe avere innanzitutto una smart company. Situazioni molto rare nel nostro Paese al di là di ciò che spesso viene venduto. Una realtà organizzativa che lavora privilegiando gli obiettivi individuali e di gruppo, si fida dei propri collaboratori, non crede nelle gerarchie tradizionali e nei silos organizzativi e di fronte ai problemi anziché perseguire chi li crea premia e riconosce chi li risolve. Quindi una smart company, che, per essere tale, deve puntare su smart people.
Collaboratori che hanno una idea di carriera professionale innovativa, intelligente e collaborativa. Che non pensano che la vita corrisponda con il lavoro ma si appassionano a quello che fanno. Che vogliono essere misurati sui risultati ottenuti, con hanno una cultura del cliente, interno o esterno che sia, che sanno organizzarsi, formarsi, gestire il loro tempo come lavoratori autonomi.
In assenza di questo contesto organizzativo e umano stiamo parlando di altro. Lavoro da casa, telelavoro, work life balance, riduzione delle scrivanie e degli spazi, ecc. Argomenti legittimi ma che non c’entrano nulla con lo smart working vero e proprio.
Oggi la media dei giorni passati fuori dal tradizionale posto di lavoro è di circa 3 giorni al mese ed è principalmente concentrato nel fine settimana o vicino ai cosiddetti ponti. Salvo le poche realtà di cui sopra stiamo parlando essenzialmente di lavoro da casa. Non basta quindi telelavorare in remoto per essere in smart working. Sarebbe quindi importante distinguere quanto c’è di veramente innovativo e quanto d’altro in quel 2% di lavoratori coinvolti da questi cambiamenti.
È certamente importante che se ne parli basta però che non si trasformi in una moda che genera false aspettative sulle modalità e sui tempi di implementazione. Lo smart working non si improvvisa. L’accordo con le organizzazioni sindacali non è un semplice passaggio formale. È importante al di là dell’emergenza del momento, perché consente di determinare un quadro di regole che impediscono potenziali abusi e forzature.
Non dimentichiamo che anche il part time, quando è nato, aveva una funzione di work life balance (allora si diceva per conciliare studio e vita privata con il lavoro) che negli anni si è via via trasformato, per le imprese, in un modello organizzativo importante ma anche uno strumento di controllo dei costi vero e proprio mentre per molti lavoratori in un vicolo cieco (il cosiddetto PT involontario) da cui è sempre più difficile uscirne.
In un articolo su Wired di Sara Moraca di qualche tempo fa si cita addirittura l’esperienza “revisionista” di IBM e il parere di John Sullivan, professore alla San Francisco State University, il quale ritiene che la vera innovazione, dopo aver scommesso sul lavoro a distanza negli anni 80 e 90 de secolo scorso, sia nel tornare a lavorare insieme. Ovviamente con modalità differenti del passato. Lo studio citato di Harvard avrebbe confermato che i ricercatori che lavorano nella stessa location producono risultati migliori, così come ha chiarito che quando ci sono occasioni di incontro tra colleghi, le performance risultano migliori.
Questo dovrebbe far riflettere anche sul tema della produttività che, pur crescendo, non può essere presa e misurata a sé stante. Da noi le resistenze dichiarate sarebbero essenzialmente dettate dal timore per la sicurezza dei dati e dalle resistenze da parte delle gerarchie aziendali ancora orientate più al controllo che alla fiducia.
Io credo che la ragione vera sia determinata dalla realtà complessiva del lavoro di oggi. Le smart company si contano sulle dita di una mano o poco più. Nelle PMI tradizionali poi c’è un disinteresse diffuso soprattutto dove la presenza fisica è ritenuta, a torto o a ragione, un vincolo insormontabile. Partire quindi dalla realtà è indispensabile.
Lo stop causato dall’emergenza non risolve i problemi organizzativi e culturali. Però può far riflettere. A Milano le stesse aziende che si dichiarano disponibili e aperte stanno investendo pesantemente su nuove sedi di grande dimensione e impatto che non fanno presagire cambiamenti culturali imminenti. Semmai lasciano prevedere una riduzione degli spazi per impiegati tradizionali e middle manager obsoleti che, se non riconvertiti per tempo attraverso seri programmi formativi, costituiranno un problema importante non in un futuro remoto ma tra pochi anni.
Personalmente credo che la riflessione andrebbe sviluppata più in profondità tenendo conto delle opportunità e del potenziale che offre il dibattito attuale sullo smart working, le sue ripercussioni positive che sono indiscutibili per una parte dei lavoratori ma anche, più in generale sul futuro del lavoro la sua qualità, il suo scopo e il suo riconoscimento che può innescare un cambiamento culturale e di approccio a cui, checché se ne dica, non siamo affatto preparati.