Essere genitori oggi è un po’ più difficile del solito. È domenica e siamo seduti a tavola. I telegiornali trasmettono in continuazione notizie e immagini da Bruxelles. Ci sembra tutto esagerato. Non sappiamo nulla. Solo che nostra figlia è là. Ad ogni squillo di cellulare o ad ogni sms qualcuno scatta in piedi. Subito dopo. Con una scusa qualsiasi parte una telefonata per rassicurarci e rassicurare. Vedere in una camera ardente una ragazza che ha l’età di tua figlia fa riflettere. Sentire i discorsi che accompagnano questa tragedia mette ansia. Mi colpisce anche il giornalista che cammina per le strade deserte della città che ha più o meno la stessa età. Oggi sembra che lavorino solo loro. I precari, i giovani sherpa, i militari. Forse anche i giovani terroristi. Ascolto distrattamente e con fastidio gli interventi di statisti e politici che mostrano i muscoli tra di loro o che minacciano probabili sfracelli. Mia figlia mi rassicura. Resterà chiusa in casa. E domani? Domani Bruxelles smette i panni sonnolenti e rallentati del week end e riprecipiterà nella sua quotidianità di capitale europea. Zeppa di tutto. Razze, popoli colori. Chi può fermarla? Oggi parlano di cinture esplosive che girano indisturbate, gas pronti ad essere usati, antidoti che vengono immagazzinati per rischi prossimi venturi. Ieri sera, ad una certa ora, il comitato di crisi di Bruxelles su Twitter si è fermato per fine turno. Basta notizie. Ci sentiamo domani mattina, era il messaggio. Anche la burocrazia quando non è opprimente rischia a volte il ridicolo. Ragazzoni armati che girano mascherati con tanto di armi cariche e pronte all’uso e Twitter che rimanda al giorno dopo ogni informazione con la rete. È anche questo il segnale di come non sappiamo affrontare la situazione. Troppi esperti, professori del cinismo e della strategia antiterroristica che ci spiegano, sempre dopo, cosa non è stato fatto prima. Teorici della chiacchiera che riempiono gli studi televisivi. Gaber nel suo bellissimo pezzo “c’è un’aria” descrive questa incapacità di rappresentare il dolore e la speranza. Ma noi siamo qui. Tra un inno nazionale e la retorica del “non vinceranno mai”. Riflettere, bisogna riflettere. È questo il mondo che vogliamo? E stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per costruire un mondo diverso? Io credo di no. I nostri ragazzi che decidono di vivere altrove per realizzare i loro desideri meriterebbero di più. Meriterebbero un Paese che pensi a loro non solo quando, purtroppo, cadono vittime di una tragedia. Mia figlia non vuole tornare. Vuole poter restare là per imparare, crescere come donna e come cittadina di una nuova Europa. Non odia nessuno e i suoi amici vivono in ogni parte del mondo. Chiede solo a noi adulti di abbandonare la retorica del giorno dopo e di credere di più in un futuro possibile. Se così fosse forse oggi sarebbe una delle tante domeniche serene riempite da un collegamento Skype e dall’orgoglio di genitori convinti della scelta della propria figlia. Senza ansie, timori e paure che un ragazzo della sua età o poco più possa incontrarla e, senza nemmeno conoscerla, distruggerne i sogni.