Negli ultimi dieci anni gli scioperi che hanno fatto cambiare sul serio una decisione, nel settore privato, si contano (forse) sulle dita di una mano. C’è una certa riluttanza sia a minacciarli che ad indirli. Ma soprattutto a parteciparvici.
Diversi sono i casi come, ad esempio, quelli accaduti alla Reggiani Macchine di Grassobbio o all’Eutron di Pradalunga dove la reazione spontanea dei lavoratori si è manifestata di fronte ad un sopruso inaccettabile contro una collega che rientrava dalla maternità.
O alla Wittur di Colorno contro una decisione improvvida dell’azienda di licenziare un lavoratore gravemente malato. Diversi perché non c’è in gioco una richiesta di aumento salariale o di migliori condizioni di lavoro. C’è in gioco qualcosa di più che ha a che fare con il rispetto delle persone e la dignità stessa del lavoro. Quindi con un connotato fortemente difensivo.
È lo sciopero come rito collettivo, come manifestazione esplicita della presenza di un conflitto tra interessi economici differenti, come strumento di miglioramento della propria condizione, che ha perso di significato. Non c’è un contratto nazionale né aziendale che ha assegnato ai rapporti di forza il risultato ottenuto.
La stessa presenza di milioni di lavoratori senza contratto nazionale dimostra che, laddove i rapporti di forza sono invece stati determinanti, lo sono stati a favore delle aziende.
A questo scenario post conflittuale e post novecentesco le organizzazioni di rappresentanza hanno reagito in modo intelligente innanzitutto rispettandosi e riconoscendosi reciprocamente come portatori legittimi dei rispettivi interessi in campo. Il buon senso, l’accettazione dei rispettivi vincoli e la capacità di individuare sintesi condivisibili hanno via via sostituito nella visione del sindacato l’idea che una vertenza dura o un negoziato difficile dovessero avere anche lo scopo di formare una coscienza collettiva superiore.
Il fatto però che lo sciopero si sia trasformato in un’arma spuntata non significa che non esista la necessità di stabilire nuove regole del gioco. Innanzitutto per evitare la cosiddetta “legge del pendolo” trasferendo semplicemente al solo imprenditore il potere decisionale in materia di lavoro negando alla radice il diritto di tutela degli interessi che restano (su diversi aspetti) divergenti.
Quindi occorre individuare procedure di gestione del conflitto, nuovi luoghi di sintesi e mediazione, tempi e modalità di risposta certi. E occorrerebbe farlo rapidamente. Poi c’è un problema sul lungo termine.
Così come l’industria si è andata via via terziarizzando perché al centro del suo operato c’è sempre meno il prodotto e sempre più il cliente e la sua soddisfazione così per il sindacato il punto di arrivo non può essere quello di rinchiudersi nei reparti di fabbriche sempre più condizionate da vincoli provenienti dalle filiere produttive e distributive nelle quali sono inserite.
E su questo punto credo ritornerà di attualità, rielaborata, l’intuizione di Giorgio Benvenuto, e cioè il “Sindacato dei cittadini” che presentò nei primi mesi del 1986 e che non ebbe lo sviluppo e la fortuna che quell’intuizione avrebbe meritato.
Un sindacato moderno che comprende le esigenze dei lavoratori ma anche nel loro ruolo di consumatori quindi come cittadini. In grado cioè di condizionare con le scelte di acquisto (o di non acquisto) le imprese nella loro decisioni e atteggiamenti.
Non è un caso che, ad esempio negli Stati Uniti, le imprese sono molto attente alla percezione che i consumatori hanno dei loro comportamenti, della loro responsabilità sociale, del loro rapporto con l’ambiente e il contesto socio economico.
La stessa intuizione dell’economista Leonardo Becchetti, assunta anche nello statuto della FIM CISL di “voto con il portafoglio” va in questa direzione. Esprime, in modo concreto e netto la sovranità del consumatore il quale può decidere di usare il suo potere di acquisto e di risparmio per premiare o, punire, aziende responsabili o irresponsabili dal suo punto di vista.
È chiaro che questa è una strategia sulla quale oggi non c’è ancora né una convinzione profonda né una riflessione vera. Ma la strada è, a mio parere, questa. Far crescere una consapevolezza e una maturità nuova nei cittadini e quindi tra i lavoratori che individui nella qualità del rapporto di lavoro, in legittime tutele universali e uguali per tutti, nella condivisione di rischi e opportunità con le imprese la direzione di marcia.
Così come il lavoro 4.0 sarà completamente destrutturato e ricostruito rispetto ad oggi, la composizione dei differenti interessi in campo non può che subire la stessa metamorfosi con esiti imprevedibili, se non governata con intelligenza e lungimiranza.