In un recente convegno del Forum della Meritocrazia ha preso la parola Roberta Roncone, una dirigente della FIM CISL, il sindacato dei metalmeccanici.
Un intervento richiesto che dimostra la visione degli organizzatori che vedono nel Merito con la emme maiuscola una sfida necessariamente da allargare a tutti i soggetti che concorrono a determinare i risultati in azienda.
Dall’altro, una partecipazione senz’altro voluta da un sindacato, la FIM CISL che cerca di comprendere a fondo l’evoluzione dei modelli organizzativi, la professionalità quindi la formazione necessaria e il suo riconoscimento. E questo implica inevitabilmente un atteggiamento sindacale ben diverso dal passato nei confronti dell’impegno individuale e del merito.
Se torniamo un po’ indietro nell’impresa post bellica e prima della grande ondata migratoria dal sud, nelle aziende del nord si respirava un’aria fortemente paternalistica ma, tutto sommato, collaborativa. Il rapporto tra imprenditori, dirigenti e lavoratori era duro ma costruttivo. Dalla culla alla tomba l’azienda si occupava dei suoi dipendenti migliori in cambio della loro totale fedeltà. Il sindacato era ai margini.
Bisogna arrivare a dopo la metà degli anni 60 per vedere questo rapporto, comunque asimmetrico, entrare definitivamente in crisi. Soprattutto nella grande impresa.
Non è un caso che le prime grandi rivendicazioni operaie avvengono in aree periferiche e non come sarebbe stato prevedibile nel triangolo industriale. Dove l’etica del lavoro, l’impegno e la disponibilità erano maggiori.
Ma qualcosa si stava rompendo e le aziende stentavano a comprenderlo. Simbolico, ad esempio, è l’abbattimento della statua del conte Marzotto a Valdagno.
Il paternalismo e la vecchia disciplina quasi militare, che non permettevano una gestione collettiva fuori dai rari accordi nazionali, non erano più in grado di affrontare la nuova fase dove il fordismo cominciava a pretendere ritmi di lavoro sempre più elevati, spersonalizzanti che spingevano inevitabilmente i lavoratori verso le rivendicazioni egualitarie, di massa, proposte dalle organizzazioni sindacali.
Nelle aziende gli uffici del personale prima, le direzioni relazioni industriali poi, diventarono centrali. Affrontavano quotidianamente forti sollecitazioni dal basso e, di fatto, dettavano le regole del gioco a tutto il sistema rendendolo poco sensibile al merito, e al riconoscimento dell’impegno individuale.
Ci sono voluti almeno una decina di anni circa per assorbire e riportare in condizioni di normalità quelle contraddizioni che in parte, purtroppo, permangono ancora oggi. L’affacciarsi delle prime crisi di mercato ha poi fatto il resto.
Le imprese però hanno comunque cercato di mantenere un sufficiente grado di autonomia totalmente slegato dalle richieste sindacali soprattutto nelle piccole e medie aziende perché un rapporto di maggiore coinvolgimento e collaborazione tra imprenditore e lavoratori era connaturato sia alla dimensione che al modello organizzativo. Nelle grandi, al contrario, occorrerà attendere l’arrivo, più in là, dei modelli di gestione delle multinazionali.
Con politiche prima rivolte a dirigenti e quadri, poi a risorse chiave e giovani. Nell’impresa fordista (non solo industriale), però, hanno continuato ad essere esclusi gli operai che restarono e restano, di fatto, tuttora gestiti quasi esclusivamente dalla contrattazione nazionale o aziendale con tutti i vincoli conseguenti.
Da qui, ad esempio, la necessità del sindacato di spingere verso l’alto intere categorie di lavoratori a prescindere dal merito o dall’impegno individuale. E quindi L’inevitabile costruzione di una cultura corrispondente.
Oggi il paternalismo di vecchio conio è relegato nelle imprese perdenti ma anche le richieste sindacali tradizionali non trovano ascolto.
Le politiche retributive, i sistemi di valutazione, lo sviluppo professionale e il welfare sono sempre più gestiti con un approccio moderno, condiviso e oggettivo.
Parole come, merito, trasparenza, impegno, contributo individuale e collettivo al successo dell’impresa, flessibilità, professionalità sono condivise anche dalla stragrande maggioranza dei lavoratori.
Il sindacato, o almeno parte di esso, si rende conto di essere fuori gioco. Le aziende, tra l’altro, sono sempre meno interessate a proporre atteggiamenti strumentali o non oggettivi.
Un rapporto di lavoro che non è più “dalla culla alla tomba” presuppone reciproci interessi da riconoscere. Si trasforma inevitabilmente in un rapporto adulto, dove le convenienze devono essere evidenti per entrambi i contraenti.
Se non ci sono più garanzie sulla durata del rapporto di lavoro lo scambio deve prevedere altri valori o interessi.
Quindi la qualità e l’immagine dell’impresa, la possibilità di crescere non solo economicamente, di apprendere, del welfare proposto, di mantenere un proprio valore sul mercato costituiranno sempre di più un elemento importante di valutazione.
E un’azienda sempre più orientata al riconoscimento del merito individuale, dell’impegno, della collaborazione di tutte le sue componenti nella realizzazione dei propri obiettivi Inevitabilmente attrae e mantiene i propri talenti, costruisce un clima positivo, ingaggia e coinvolge di più i propri collaboratori.
Se il sindacato si ferma davanti ai cancelli e si limita a pretendere un ruolo a prescindere dalla propria volontà di contribuire ad una autentica corresponsabilità finirà inevitabilmente marginalizzato. La strada è ovviamente lunga perché la cultura di provenienza e le diffidenze delle imprese pesano come un macigno.
Ma le sfide da industry 4.0 ai nuovi mestieri prodotti dalla globalizzazione incombono e spingono verso scelte nette. Per questo hanno fatto bene il Forum della Meritocrazia e l’AIDP a favorire questo incontro. E ha fatto bene la FIM CISL a mettersi in gioco accettando la sfida.