Modelli di sindacato e riforma della contrattazione

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Nel dibattito sui livelli della contrattazione non è ancora comparso in modo chiaro il tema del modello di relazioni industriali auspicato e coerente. Quindi della natura stessa del sindacato e, di conseguenza, del rapporto tra sindacato confederale e impresa. In molti interventi sindacali si dà per scontato quello che scontato non è. Che tutto sia chiaro sul modello proposto e che ci sia un interesse comune alla collaborazione e che il modello partecipativo possa comprendere la cultura rivendicativa tradizionale, il coinvolgimento sulla strategia aziendale e, perché no, la codeterminazione dell’organizzazione del lavoro. E che questo rappresenterebbe un supposto vantaggio per le imprese. Non è così. Nella stragrande maggioranza delle piccole aziende, ad esempio, l’adesione al sindacato di uno o più dipendenti è visto, dall’imprenditore, come un fatto generalmente non positivo, a prescindere. Il piccolo imprenditore, salvo rari casi, se non costretto, non ha mai voluto aver nulla a che fare direttamente con il sindacato. Da qui la nascita negli anni, in alcuni comparti, di strumenti di gestione dei reciproci interessi all’esterno dell’impresa (enti bilaterali, uffici sindacali di associazione, uffici legali, ecc.) che, di fatto, hanno assegnato alle parti sociali la composizione dei piccoli o grandi problemi di interpretazione dei contratti o del singolo rapporto di lavoro. Evitando il contatto diretto ma facendo però crescere in entrambe le parti la disponibilità a tenere conto dell’altro e degli eventuali contenziosi da ricomporre con modalità non unilaterali o davanti ad un giudice. E non è una cosa da poco visto il tessuto produttivo italiano. In questa tipologia di aziende il rapporto personale e lavorativo tra imprenditore e singoli lavoratori è generalmente costruttivo e collaborativo. A queste dimensioni aziendali il contrario sarebbe assolutamente improponibile. Quindi, il modello prevalente vede l’impresa come un luogo dove la creazione di ricchezza è interesse comune dell’imprenditore e dei singoli lavoratori e dove il CCNL rappresenta un punto di equilibrio fondamentale e insostituibile. E parliamo di oltre il 90% delle imprese del nostro Paese. Nelle medie e grandi imprese, pur non essendoci un grande feeling tra sindacalisti e manager, c’è la consapevolezza che occorre impegnarsi reciprocamente per trovare le soluzioni necessarie a mantenere un clima positivo nelle imprese. Ed è qui che la natura e il modello scelto potrebbe fare la differenza. E, partendo da qui, costruire una nuova cultura collaborativa e partecipativa. Questa è la vera posta in gioco. Si può continuare a illudersi e rappresentare una realtà che non esiste più da anni fatta di rilancio di potenziali rapporti di forza, un tempo favorevoli, improbabili lotte in grado di ribaltare la situazione e una rinnovata capacità di modificare la distribuzione del reddito nel Paese a favore del lavoro dipendente o dei pensionati. Una cosa però non si può fare: scegliere una strada costretti dalla mancanza di alternative. Altra cosa è prendere atto che le nuove relazioni sindacali dovranno tenere conto del mutato contesto competitivo delle imprese, del loro inserimento nelle filiere globali, dei nuovi modelli organizzativi indotti dalla tecnologia e, del fatto che la ricchezza deve essere preventivamente prodotta prima di essere eventualmente distribuita. Marco Bentivogli della FIM CISL, senza scandalizzarsi, cita le parole di Bob King, ex leader del sindacato auto americano (Uaw): ‘Quando gli interessi dei lavoratori coincidono con quelli dell’impresa non è solo una scelta, ma un dovere fare un pezzo di strada assieme’. Lo stesso modello tedesco è lì a dimostrare che un leader sindacale di VW è innanzitutto di VW, poi della IG metall e poi della SPD. In quest’ordine preciso. È chiaro che se si ha in testa un modello partecipativo o collaborativo di nuovo conio solo da qui si può partire. Pensare di arrivarci da un modello conflittuale o addirittura antagonista è tempo perso. Nessuna impresa sarà mai disponibile. Né in Italia né altrove. L’AD di FCA ha, credo, dal canto suo, idee chiarissime. Pensa ad un sindacato aziendale sul modello americano o, al limite, tedesco. Credo che gli imprenditori italiani più sensibili in materia pensino, più o meno, ad un modello analogo. Federmeccanica spinge, di fatto, in questa direzione. Ma se è chiaro il modello di partecipazione ipotizzato dalle imprese non è altrettanto chiaro il rapporto tra sindacalismo confederale e aziendale. Ovviamente Si può anche non farne nulla e lasciare le cose come stanno. Per le imprese non interessate un modello che faccia perno su di un rinnovato sistema bilaterale moderno, efficace e territoriale con la possibilità di erogare quote di salario legato ad obiettivi di impresa e pochi (quattro) contratti nazionali che garantiscano welfare e minimi di riferimento e regole generali con spazi di autonomia per settori e comparti specifici potrebbe essere la soluzione auspicabile di una qualsiasi riforma. Al sindacato quindi spetta scegliere la direzione di marcia. Allo stato è più facile ipotizzare che la montagna partorirà il topolino. I due livelli (nazionale e aziendale) tenderanno inevitabilmente ad elidersi a vicenda. Più risorse sul primo, significano inevitabilmente meno sul secondo. Landini dice che uno più uno deve continuare a fare due. La realtà è che, in futuro, uno più uno rischierà di fare zero virgola nella stragrande maggioranza delle imprese oggi ancora coperte dalla contrattazione nazionale. Con tutti i rischi che comporta una modifica che non consideri l’intero contesto di riferimento.

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