Quello che abbiamo lasciato alle spalle è noto ma è difficile intravedere ciò che ci aspetta. Viviamo una transizione dove il 900 con le sue aspettative e le sue “conquiste” sembra sbriciolarsi sotto i nostri occhi.
Tra ascensori sociali che si sono delocalizzati, corpi intermedi in affanno, classe operaia stretta tra élite 4.0 e neo lumpenproletariat, la società post industriale nella globalizzazione si delinea e produce nuove opportunità ma anche nuove disuguaglianze.
Spesso gli osservatori, vecchi e nuovi, con la loro Polaroid d’antan faticano a raccontare la realtà perché la velocità del cambiamento del contesto è maggiore della velocità con cui le persone e le organizzazioni tradizionali sembrano in grado di reagire e adattarsi al nuovo che avanza. Nascono nuovi attori mentre, inevitabilmente, ne soccombono altri.
Dario Di Vico, nel suo ultimo libro parla di questo. Un mondo che “macina” vecchi e nuovi protagonisti e ne scarica conseguenze e contraddizioni sulla parte più debole del Paese.
Di Vico si indigna perché non “legge” nei comportamenti della politica, delle istituzioni e dei corpi intermedi una visione del futuro ma solo un “arrocco” inconcludente teso semplicemente a difendere i propri privilegi.
Non è indulgente. A volte è ruvido. Personalmente lo condivido. Anche quando le critiche diventano dure e difficili da digerire. D’altra parte Di Vico capisce di territori, impresa e lavoro come pochi altri.
La saracinesca che non si alza più, il capannone vuoto, lo striscione di protesta sul bordo della via. I perdenti della Grande Crisi sono spesso presenti nei suoi racconti da cui però emerge sempre comprensione per chi vuole farcela. Parla di persone per bene.
Diffida (con una buona dose di ragioni) anche di chi rappresenta il lavoro (sindacati e parti datoriali). Ne osserva e ne sottolinea ritardi e limiti. Soprattutto di chi, a suo parere, si attarda ad osservare la realtà con lo specchietto retrovisore. O abdica al proprio ruolo.
Ha un grande intuito nello scovare innovazioni, innovatori e pataccari. Il suo ultimo libro, ” Nel Paese dei disuguali”, racconta storie vere supportate da valutazioni e analisi precise. Mai, però, fredde e distaccate statistiche perché c’è sempre la consapevolezza che, in fondo, trattano di persone in carne e ossa.
È un libro da leggere. Parla di ciò che il Novecento, pur dando a molti, ha dato troppo ad alcune categorie lasciandone il peso sulle spalle di altre. Non solo ai più giovani. E della necessità di cambiare gli occhiali attraverso cui la realtà ci appare distorta.
Per chi le volesse cercare, non ci sono risposte nel libro. Ma ci sono tanti spunti di riflessione. E questo credo sia un motivo importante per leggerlo.