Nelle operazioni di M&A occorre accettare la sfida del cambiamento. Nei fatti.

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Ogni cambiamento è sbagliato.Se non è sbagliato si poteva fare meglio.Se al meglio, si poteva fare prima. Ma poi..erano ben altre le priorità.  J. B.

Per quanto si possa studiare e analizzare i dati da fuori, un’azienda resta un’incognita fino a quando quei dati non prendono forma, sembianze e profumo delle persone che li hanno generati. Spesso le operazioni di merger&acquisition incontrano difficoltà  proprio su questo.

Le aziende sono costruite su valori e culture differenti. Hanno tutte gli stessi obiettivi ma ancora prima dei loro modelli organizzativi, delle loro procedure amministrative, di business e di come rispondono al cliente prende forma un modo di essere che le contraddistingue nella loro vita quotidiana.

Ciascuna ha un suo “galateo” di riferimento, un modo di essere e di porsi nei rapporti interni, un modo di gestire responsabilità e compiti che la contraddistingue. Addirittura un proprio linguaggio. Se multinazionale (pur con le dovute eccezioni) le leadership inviate dalla casa madre nelle “colonie” assumono e pretendono atteggiamenti da provincia dell’impero propri del plenipotenziario di turno.

I meriti in genere vengono scippati, le colpe addebitate agli “indigeni”. Tutto questo crea quell’atteggiamento tipico definito degli studiosi della materia con il famoso “protect your ass” che contraddistingue le organizzazioni complesse. Riunioni infinite inutili e gremite di partecipanti, mail usate come armi improprie, reportistica da pubblico impiego, deresponsabilizzazione e tanti silenzi seguiti da improbabili quanto inutili “io l’avevo detto”.

L’azienda non è “solo” business. È un insieme di cultura specifica, modi di essere e di fare, riti e liturgie che tengono insieme una comunità di persone. Quando le cose vanno bene questi modelli chiusi ne amplificano il successo replicandolo in ogni situazione. Quando vanno male ne rallentano la cura.

Ma anche quando vanno bene, creano inevitabilmente le premesse per il loro insuccesso futuro. Le leadership non sono tutte uguali così come i contesti di business.  Quando il  professor Stefano Zamagni parla di “totalismo aziendale” si riferisce proprio a questa incapacità di andare oltre quella impostazione di presunta autosufficienza. Tutto questo da fuori non si vede. Spesso nemmeno dall’interno è percepito come un limite oggettivo che si frappone ad ogni  cambiamento necessario.

Quando un’azienda cede e lascia il campo tutto questo resta e cova sotto la cenere per riproporsi ad ogni errore, ad ogni confronto con i “fasti” del passato, ad ogni decisione. Non è l’evidenza dei numeri o degli insuccessi passati a riorientare la cultura. Questa resta scolpita nella pietra.

I risultati, quando ci sono, la rendono meno visibile ma non la rimuovono. Il management che subentra, in genere ha fretta, deve dimostrare a chi gli ha dato fiducia di essere all’altezza della sfida ma capisce abbastanza velocemente che l’acquisizione ha caratteristiche differenti vista da dentro e spesso ne subisce il clima. 

Dentro l’azienda acquisita non si ha quasi mai la contezza della posta in gioco. L’urgenza del cambiamento è declinata ma non vissuta su di sé. È il cambiamento preteso per gli altri, quello che non deve mettere in discussione nulla di ciò che è stato personalmente e  faticosamente “conquistato”. Le resistenze nascono tutte da qui. Dalla condivisione delle analisi ma dalla diffidenza verso la cura  quando coinvolge direttamente.

Per questo il piano di riorganizzazione e di rilancio non deve avere zone franche. Non ci sono colpevoli da individuare. Ne abiure da pretendere. Deve però avere una sua coerenza di fondo. Per tutti.

Questo non significa che non debbano essere trovate tutte le soluzioni necessarie per evitare di lasciare le persone sole a gestirsi, in solitudine, il proprio futuro. È un errore che rischia di far panicare l’insieme delle risorse coinvolte. Ciascuno valuta e misura ciò che accade agli altri come cartina di tornasole di ciò che potrebbe accadere a sé stesso.

Ed è proprio su questo che il ruolo dei sindacati nel negoziato è importante. Non già quello di inseguire inutili garanzie realisticamente impraticabili. La gestione delle risorse umane, i suoi costi e le sue abitudini organizzative precedenti sono parte di un modello che si è consumato al punto da portare ad un cambiamento radicale.

Non è questione di responsabilità che hanno nomi e cognomi precisi ma di logica conseguente. Le condizioni non sono riproducibili in un nuovo contesto. Anzi. L’insistenza nel volerlo replicare come fosse tutto possibile è un fattore di destabilizzazione ulteriore e di dilatazione dei tempi di integrazione.

Non esiste una logica accettabile che rende equilibrata un’operazione che fa pagare a molti il prezzo per consentire a pochi di continuare come se nulla fosse successo. È un circolo vizioso da spezzare. Diverso è definire un progetto complessivo che determini le condizioni di chi sale a bordo e che consenta, a chi a bordo non potrà salire, di avere a disposizione tutti gli strumenti necessari per potersi ricollocare sul mercato. E, su questo, ciascuna delle parti in causa può esercitare a fondo il proprio ruolo e giocare così la sua partita.

Quando in gioco ci sono comunque migliaia di posti di lavoro distribuiti sul territorio nazionale una gestione attenta delle ricadute e degli effetti collaterali contribuisce ad accelerare le decisioni e a favorire l’integrazione. Per questo si deve muovere in parallelo.

I numeri e le conseguenze non sono mai oggettivi per chi li subisce. Così come le soluzioni non sono mai definitive per chi sottovaluta gli effetti a valle delle proprie determinazioni.  Luigi XIV sosteneva, a ragione “È l’impazienza per la vittoria che porta alla sconfitta”. In operazioni di m&a di notevoli dimensioni il successo è garantito da un mix di ascolto, comprensione dei problemi e capacità di decisione dove ciascuno è chiamato a fare la sua parte con lungimiranza e responsabilità. 

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