Ci sono stati momenti importanti nella vita sociale del nostro Paese dove si è impressa una svolta che ha lasciato il segno nel sistema delle relazioni industriali. Nel 1953 a Ladispoli quando la CISL scelse una nuova strategia rimettendo al centro la contrattazione aziendale, nel 1978 quando la CGIL di Luciano Lama propose una linea di moderazione salariale in cambio di una politica di sviluppo che sostenesse l’occupazione, nel 1984 quando Cisl e UIL decisero di schierarsi con il governo Craxi che decretava il taglio della scala mobile, nel 1993 quando i tre sindacati confederali, insieme, firmano con Confindustria un nuovo sistema di relazioni industriali basato sulla concertazione fra le parti e la politica dei redditi che ha retto fino a poco tempo fa dimostrando una longevità impressionante. Momenti storici che segnalano la consapevolezza messa in campo dai corpi intermedi per governare cicli economici, politici e sociali dove è necessario mettere in campo una grande responsabilità. Oggi occorre prendere atto che ci troviamo di fronte ad un nuovo passaggio cruciale per il futuro del nostro Paese e che impone un vero e proprio cambio di atteggiamento. Da un lato, il contesto politico internazionale, la globalizzazione dell’economia e la necessità di competere in modo nuovo sia sul piano degli strumenti che dei modelli organizzativi. Dall’altro perché sta crescendo sempre di più la consapevolezza che i rischi che comporta questa sfida sono fuori dalla portata della singola impresa e che, quindi, necessitano di uno sforzo complessivo che coinvolga tutto il Paese dalla politica, al sistema economico e finanziario, e a tutta la filiera dalla produzione al consumo. Non a caso il Presidente di Confindustria Boccia parla di corresponsabilità cioè della necessità che cresca una nuova consapevolezza nel Paese e quindi nelle relazioni industriali che consenta di fare squadra e di condividere rischi e opportunità in modo profondamente diverso dal passato. Nel terziario, nei chimici e negli alimentaristi questa consapevolezza è presente da tempo e, non a caso, i contratti nazionali sono stati firmati e consentono, pur in differenti forme, deroghe, rinvii al secondo livello, elementi di governo che hanno dimostrato la loro versatilità applicativa in questi anni. Per riuscire a chiudere il cerchio sarebbe necessario arrivare ad un contratto nazionale dei metalmeccanici che imbocchi anch’esso questa direzione. Solo così il sistema sarà pronto a ad un accordo di alto livello tra le confederazioni datoriali e sindacali privo di ambiguità e in grado di reggere nei prossimi anni. La proposta di Federmeccanica che piaccia o meno ha, in sé, alcuni elementi importanti. Ad esempio una nuova centralità della persona, quindi dell’importanza della contrattazione decentrata, del welfare contrattuale e di una consapevolezza nuova sulla formazione. Non è cosa da poco. Resta un’area di dissenso tra le parti sulla quantità salariale e sulle possibili modalità di erogazione da assegnare al CCNL in rapporto al quadriennio futuro. In altri termini c’è un problema di forma e uno di sostanza. E, come sempre avviene nei negoziati, forma e sostanza si sovrappongono. Il principio posto da Federmeccanica mi sembra chiaro: non si può distribuire ricchezza non ancora prodotta (soprattutto se aggiuntiva al recupero sull’inflazione). E comunque, se assegnata al CCNL, ridurrebbe gli spazi di manovra nella contrattazione decentrata futura. Per il sindacato questa posizione non è accettabile. Inoltre non è chiaro cosa succederà nelle aziende che, per diverse ragioni, non apriranno alcun confronto a livello decentrato. A mio parere su questi due punti solo Federmeccanica può fare un passo avanti all’interno di un percorso complementare all’accordo confederale. D’altro canto la stessa proposta di parte sindacale, che il CCNL debba rappresentare una sorta di minimo di garanzia e che la contrattazione aziendale ritorni centrale nel nuovo modello potrebbe essere colta come un interessante passo in avanti sia in termini qualitativi che quantitativi. In mancanza di chiarezza su questo punto le imprese non daranno alcun mandato a chiudere a Federmeccanica. Per questo, credo, che il passaggio sia estremamente delicato e i tatticismi rischiano di prevalere sulle opportunità. Per terziario, chimici e alimentaristi, al contrario, ha prevalso la coerenza nei comportamenti che ha sempre contraddistinto il loro sistema di relazioni. Il passato (e, per certi versi, il presente) pesa come un macigno sul negoziato aperto nei metalmeccanici. Le imprese non si fidano del fatto che il sindacato sappia proporsi come un interlocutore attivo e lungimirante in questo passaggio di fase. Quindi la posizione sul salario è usata, fino ad oggi, come cartina di tornasole dei comportamenti altrui. Inoltre la parte più responsabile del sindacato non può condividere in tutto o in parte queste proposte e quindi rischia di essere fagocitata da chi non vede utile nessun cambiamento del ruolo del contratto nazionale e quindi della strategie contrattuali. È il cane che si morde la coda. Il rischio che i negoziatori hanno di fronte è che il risultato non rappresenti e non supporti alcuna svolta per questa importante categoria e questo, purtroppo, inciderebbe inevitabilmente sul livello di mediazione possibile ai tavoli confederali. La stagione della corresponsabilità, della collaborazione e della necessità di fare squadra nelle aziende, per affrontare la sfida della globalizzazione, è già iniziata. Non aspetta alcuna formalizzazione. Il punto è se i soggetti vecchi e nuovi che dovrebbero contribuire a costruire il nuovo sistema si predispongono ad accettare la sfida e con quale livello di convinzione. In altre parole come pensano di rientrare in gioco trasformando un’occasione di confronto in una grande opportunità nell’interesse dei propri associati e del Paese. Altrimenti la montagna è destinata a partorire un topolino. Ma questo non rimetterebbe in gioco i corpi intermedi. Né da una parte né dall’altra.