Le carte sono finalmente sul tavolo. Il negoziato sul nuovo modello contrattuale parte in salita, come è ovvio, ma può iniziare. Ai commentatori, in questi giorni, non resta che riportare la naturale esibizione muscolare dei contendenti. Qualsiasi negoziato comincia così. Entrambe le parti in causa ribadiscono le proprie posizioni di partenza. Sarebbe persino ridicolo il contrario. La predisposizione delle cosiddette “piattaforme” rende necessario un grande lavorio di mediazione. Non solo per quelle sindacali. In questo caso, tra l’altro, non c’è nemmeno sul tavolo una proposta precisa di Confindustria. I chimici hanno firmato il loro contratto nazionale e gli alimentaristi stanno trattando su quelle basi. E non credo si offenda nessuno che quei rinnovi vengano considerati nel solco della tradizione con qualche modesta innovazione qualitativa. Federmeccanica, sulla spinta di FCA e delle esigenze di rinnovamento di un settore dominato dalla conservazione in tema di relazioni sindacali, ha sparigliato le carte con una sua proposta. Quindi non c’è una visione comune nelle categorie industriali sul versante imprenditoriale. Non c’è nemmeno una posizione comune tra Confindustria e gli altri settori che vantano, a buon diritto, la loro autonomia sul tema. Il Governo osserverà, da una giusta distanza, l’evolversi del negoziato. Ed è meglio così. Nessuno vuole lasciare le cose come sono oggi. E questo è già un ottimo punto di partenza. I confederali hanno faticato a trovare un punto di incontro condiviso e quindi è impensabile che lo abbandonino prima ancora di aprire il negoziato. Quindi dobbiamo aspettarci un periodo abbastanza lungo fatto di scambi di accuse, di trincee scavate, da una parte e dall’altra e prese di posizioni ufficiali sui media con conseguente banalizzazione degli argomenti altrui. Qualche politico ha già cominciato definendo “ferro vecchio” la proposta sindacale ed esaltando la proposta di Federmeccanica. Credo che, nelle prossime ore, ci dovremo aspettare analoghi comportamenti da qualche esperto di provocazioni della sinistra politica e sindacale. Niente di nuovo. Anche questo fa parte dei riti e delle liturgie dei negoziati importanti. In entrambi i campi ci sono però esperti negoziatori che sanno dare un giusto peso a queste sortite. Le posizioni sono distanti ma non incolmabili. C’è un tema legato alla quantità di risorse da mettere sul tavolo, con quali tempi e come ripartirle se i tavoli dovessero aumentare. Un altro legato alle modalità di erogazione da utilizzare per consentire al lavoratore di guadagnare il massimo possibile e all’azienda di spendere il minimo possibile. Il tutto condito da forme di partecipazione, più o meno convinta e convincente e di sostegno al welfare aziendale. Il rischio che la montagna partorisca il classico topolino è molto alto. Il 2016 è un anno a “difficoltà progressive” per il Governo. Aprire un altro fronte con la sinistra politica e sociale non serve a nessuno, soprattutto al premier. Quindi fare un accordo serve a tutti. Al sindacato che potrebbe uscire dall’angolo nel quale è finito dove i contratti nazionali o aziendali rischiano di non rinnovarsi mai. Alle imprese perché avere certezze sui costi e una migliore gestione del clima interno possono accompagnare meglio la ripresa. E, infine al Governo, che non si troverebbe a dover pagare il conto come è avvenuto molte volte in passato. Tutto bene, quindi? No. Siamo solo al via. Purtroppo nel nostro Paese non sempre ciò che sarebbe giusto e utile si realizza facilmente. Occorre pazienza e impegno. E questo non credo manchi ai negoziatori.
La proposta unitaria sulla contrattazione: un passo avanti.
Misurare la distanza tra la proposta sulla contrattazione di Cgil-Cisl-Uil che verrà ufficialmente presentata giovedì e quella di Federmeccanica serve a poco così come pensare che, in un Paese dove la contrattazione aziendale è un fenomeno assolutamente marginale, il Sindacato potesse abbandonare con eccessiva superficialità le sponde sicure dei contratti nazionali o di vecchi o nuovi automatismi più o meno efficaci. Tre elementi importanti di sfondo caratterizzano la proposta e, per questo, sarebbe utile, oggi, concentrarsi su di essi. Il primo. Un documento unitario sulla stessa ragion d’essere di un sindacato, la contrattazione, non è cosa da poco. Chiude, di fatto, una parentesi durata più di un ventennio. La stagione degli accordi separati, dei contratti non firmati da questa o quella sigla di categoria non hanno pagato. Ed oggi questo è chiaro a tutti. Le divisioni hanno contribuito a indebolire la capacità di iniziativa di tutto il sindacato confederale. E che la CGIL scelga decisamente la strada di un accordo con CISL e UIL in aperto contrasto con la FIOM dimostra la forza e la credibilità nelle sue articolazioni sul territorio e nelle categorie dell’attuale gruppo dirigente confederale. In secondo luogo la conferma decisa sul tema della partecipazione dei lavoratori allo sviluppo delle imprese attraverso un sistema duale. Una sorta di modello partecipativo tedesco adattato alla specificità italiana. In terzo luogo l’esigibilità erga omnes dei contratti nazionali. Il resto è materia di un negoziato che si annuncia complesso, lungo e difficile ma quello che importa è la direzione di marcia. Federmeccanica ha, dal canto suo, presentato una ipotesi stimolante. Difficilmente digeribile dal sindacato dei metalmeccanici ma, non per questo, etichettabile in modo tradizionale o liquidabile con qualche slogan. La cautela nelle dichiarazioni ufficiali espresse fino ad oggi ne rappresenta la conferma. Le carte sono sul tavolo. Le posizioni sono molto distanti ma non inconciliabili. Adesso tocca ai negoziatori. Confindustria dovrà decidere se questa partita sarà chiusa dall’attuale presidenza o dalla prossima. Lo stesso varrà per i sindacati che, su questa impostazione, si giocano i prossimi congressi. Ma non c’è solo Confindustria in campo. Confcommercio resta firmataria del più importante contratto nazionale e altri comparti sono interessati a dire la loro senza subire vecchie egemonie che non hanno più ragioni di esistere. Finalmente si apre una fase nuova per le relazioni sindacali del nostro Paese e soprattutto si chiude quella che ci ha accompagnato dagli anni ’60 del secolo scorso. Era ora che quel modello andasse in pensione. Speriamo sia la volta buona.
Chi fa da sé, non fa per tre…
Nuove associazioni di imprese, di professionisti, di attività. L’ultima, in ordine di tempo, è nata a Firenze con lo scopo di mettere a fattor comune i problemi di chi affitta il proprio appartamento su AIRBN. È un segno dei tempi o si rischia, ancora una volta, di confondere un alba con un tramonto? È già successo con i sindacati dei lavoratori. Intorno al sindacalismo confederale sono nate e si sono sviluppate una infinità di sigle che non hanno mai contato nulla e che non hanno portato risultati apprezzabili e concreti ai propri iscritti. Solo disagi a terzi. Nei professionisti sta succedendo, più o meno, la stessa cosa. Tanto fervore organizzativo ma due ostacoli restano comunque insormontabili: la mancanza di risorse che impedisce ristorni significativi da parte pubblica per i rispettivi soci e, pensando a lungo termine, la scarsa massa critica per operazioni di necessarie nuove forme di welfare a favore dei propri associati. Resta solo la convinzione di avere un maggiore peso contrattuale mettendosi insieme evitando, contemporaneamente, le grandi organizzazioni di rappresentanza. E cosi un’attività che nasce proprio per disintermediare, ai primi problemi, propone forme di aggregazione tradizionale. Da qui la prima riflessione. Fare da soli è comunque molto difficile. Soprattutto quando l’interlocutore principale è di grandi dimensioni e agisce in un contesto planetario e anche lo Stato nazionale arranca e insegue con le sue leggi e le sue determinazioni. In secondo luogo è necessaria, sia una struttura per finalità specifiche (federazione, associazione, ecc.) ma anche un contenitore più ampio che consenta autorevolezza, forza e massa critica utile a moltiplicare l’effetto associativo verticale. Le principali organizzazioni di rappresentanza sono, da sempre, strutturate in questo modo. È la loro forza sia localmente che centralmente. E, soprattutto, le grandi organizzazioni datoriali ma anche quelle dei lavoratori sono strutturalmente integrate nel Sistema e quindi conoscono, rispettano ma contribuiscono anche a modificare a proprio vantaggio le regole del gioco. E questo resta un punto di forza soprattutto quando la partita non si svolge solo nel proprio cortile di casa. Queste nuove realtà spesso nascono e si sviluppano fuori dalle regole proprio perché sfuggono ad una valutazione tradizionale. Un agriturismo, una sagra di paese, un bed and breakfast, un affittacamere, se fanno attività dove altri sono soggetti devono sottostare a regole precise (igiene, sicurezza, contabilità, fisco) sono tenuti anch’essi a rispettarle o no? Stesso mercato, stesse regole vale per tutti o solo per chi opera in un settore da più tempo? Ovviamente nessuno vuole impedire la nascita di nuove attività sia in campi tradizionali che ovunque ma le regole sono importanti se valgono per tutti. I corpi intermedi hanno questa capacità di operare sintesi rispettate dai propri associati. Pensare di scavalcare questo ruolo non rende tutti uguali, semmai tutti più deboli.
Lotta all’evasione fiscale, vera battaglia di civiltà.
La prima conferenza televisiva del nostro Presidente della Repubblica verrà ricordata per le parole chiare e nette che ha pronunciato sullo scandalo dell’evasione fiscale nel nostro Paese. Non è un caso, che, anziché limitarsi ad un forte quanto generico appello sul tema, ha volutamente citato una recente ricerca di Confindustria pubblicata da poco tempo e caduta immediatamente nel dimenticatoio. Secondo me ha voluto indicare un confine. Un limite ormai intollerabile. Il punto di passaggio necessario dalle parole ai fatti. L’evasione fiscale non è solo un grave problema economico per un Paese come il nostro. E non divide semplicemente i buoni dai cattivi cittadini. E soprattutto, non sempre, i cattivi sono gli “altri”. Ci sono le multinazionali che scelgono residenze fiscali convenienti, industriali, commercianti, artigiani e professionisti di diversa estrazione. Perfino il giovane o l’insegnante pubblico che danno ripetizione in nero al figlio del cassaintegrato in difficoltà con gli studi. C’è una grande evasione e una diffusa mentalità indulgente verso vari tipi di evasione. Ciascuno di noi, sul tema, giustifica ciò che gli pare. Ma, oltre alla solita litania su scontrini, idraulici e dentisti, c’è anche la malavita organizzata, la corruzione, il lavoro nero, lo sfruttamento dei lavoratori stranieri. E di questa “evasione” si parla molto meno. È evidente che siamo al cospetto della madre di tutti i nostri problemi. Combattere sul serio l’evasione significa cambiare veramente la qualità del nostro Paese. Ma è un’impresa difficile che deve mobilitare tutte le coscienze. Altrimenti è un’impresa impossibile. Per questo il nostro Presidente ha fatto bene a parlarne. Al Governo e al Parlamento spetta agire già nel 2016. Altrimenti resteranno parole al vento che rischiano di coinvolgere nel giudizio anche la più alta autorità morale del Paese che ha indicato le priorità del 2016. Dal punto di vista economico c’è già maggiore consapevolezza nel Paese. La cassa è vuota, le tasse sono oltre al limite di sopportazione e non sarà lo zero virgola concesso di volta in volta da Bruxelles a far cambiare verso all’Italia. Aumentare le entrate riducendo con gradualità la pressione fiscale significa far pagare le imposte a chi non le paga. La metà dell’evasione censita dal centro studi di Confindustria porta ad un’aumento di 3,5 punti del PIL quindi, si stima, ad un effetto sull’occupazione superiore al Jobs Act. E questo senza mettere le categorie, i territori e le generazioni gli uni contro gli altri. È l’unica possibilità nel breve/medio periodo di aumentare considerevolmente le entrate. Per farlo, però, serve un vero patto nazionale. Ma soprattutto serve che nessuno si smarchi. Non tutti hanno applaudito il discorso del nostro Presidente. Però quelli che hanno applaudito sono indubbiamente la maggioranza. Anzi. Siamo la maggioranza. Forse serve solo qualcuno che interpreti questa nuova disponibilità all’ascolto e alla concretezza. Il fatto che per la prima volta il monito sia partito dalla più alta carica dello Stato è veramente importante.
Buon Anno!
Ogni anno nuovo è importante. Il 2016 lo è ancora di più perché si capirà se la ripresa c’è ma soprattutto quanti ne potranno concretamente beneficiare. Pur sapendo benissimo che nulla sarà come prima coltiviamo tutti la speranza che, almeno ciascuno di noi, sul piano individuale, possa “tirare il fiato” e togliersi di dosso, almeno in parte, quella preoccupazione per il futuro, per sé e per i propri figli. Forse ha ragione Checco Zalone. L’Italia nella quale siamo nati e cresciuti, un po’, ci manca. Da un lato c’è indubbiamente chi vorrebbe uscirne in fretta ma, dall’altro, si fa strada il rimpianto, giusto o sbagliato, che allora c’era posto per quasi tutti mentre, nel mondo che ci aspetta, non sarà certamente così. O meglio che sarà molto più difficile raggiungere i propri obiettivi e riuscire a mantenerli nel tempo. Sappiamo tutti che non si possono paragonare situazioni avvenute in ere geologiche differenti. In mezzo ci sono l’euro, il muro di Berlino e la globalizzazione. La crisi economica, le guerre e le migrazioni hanno fatto il resto rendendo inadeguati tutti i nostri strumenti di previsione e di riflessione. La Politica, dal canto suo, è deflagrata perdendo autorevolezza e favorendo il ritorno in superficie di malesseri sociali, egoismi individuali, contraddizioni tra territori, categorie, generazioni e ceti sociali che rendono sempre più difficile il compito di ricomposizione che spetterebbe proprio a chi governa la cosa pubblica. Le elites culturali o non dicono più nulla di interessante sul piano sociale, o la buttano quasi sempre in politica. Spesso parlano sottovoce lasciando il campo agli urlatori di professione. La stessa idea di disintermediazione porta inevitabilmente acqua al mulino del “fai da te” economico e sociale che, in un Paese, forte del suo tessuto di piccole e piccolissime imprese, è l’esatto contrario di quello che servirebbe. Il problema non è costruire una nuova immagine del nostro Paese nel mondo. Quella non cambierà tanto presto. Più che preoccuparci di come ci vedono altrove dobbiamo pensare a come ci dobbiamo vedere tra di noi. Ricostruire un senso civico, superare la continua litigiosità politica su problemi dove la concordia nazionale dovrebbe essere scontata, mettere da parte modesti interessi di categoria o di ceto e darsi da fare per rimettere in piedi una comunità nazionale che condivide valori, il cammino da compiere e i sacrifici per realizzarli. Abbiamo un grande Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha dedicato la propria vita a questi valori e alla loro concreta realizzazione. Bene, ascoltiamolo questa sera, nel suo primo discorso di fine anno, cogliamo l’essenza del suo pensiero e cerchiamo di trasformare il 2016 in un anno veramente nuovo e innovativo. Innovativo per la qualità dei rapporti tra noi cittadini e lo Stato, innovativo per le relazioni tra le categorie economiche, le organizzazioni di rappresentanza, le generazioni e le singole persone. Solo così faremo, insieme, qualcosa di diverso e di utile per i nostri figli. E infine, Buon Anno a tutti i 6811 visitatori del mio blog che dal 15 giugno 2015 hanno deciso di dedicare parte del loro tempo alle riflessioni che propongo!
Mario Sassi
L’inutile sforzo della disintermediazione…
Delle teorie modernizzatrici del nostro Premier quella sulla inevitabile necessità di delegittimare le grandi organizzazioni di rappresentanza è la meno comprensibile. I grandi sindacati datoriali e dei lavoratori mantengono un radicamento, una credibilità e una presenza capillare sul territorio che i Partiti non hanno più da anni. Sono, al di là dei luoghi comuni, di sicura utilità per i propri associati sia in termini di difesa, di risposta a problemi specifici che di proposta. Certo, è indubbio che la crisi ne abbia rallentato l’iniziativa, offuscato l’immagine e rallentato l’azione. La crisi, dunque, non le convinzioni del Presidente del Consiglio. Gli opinionisti, in questa querelle, si sono divisi tra chi ha ha seguito l’onda, soddisfatto, perché ha sempre tifato per la loro messa in mora e chi, al contrario, deluso dalla lentezza dei cambiamenti, ha preferito suonare “le campane a morto” sulla vitalità e sulle prospettive dei corpi intermedi. Mi spiace che Di Vico sul Corriere abbia scelto questa strada. Personalmente non la condivido. Parto dal fondo. Fosse anche e solo perché questa azione di delegittimazione favorisce le spinte populiste e demagogiche che rischiano di frantumare il Paese, le generazioni e le categorie produttive, dovrebbe essere motivo sufficiente di un rapido ripensamento. Il Paese ha bisogno di unità e di condivisione per affrontare le sfide che ha di fronte e per “cambiare verso” sul serio. Le organizzazioni di rappresentanza hanno tanti problemi ma hanno anche la consapevolezza che occorre cambiare in profondità. Ciascuna di loro nelle rispettive autonomie sta procedendo in questa direzione. Si può criticarne la lentezza, le incrostazioni burocratiche, forse anche la presunta autosufficienza e perfino, in alcuni casi, l’autocompiacimento, non la volontà di procedere in quella direzione. Sono importanti comunità in cammino leali verso le istituzioni, consapevoli della posta in gioco e disponibili a dare il loro contributo. Questa è una stagione diversa da quella della concertazione. È una lunga stagione di transizione. Nei prossimi anni si giocherà una partita nella quale le elites culturali, economiche e sociali rischiano di illudersi se pensano di giocarla senza un vero radicamento popolare. Il rischio, oggi, di gettare il bambino con l’acqua sporca è reale. È necessario predisporsi ad una nuova fase di convergenza e di collaborazione e, le organizzazioni di rappresentanza, possono e debbono giocare un ruolo importante. Occorre forse ripensare ad un luogo di incontro innanzitutto per tutte le organizzazioni datoriali ma anche per le organizzazioni sindacali. Un luogo nuovo di elaborazione e proposta comune. E da questo luogo lanciare una sfida positiva sul futuro al Governo e al Presidente del Consiglio. L’alternativa è insistere con un Paese spaccato, rancoroso, chiuso nei piccoli e grandi egoismi di categoria, di territorio e di generazione. Questo sforzo di unità va fatto e va fatto velocemente. Prima che l’Europa venga vissuta dai più come una matrigna con tutte le conseguenze del caso e che le guerre, sempre più vicine, ci impongano pesanti costi a cui non siamo preparati.
Pensiero per le feste….
Proposta Federmeccanica: luci e ombre del “rinnovamento contrattuale”
Nell’incontro ufficiale di ieri si è finalmente materializzata la tanto attesa proposta di “rinnovamento contrattuale” di Federmeccanica. Chi si aspettava la solita strumentale presentazione limitata alle pessime condizioni del settore e alle prospettive altrettanto incerte non è stato accontentato. Ieri, secondo me, è accaduto qualcosa di nuovo che contribuirà, nel bene o nel male, a ridisegnare il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese. Mentre mi aspetto un “respingimento” pavloviano dalla FIOM credo che, in queste ore, in casa FIM e UILM prevalga la cautela pur nell’insoddisfazione complessiva. Non essendo presente all’incontro mi posso solo limitare ad una lettura di ciò che è presente in rete. Innanzitutto non è previsto alcun aumento automatico per tutti. Il contratto nazionale diventa il regolatore economico autentico dei minimi di categoria. Solo chi nel periodo precedente di riferimento è rimasto sotto quel minimo potrà percepire l’adeguamento salariale. Ed è questo il punto su cui i sindacati sono in maggiore difficoltà perché sostengono, a ragione, che ci si troverebbe di fronte ad un rinnovo contrattuale che, per la parte economica, riguarderebbe solo una modesto numero di lavoratori. E questo non è positivo. Per Federmeccanica, questo aspetto, va messo però in relazione con una apertura a nuove forme di adeguamento salariale aziendale legata ad obiettivi. Non è chiaro però se, questi adeguamenti avvengano attraverso forme di contrattazione, di che tipo, tra quali soggetti e con quale cadenza. Fino a qui il salario. Il punto vero di svolta è, però, sul resto. Se azienda e dipendenti, attraverso i propri rappresentanti, investono sul welfare, collaborano. Questo è il punto. E decidere di collaborare è il primo gradino verso forme più o meno ampie di partecipazione. Il fatto che la proposta venga da Federmeccanica è una novità importante e significativa. Credo che nessuno possa sottovalutarla. Si può discutere la dimensione della proposta, i suoi limiti, la sua praticabilità in decine di migliaia di imprese piccole e piccolissime. Non la novità che sottende. Non sarà un percorso contrattuale facile. Non lo sarà perché costringerà tutti i soggetti coinvolti a scoprire le proprie carte e a decidere quale strada percorrere. Per certi versi questa proposta rende già un po’ vecchia la stessa posizione di Cgil Cisl Uil sulla contrattazione. Nel migliore dei casi la mette immediatamente alla prova dei fatti. Vedremo quali saranno le reazioni.
Contratto nazionale? Si, no, forse…
Nelle discussioni sui futuri livelli della contrattazione la contrapposizione è ormai chiara: da un lato viene presentata una caricatura di un ipotetico contratto nazionale come uno strumento vecchio, distante dalle aziende e dai problemi reali e dall’altro l’opportunità di negoziare facilmente nei singoli luoghi di lavoro o altrove attraverso uno strumento nuovo di zecca: il contratto aziendale e/o il contratto di settore. Messa così, l’alternativa non si pone. Tra una cosa vecchia, distante, complicata, omnicomprensiva e una nuova, rapida e su misura la scelta sembrerebbe obbligata. Ma è proprio così o siamo di fronte ad una semplificazione furbesca o di chi fatica a comprendere il complesso sistema contrattuale e il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese? La vicenda FCA è emblematica nel suo essere un caso pressoché isolato e difficilmente imitabile. Un’azienda di grandi dimensioni, sostanzialmente unica nel suo settore esce dal CCNL di riferimento per costruirsene uno disegnato sulle proprie esigenze. Nulla di sconvolgente. Se avesse avuto la possibilità di derogare le norme ritenute obsolete e di non subire la reazione dei dissidenti e l’effetto paralizzante dei loro inevitabili ricorsi in tribunale, non lo avrebbe fatto. In quel contesto non era possibile fare altro sia per l’evidente opposizione della FIOM ma anche per problemi di equilibrio complessivo in Federmeccanica e quindi anche in Confindustria. Uscire da tutto ciò che avrebbe potuto ritardare il processo di cambiamento organizzativo in atto è stata una scelta tutto sommato, ragionevole. E, per questo, nessuno l’ha messa in discussione. Anzi, tre importanti organizzazioni radicate in quel contesto (FIM, UILM e Fismic) si sono dichiarate disponibili a seguire l’azienda in quel percorso. E infine, anche i lavoratori, visti gli esiti referendari, hanno approvato sia il percorso che il nuovo contratto. Cosa ha reso possibile quella scelta dunque? La presenza di un’azienda che gioca sul piano globale che rappresenta di fatto un intero settore, tre sindacati convinti e determinati a condividere una scommessa sul futuro e i lavoratori pronti a sostenerla. In altri contesti, però, non ha funzionato. Il caso di Federdistribuzione lo dimostra efficacemente. Una Federazione che raggruppa un numero importante di imprese della GDO (escluso le catene che fanno capo a Confcommercio, Coop e Confesercenti) decide di uscire dal contratto del terziario firmato da Confcommercio proponendo alle organizzazioni sindacali di farne uno specifico. Il quarto CCNL della GDO. Sarebbe bastato questo ultimo dato per fermarsi e riflettere, ma così non è stato. I vertici della Federazione si sono predisposti a impostare una piattaforma “nazionale” sostanzialmente indigeribile e impraticabile per qualsivoglia interlocutore e, infatti, nessun sindacato ha mai dichiarato esplicitamente di volere entrare nel merito. Al massimo qualche apertura generica sull’opportunità di continuare a confrontarsi e questo più per volontà di protagonismo di singoli esponenti sindacali che per reale disponibilità a concessioni concrete. Nonostante ciò si è preferito andare comunque avanti, forzando la situazione, abbandonando i fondi del welfare contrattuale del CCNL del terziario e lanciandosi in un negoziato senza rete sperando in una conclusione che, per come è stata prospettata fin dall’inizio alle imprese, non potrà mai esserci. Quando chi gestiva la trattativa si è accorto che Federdistribuzione non poteva continuare ad applicare sine die un contratto scaduto di cui non era firmataria e che non sarebbero stati in grado di farne uno nuovo, era ormai troppo tardi. Nel frattempo è stato rinnovato il contratto del terziario da Confcommercio lasciando Federdistribuzione e chi ne ha seguito la linea in una palude fatta di possibili ricorsi, agitazioni, malcontento dei collaboratori e isolamento organizzativo da cui sarà difficile uscire perché il livello di mediazione rischia di diventare sempre più difficile per tutti. E questo, sia chiaro, non è un bene né per le imprese né per i lavoratori. L’idea di farsi ciascuno il proprio contratto in una fase nella quale i contratti nazionali andrebbero ridotti e semplificati si è dimostrata ingenua e impraticabile. Quindi sostanzialmente inutile. Federdistribuzione aveva ed ha un ruolo ben più importante da svolgere nella tutela delle imprese della Distribuzione Organizzata. Si è purtroppo sottovalutato che le aziende della GDO hanno, negli anni, beneficiato dall’essere parte del CCNL del terziario. Addirittura lo hanno sempre condizionato a loro favore “nascondendosi” spesso dietro le difficoltà economiche delle piccole imprese e che, semmai, i guasti sono stati provocati proprio dalla contrattazione aziendale nella GDO stessa dove il rischio di volubili rapporti di forza interni (con minacce di blocco dei centri logistici e dei punti vendita) hanno spinto le DHR ad accordi tattici che, nel tempo, si sono rivelati trappole da cui, oggi, non è facile uscire. Inoltre la sovrapposizione temporale con il contratto nazionale della Cooperazione, che ha una necessità forte di riallineamento dei costi verso le aziende concorrenti che si riconoscono anche in Federdistribuzione, rende ancora più complesso il tutto. “Far da soli” ha senso quando l’obiettivo è quello di marcare un nuovo campo da gioco, insieme, non quello di “declinare crescendo” per riposizionarsi, in perenne lotta tra insegne. Un contratto nazionale senza scambio vero sui contenuti né basato su una scommessa sul futuro né su di un forte riconoscimento reciproco è fuori dalla realtà. Quello che è mancata è una leadership vera e riconosciuta di un’azienda con le idee chiare sulle altre come è sempre avvenuto in passato ma anche e soprattutto un’influenza e un’autorevolezza dei vertici della Federazione stessa sull’insieme delle imprese associate. E, mancando questa determinazione, non è stato trovato nessun interlocutore sindacale disposto a condividere quel disegno assumendosene le relative responsabilità anche perché, quelli che viviamo, non sono più tempi favorevoli ad accordi separati. Questi due estremi (FCA e Federdistribuzione) dimostrano che la strada maestra da percorrere è forse un’altra. Ed è quella già prevista dal CCNL del commercio che, non a caso, è il contratto nazionale più utilizzato dalle imprese italiane di ogni dimensione e di differenti settori del terziario. Quella che, in caso di necessità, possa prevedere delle deroghe di comparto da concordare su casi concreti all’interno di un corpo solido e riconosciuto. Si può fare di più e meglio? Certamente. Ad esempio studiando in futuro materie specifiche, nuovi livelli di competenza, maggiore autonomia, ulteriori deroghe. Ma questo solo all’interno di un CCNL unico, forte e rappresentativo. Questo, tra l’altro, consentirebbe di risparmiarsi “goffe” dichiarazioni sulla presunta insostenibilità di un aumento medio di 85 euro lordi scaglionati, di fatto, in quattro anni che l’insieme della GDO non potrebbe permettersi al contrario delle imprese dello stesso comparto e delle stesse dimensioni aderenti a Confcommercio. Solo una cosa un contratto nazionale o aziendale non può comprendere e cioè che una parte, unilateralmente, possa decidere quello che gli pare. Napoleone sosteneva che: “tutto si può chiedere ai propri soldati meno che sedersi sulla punta delle baionette”. Ecco. Se qualcuno pensa che la contrattazione nazionale o aziendale sia solo una richiesta formale di resa ai sindacati temo non abbia capito il contesto sociale e politico del nostro Paese. C’è una profonda differenza tra ciò che l’azienda può concedere individualmente e unilateralmente al proprio collaboratore e ciò che può o deve negoziare con i sindacati sul piano collettivo. Così come tra un livello aziendale dove può prevalere una esigenza interna o uno scambio anche “tattico” e un livello nazionale dove nessuno può imporre nulla alla propria controparte e tutto assume un rilievo politico e di principio. Per questo occorre un luogo terzo che definisca i minimi contrattuali, le norme generali e le regole del gioco evitando così il rischio di dumping tra aziende. E che si faccia carico del welfare contrattuale. Anche perché dovrebbe essere interesse di tutti il suo sviluppo, integrativo e complementare, al welfare pubblico con la creazione di masse critiche importanti. Inoltre nulla impedisce, ad esempio, di assegnare compiti precisi ai diversi livelli attraverso “clausole di dissolvenza” che lascino il tempo alle imprese che lo volessero di raggiungere accordi alternativi o applicare più o meno integralmente il CCNL di riferimento. Addirittura nulla impedirebbe di identificare un “minimo di garanzia” per ciascun comparto sotto il quale nessuno può scendere lasciando alle parti, nelle singole aziende, la possibilità di integrarlo verso l’alto o di comprenderlo con formule incentivanti o di coinvolgimento su specifici obiettivi aziendali. Ma questa non è una discussione che si può condurre sui media. Occorre che le parti sociali coadiuvati dagli esperti della materia possano confrontare proposte, soluzioni e contropartite accettabili. Modificare un modello contrattuale per renderlo attuale e in grado di rispondere alle necessità di oggi è di domani per le imprese e per i lavoratori non è materia semplice. La dimensione delle imprese, i settori, la loro collocazione nel territorio pesano quanto la cultura dei singoli imprenditori, dei lavoratori e delle loro rappresentanze sindacali. Trovare una soluzione non sarà semplice. Sicuramente sarà necessario.
Lo sciopero e la sua attualità.
Trovo interessante lo spunto di di Vico sul Corriere di oggi sul ritorno di attualità dello sciopero. Medici, trasporti, GDO, tre indizi fanno una prova. È un ritorno al passato o un segnale debole di disagio sociale che viene colto da alcuni e sottovalutato da altri? Forse occorre partire da un altro punto di osservazione. La crisi, la disoccupazione, la paura di perdere il posto di lavoro costituiscono, da sempre, un deterrente fondamentale sul piano individuale, ad aderire o meno a forme di protesta costose sul piano economico. Più l’obiettivo è distante, omnicomprensivo e ‘politico” meno coinvolge. La credibilità di chi propone l’iniziativa poi fa la differenza. Ma nessuno di questi o altri elementi risolve il disagio che cova sotto la cenere. Un disagio economico, professionale, familiare e relazionale. Di Vico, giustamente, parla di welfare aziendale, sharing economy, staffetta generazionale e tutto quell’insieme di politiche riformiste che non accendono il cuore delle persone come antidoto possibile ma rischia di sottovalutare l’incoerenza continua dei messaggi che passano e contribuiscono ad alimentare il disagio dei singoli. Come può una commessa di supermercato accettare l’idea che 85 euro lordi e scaglionati in tre anni siano fuori dalla portata delle aziende della GDO? Un medico, un insegnante o un poliziotto per bene sentirsi paragonati, ad esempio, agli impiegati di una particolare regione sotto inchiesta o di un comune dove un vigile in mutande timbra il cartellino e non sentirsi indignati? Ciò che crea l’humus sul quale si innesta la reazione (per ora a macchia di leopardo) è l’ingiustizia diffusa che si percepisce e alla quale non c’è spiegazione che tenga. Sembra che tutto ciò che di negativo c’è nella nostra società sia ritenuto normale e scontato mente tutto ciò che riguarda il rapporto tra le persone, la loro dignità, il loro reddito, la loro futura pensione, i loro risparmi e il loro lavoro siano, appunto, problemi loro. È su questo che si crea il distacco. Ed è su questo che si crea la “necessità” di reagire. La risposta non sono le palestre, il welfare o un riformismo astratto che non incide nella vita quotidiana, non ne permea i valori di riferimento individuali che si sono via via persi spingendo le persone ad occuparsi dei fatti propri e della propria sopravvivenza fregandosene di tutto ciò che è comunità, socialità e condivisione. Si è incattivito il contesto sociale e tutti rischiano di continuare cercare scorciatoie che, purtroppo, non esistono. Questo disagio crescerà. Lo vediamo nei rapporti interpersonali, nell’accettare o meno il rapporto con lo Stato, nella clamorosa distanza tra ciò che i media ci offrono in termini di segnali di cambiamento o di interesse e la specifica realtà individuale fatta di problemi semplici ma spesso privi di soluzioni altrettanto semplici. Addirittura sembra che ai problemi reali le uniche risposte siano lo sfogatoio inconcludente dei salotti televisivi o una bella statistica che spiega in modo dotto e supponente che il problema è sempre un altro e che il “mio” problema me lo devo tenere… E allora lo sciopero non è più un antico rito collettivo di condivisione e solidarietà tra uguali ma è, al contrario, un segnale di insofferenza, di reazione individuale incattivita dal rendersi conto che i propri problemi economici, professionali umani non sono ritenuti importanti da nessuno di coloro che dovrebbero occuparsene. Io credo che il nocciolo della questione stia qui. Se le persone non trovano risposte al loro disagio, si incattiviscono, si irrigidiscono nelle loro convinzioni e cercano di reagire in qualche modo. Compito dei riformisti dovrebbe essere quello di comprendere questo disagio e riportarlo entro limiti accettabili cercando risposte concrete e non limitandosi ad alimentare domande. Altrimenti, dobbiamo saperlo che chi si mette alla testa di questo malcontento sta lavorando, più o meno inconsapevolmente, per il re di Prussia….