Eppur si muove….

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A leggere i giornali sembra immobile. Per alcuni, ormai inutile. Per altri addirittura dannoso. Il Sindacato confederale italiano è messo continuamente in discussione. Sembra affetto da una crisi irreversibile incapace di affrontare un contesto politico, sociale ed economico in continua evoluzione. Non è così. I contratti nazionali che si sono chiusi o che si stanno chiudendo coinvolgono importanti settori produttivi. Non tutti, ovviamente, ma sicuramente quelli che hanno, da sempre, saputo proporre o accettare “scambi” importanti sul piano negoziale. Sono categorie che difficilmente hanno dovuto impegnarsi in prove “muscolari” nei rinnovi contrattuali degli ultimi trent’anni. Se togliamo i chimici che si sono guadagnati da sempre e sul campo il diritto a contrastare sul piano della strategia contrattuale i metalmeccanici, gli alimentaristi e il sindacato del commercio sono sempre stati ritenuti incapaci di produrre riferimenti validi in termini di innovazione ma solo fino a quando i rapporti di forza si sono modificati provocando la crisi dell’egemonia dei metalmeccanici e della loro cultura sul resto del sindacato. Questo ha consentito nel tempo, ad esempio nel terziario, di costruire un solido sistema bilaterale e un welfare di qualità negoziando anche nastri orari, part time, misure di contrasto all’assenteismo e lavoro domenicale particolarmente indigesti per una cultura sindacale tradizionale e accompagnato, nello stesso tempo, lo sviluppo delle imprese. Negli alimentaristi e nei chimici si è impostato, negli anni, un modello di contrattazione aziendale di qualità che ha permesso di affrontare con intelligenza e visione del futuro le ristrutturazioni e le concentrazioni aziendali che si sono via via succedute. Oggi, pur a rapporti di forza profondamente cambiati, quella lungimiranza maturata in tempi passati consente a queste categorie la firma di importanti contratti nazionali e la continuazione di un dialogo utile alle imprese e quindi anche ai lavoratori con l’appoggio forte delle confederazioni. La proposta di “sindacato dell’industria” maturata in casa Cisl consentirebbe, anche ai metalmeccanici, di ritornare a giocare un ruolo forte e condiviso pur nelle diverse sensibilità categoriali che saranno chiamate a costituire questo nuovo soggetto. Resta fuori la FIOM ma la recente scelta di giocare sul confine tra aggregatore sociale e nuovo soggetto politico la porterà a subire le contraddizioni di un’area che, da sempre, vive tra leadership di scopo, agitatori politici d’antan e neo “sandinisti” in concorrenza perenne con i grillini che mantengono comunque una capacità di movimento maggiore e meno vincolata da storie personali e dalle ideologie. La Cgil, nel suo complesso ha tutto l’interesse a giocare di sponda con le altre due organizzazioni confederali e, di conseguenza, l’importante carta dell’unità sindacale, sia per ragioni difensive e di merito ma anche per il suo indubbio potenziale aggregativo. Va inoltre dato merito alla gestione di Susanna Camusso di aver avviato e portato avanti un processo di rinnovamento e ringiovanimento profondo nelle strutture di categoria e confederali che non tarderà a dare frutti anche sul piano politico. Contesto che invece è ancora “a macchia di leopardo” nelle altre due organizzazioni confederali. Comunque i processi di cambiamento sono in atto pur non essendo visibili nettamente agli osservatori distratti o in cerca di scoop troppo semplicistici. Sono processi decisamente lenti (forse troppo) che però segnalano una vitalità che caratterizza tutte le organizzazioni di rappresentanza radicate nei territori, che mantengono solidi valori di riferimento e che, nonostante qualche “mariuolo” e qualche burocrate di troppo, restano ancora un solido punto di riferimento per tutti coloro che non sono in grado di difendersi da soli. L’accordo sulla rappresentanza e la inevitabile intesa sulla contrattazione che presto arriverà vanno ovviamente in questa direzione. E questo al di là del giudizio che si può avere sull’efficacia concreta di queste intese. Quello che manca è forse la volontà di dichiarare esplicitamente e inequivocabilmente il cambio di passo e quindi la nuova direzione di marcia. Pesano sicuramente i guasti prodotti dalla deriva identitaria che ha caratterizzato ben oltre il necessario la storia recente dei rapporti tra le diverse organizzazioni al centro come in periferia, la stagione degli accordi separati e il disorientamento prodotto dai rimescolamenti dell’intero schieramento della sinistra politica e sociale. Ma questo non può più rappresentare un alibi. Sulle spalle dei dirigenti di oggi pesa la necessità di alzare lo sguardo e operare decisamente in una nuova direzione aprendo, se necessario, una vera fase costituente.

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I Quadri del terziario: quali prospettive contrattuali?

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In molti stanno ragionando sul futuro del management nelle imprese del terziario. Quando però si passa dalle mansioni/funzioni aziendali, spesso descritte in inglese, all’articolo 2095 del codice civile la cruda realtà giuslavoristica italiana ci impone di misurarci con il 900 e con due su quattro categorie ben precise: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Non si sfugge. Il simpatico trio Reno a Zelig sosteneva l’alternativa secca:” o moto o ciclista”. È così anche per il codice civile. Non c’è “manager più qualcosa” che tenga. O dirigente o quadro. E i Contratti nazionali seguono necessariamente questo schema rigido. Come sempre sono gli aggettivi a fare la differenza. Il quadro ha funzioni di “notevole” importanza e autonomia, il dirigente ha “ampi” poteri e “rilevante” autonomia. In azienda, al contrario, non è così da molto tempo. Sono due popolazioni che, al loro interno, presentano sfaccettature e responsabilità ormai difficili da separare nettamente. Nel terziario di mercato convivono circa 25.000 dirigenti e 90.000 quadri. In sostanziale tenuta i primi, in crescita i secondi. Se non fosse per il welfare contrattuale, le differenze quotidiane, nelle aziende del terziario, sarebbero minime ad eccezione dei licenziamenti individuali. I benefit sono ormai presenti e diffusi in entrambe le categorie, le retribuzioni (ad esclusione dei top manager) non sono sensibilmente differenti. Addirittura, in caso di passaggio a dirigente, a parità di stipendio, il quadro rischia di perdere circa il 10% della retribuzione diretta pur trovandosi a disposizione un welfare previdenziale, sanitario e formativo, di buon livello. Il Quadro ha a disposizione Quas per l’assistenza sanitaria, Quadrifor e Forte per la formazione e Fonte per la previdenza, il dirigente ha a disposizione FASDAC per l’assistenza sanitaria, Mario Negri e fondo Pastore per la previdenza e Cfmt e Fondir per la formazione. Welfare più costoso, certo, ma di altro livello. I quadri sono stati riconosciuti formalmente come categoria a se stante solo dalla Legge n. 190/1985. I dirigenti hanno un contratto nazionale specifico, i quadri, al contrario, sono inseriti nel contratto nazionale dei dipendenti del terziario al punto massimo della scala parametrale. È però difficile trovare imprese che affrontano in modo differenziato queste due categorie anche perché in azienda si gestiscono risorse, team, progetti e non categorie contrattuali. I piani di crescita e sviluppo, le carriere, il coinvolgimento, quando ci sono, riguardano l’intera popolazione manageriale indipendentemente dall’inquadramento professionale. Nelle multinazionali è spesso difficile spiegare ai colleghi di altri Paesi questi confini esclusivamente “legali” e italiani nati e consolidati nel secolo scorso e che, per loro, non hanno alcuna ragione di esistere. In alcuni settori e specifiche realtà aziendali medio piccole, al contrario, il livello Quadro resta un punto di arrivo. Invalicabile. L’unico approccio possibile se si vuole trovare una risposta è nella segmentazione e nella differenziazione come peraltro avviene già nelle imprese. E allora, che fare? O si interviene nel CCNL dei dipendenti del terziario introducendo una nuova figura di “quadro superiore” come già presente altrove, o si introduce questa nuova figura nel contratto dirigenti. Personalmente propendo per la seconda ipotesi anche perché ritengo un’anomalia concettuale la presenza di una figura manageriale, non impiegatizia o tecnica, nel CCNL dei dipendenti del terziario. Ovviamente questo si potrebbe fare dopo una seria analisi di quale parte della popolazione, oggi di livello Quadro, potrebbe esserne coinvolta, quali ricadute in termini di vantaggi, costi per le imprese e sul sistema di welfare contrattuale dei dirigenti nel lungo periodo. Aggiungo che, secondo me, questa figura professionale introdotta forzatamente nella metà degli anni ’80 per iniziativa dei sindacati confederali che inseguivano una effimera convinzione di rappresentanza generale, non ha giovato né ai quadri né al necessario allineamento tra organizzazione aziendale, funzionalità dell’impresa e articolato contrattuale. Né alla pianificazione delle carriere e delle retribuzioni per le imprese “costrette” ad accettare come inevitabile una forte spinta verso l’alto anche per figure tipicamente impiegatizie; e così si sono trovate costrette a pagare inutilmente anche sul piano del costo del lavoro complessivo. Perché se è vero che ad un’azienda non converrebbe promuovere un quadro a dirigente, è altrettanto vero che avere figure apicali gestite come impiegati sul piano dello standing professionale, della motivazione e della partnership tra singolo e impresa genera non poche contraddizioni. Aggiungo che negli anni 80 le differenze sul piano retributivo, dei benefit e del ruolo erano molto più marcate rispetto ad oggi dove sia il CCNL dei dirigenti che il CCNL dei dipendenti del terziario non hanno portato quasi nulla di significativo a queste categorie se non un tentativo continuo quanto inefficace di difesa di quello che alcuni considerano “diritti acquisiti”. E questo è un errore strategico commesso da tutti i sindacati che, come sempre, piuttosto che affrontare i problemi posti dalle imprese sul piano generale, definendo limiti legittimi ma uguali per tutti, preferiscono chiudere gli occhi e lasciarli alla gestione del singolo e della sua impresa. O dei rispettivi legali.
Consentire alle imprese e ai manager di dotarsi di tutte le opportunità necessarie per affrontare la crisi, le prospettive di sviluppo personale e professionale e il consolidamento di un welfare contrattuale di qualità è un obiettivo raggiungibile. Lo è ancora di più se i contratti nazionali che accompagnano questi passaggi sapranno cogliere le esigenze di chi rappresenta i rispettivi interessi in campo. Pensare che ci sia ancora la possibilità di avere, come dicono in Polonia, “il lupo sazio e l’agnello intero” è una illusione che rischia di far pensare a molti che lo strumento contrattuale non sia più in grado di regolare efficacemente il rapporto di lavoro a certi livelli. O meglio che l’unico modo di regolare il rapporto di lavoro tra manager (siano essi dirigenti o quadri) e impresa è farlo individualmente rendendo così inutili o ridondanti i contratti nazionali di categoria.

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Il CCNL tra passato e futuro

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La “provocazione” del Ministro del Lavoro Giuliano Poletti non va sottovalutata o banalizzata perché punta dritta al cuore di un punto importante dell’impianto contrattuale prendendo a pretesto l’argomento dell’orario di lavoro in rapporto alla retribuzione finale. Il soggetto, però, è l’impianto complessivo ritenuto sempre più costrittivo, non l’orario in sé. Ed è su questo che il Ministro ci invita a riflettere. È indubbio che il rapporto concreto tra CCNL e realtà normativa, giuridica e retributiva quotidiana delle imprese è sempre più distante. E questo sia per il singolo lavoratore che per i manager. Qualche accenno sulla lettera di assunzione (spesso con riferimenti comprensibili solo dagli addetti ai lavori) e il testo appeso in bacheca vicino alla macchinetta del caffè negli uffici o nei reparti. È un po’ come il Vangelo. Molti ne parlano ma pochi lo hanno letto. Vale anche per il CCNL. È argomento da tribunali, uffici vertenze, ispettorati del lavoro. Alcune volte da delegati della RSU che si “azzuffano” con le direzioni del personale nel disinteresse generale. Difficilmente lo è tra lavoratori. Ha perso quella valenza redistributiva che aveva in passato, non genera più alcun trasporto emotivo, senso di appartenenza e partecipazione quando si avvicina la data di scadenza. Anzi spesso le moratorie che si succedono con incessante regolarità rendono vaga anche la durata. Infine i contenuti che non mobilitano più le coscienze né creano particolari aspettative. Anzi. I lavoratori più sindacalizzati vivono spesso il rinnovo come un momento dove rischiano di essere messi in discussione prerogative e diritti ritenuti acquisiti. Le aziende generalmente lo applicano riservandosi di interpretarlo in modo abbastanza lasco, con la “complicità” più o meno consapevole dei diretti interessati. Minimi tabellari esclusi. Mansioni, livelli, straordinari, orari, ferie, permessi, ecc. trovano spesso un equilibrio specifico, azienda per azienda, ben diverso dal testo scritto. Le direzioni del personale non ne parlano volentieri. Non c’è una volontà a disattenderlo c’è un’interpretazione specifica che, generalmente, si è costruita nel tempo sul piano comportamentale e organizzativo che considera marginali e comprese nel costo complessivo le rare rivendicazioni postume. Nessuno, da molti anni, agisce e lavora in azienda con in mano il contratto nazionale. Da entrambe le parti. C’è un equilibrio accettabile o accettato. A volte subito. Ovviamente ci sono le eccezioni. Alcune aziende private in diversi settori (medio grandi), pubblico impiego e cooperazione. Questi ultimi due credo siano ormai gli unici dove il CCNL è applicato alla lettera e con confini invalicabili. Ma non è affatto detto che i lavoratori, in quelle realtà, stiano complessivamente meglio che altrove. Anzi.
Questa situazione si è creata per varie ragioni. Innanzitutto perché l’impianto organizzativo e sindacale tayloristico che lo ha prodotto nella seconda metà del 900 è in crisi e perché qualsiasi contratto non sarebbe comunque in grado di coprire le aree grigie tipiche dell’organizzazione aziendale e del rapporto di lavoro. In secondo luogo perché “l’ossessione” sui costi che ha pervaso le aziende ha spostato il confronto e il controllo sui piani di riorganizzazione/ristrutturazione o sulla preoccupazione che potessero essere messi in atto. Infine perché, in azienda, esiste un approccio diverso rispetto a quello dei luoghi dove i principi e i testi scritti sono l’elemento costitutivo come le direzioni del personale, le parti sociali, i giuslavoristi, gli avvocati del lavoro e i tribunali. Chiunque ha vissuto un po’ di anni in azienda sa che se si vuole complicare un problema occorre chiederne la soluzione dove il problema (organizzativo o individuale) non si è creato concretamente. È sempre stato così.. Queste ed altre riflessioni porterebbero a dire che ha ragione chi vuole sostituire il CCNL attraverso il suo decentramento a livello aziendale o territoriale. Personalmente sono contrario. Ovviamente non basta esserlo in modo acritico o conservatore. Occorre ridefinire il ruolo, i contenuti e i rimandi necessari. È questo, sarebbe opportuno che lo facciano le parti sociali. Ad oggi, il contratto del terziario, è l’unico che ha fatto un grande sforzo in questa direzione. E di questo va dato atto anche alle organizzazioni sindacali. In futuro penso ad un sistema con quattro contratti nazionali: industria, terziario, agricoltura e pubblico impiego contenenti le norme generali (ad esempio: ferie, malattia, inquadramento minimo, orario massimo, riferimento a norme di legge, ecc.), il minimo contrattuale nazionale legato, però, più ad una scala parametrale di ingresso che a livelli specifici) e, ovviamente, il welfare contrattuale. Impostandolo sull’essenzialità dei quattro grandi comparti forse non servirebbero altri contratti di riferimento (artigianato compreso). Questa impostazione, uguale su tutto il territorio nazionale, eviterebbe il dumping contrattuale e stabilirebbe norme generali uguali per tutti. Questo livello dovrebbe essere rinnovato ogni quattro anni. A livello di settore verrebbero stabilite le norme, valide esclusivamente in quel settore specifico. Questo livello potrebbe essere rinnovato ogni due anni. A cascata, a livello aziendale, verrebbero stabilite tutte quelle norme reversibili legate al rapporto di lavoro individuale e i sistemi di coinvolgimento e incentivazione. Perché reversibili? Perché la mansione può cambiare, in meglio o in peggio nel tempo. Così come le attitudini e le esigenze. Sul piano aziendale, poi, sono le commesse, i progetti, la stagionalità, i risultati a definire l’orario, la sua remunerazione e i sistemi premianti collegati. Su questo il ragionamento del Ministro Poletti non c’entra nulla con il cottimo o altro come sostenuto da Bertinotti o da qualche poco avveduto sindacalista. Cerca semplicemente di contemperare ciò che è riconducibile ad un sistema tradizionale con altre esperienze altrettanto importanti. Personalmente ho sempre pensato ad una retribuzione suddivisa in tre parti di cui una fissa (il minimo tabellare nazionale uguale per tutti) e due variabili (una legata alla professionalità espressa i cui riferimenti potrebbero essere di settore) è una all’andamento aziendale). E questo può essere definito in azienda, fatte salve le regole generali. Un sistema collaborativo e moderno non può che prevedere condivisione dei rischi ma anche dei risultati e quindi non può non essere reversibile. Le aziende del futuro sono luoghi dove il valore si crea attraverso il riconoscimento e la collaborazione. Non solo con le norme e i vincoli. Quindi la discussione sui livelli contrattuali non può non tenere conto che il problema fondamentale non è mettere in alternativa un livello all’altro ma creare un sistema che lascia libere le parti di trovare le soluzioni più idonee all’interno di un quadro di riferimento che eviti abusi, dumping tra aziende, sfruttamento e forzature inutili. Le aziende hanno bisogno di muoversi con maggiore rapidità ed efficacia rispetto ad un mercato sempre più globale ma non hanno alcun interesse a penalizzare le loro risorse che sono sempre più fondamentali e in grado di fare la vera differenza competitiva. E, infine, occorre prendere atto che solo un nuovo modello di relazioni sindacali più collaborative, come emerge anche dalla recente ricerca di Federmeccanica, può essere alternativo al sistema attuale che ha esaurito la sua “spinta propulsiva” e che rischia di essere sempre più inviso alle aziende e sempre meno interessante per i lavoratori.

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Lettera di assunzione o lettera di “ingaggio”?

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Dopo tanti anni ho deciso di mettere mano al mio archivio personale. In fondo al cassetto della scrivania ho ritrovato una vecchia cartellina scolorita contenente la lettera di assunzione e i fogli paga del mio primo anno di lavoro. Non so bene perché sono finiti lì. Qualche appunto, uno scontrino di “Feltrinelli” e una vecchia agenda tascabile dell’epoca completavano i “reperti” ritrovati. Beh! Un po’ di nostalgia è immediatamente venuta in superficie non tanto perché sono passati molti anni ma perché ho cercato di ricordare quei giorni. Il colloquio , il primo giorno di lavoro, i colleghi e, appunto, la prima busta paga. Il “profumo” dei primi contanti nuovi di banca posseduti dopo un mese di lavoro. Nuovi, sudati e pronti da spendere. Ricordo la sensazione perché non avevo mai avuto, fino ad allora, tanti soldi in mano. In quell’azienda allora non si usavano ancora gli assegni o l’immediato versamento in un conto corrente. Era una busta robusta. Confesso che li ho contati; uno per uno sulla scrivania tra l’ilarità dei colleghi. Lo facevano anche loro, ovviamente, però senza farsi vedere. Non ho mai capito perché lo stipendio contrattuale e quindi il contenuto della busta paga non si deve mostrare. Non si fa e basta. Ricordo lucidamente come li ho spesi: ho comprato una borsa alla mia fidanzata, alcuni libri alla Feltrinelli e poco altro. All’atto pratico non erano granché. Ricordo solo che, quella sera, mia madre mi fece una lunga predica sul denaro, sulla sua fatica a guadagnarne a sufficienza per mantenerci decorosamente e sullo spreco. Capii immediatamente cosa avrei dovuto fare dal mese successivo. La lettera di assunzione era scritta in un linguaggio incomprensibile per un giovane. Rileggendola oggi, dopo tanti anni da Direttore Risorse Umane e quindi come estensore di lettere più o meno analoghe, la trovo ancora un pezzo di letteratura assolutamente incomprensibile. Devo ammettere che non si è fatta moltissima strada da allora. I diritti (solo minimo tabellare, mansione e livello di inquadramento) sovrastati dai doveri e dai riferimenti disciplinari. Molto più chiaro cosa non avrei dovuto fare rispetto a ciò che si aspettavano da me. La cosa che colpisce è l’assenza di qualsiasi riferimento a “come” avrei dovuto lavorare. C’era solo il “quanto”, il “quando” e il “cosa”. Il piccolo particolare è che il superamento del periodo di prova, il giudizio su di me da parte del mio responsabile, in altri termini, il mio futuro prossimo sarebbero dipesi da un elemento che nella lettera di assunzione non era minimamente menzionato. Il “come” era, quindi, solo un mio problema. Perché il “come” loro era altro: avrei dovuto ubbidire al capo, rispettare i miei colleghi, rispondere alle richieste e “timbrare il cartellino” in orario. E tutto sarebbe filato liscio. In altre parole ciò che era ed è molto importante fuori dall’azienda, soprattutto a quell’età, e cioè chi sei veramente e cosa potresti dare in più rispetto ad un altro, lì, non sarebbe interessato a nessuno. I miei interessi, la mia passione, la qualità del mio impegno sarebbero stati solo un problema mio. L’importante era fare ciò che “loro” si aspettavano da me. Fare le cose in modo giusto. Non necessariamente la cosa giusta. È stata la prima lezione di vita professionale. Fortunatamente le opportunità hanno disegnato altre traiettorie che mi hanno consentito di non perdere nulla delle mie capacità, della curiosità e della disponibilità a mettere in circolo passione e qualità dell’impegno. Sempre, però, a modo mio. Non è stato così per tutti. E pensare di pretendere oggi che ad intere generazioni professionali si possa esigere un comportamento opposto a quello preteso fino a pochi anni fa, pena dichiararne l’obsolescenza, è veramente una dimostrazione di superficialità umana e sociale. Ciascuno di noi, a suo modo, costruisce con l’impresa nella quale lavora in modo implicito un “contratto psicologico” che va oltre ciò che l’impianto giuslavoristico assicura. Ogni giorno diamo anche ciò che potremmo non dare. Ci restiamo male se non viene apprezzato e valorizzato dal capo o dai colleghi ma continuiamo a farlo perché fa parte del nostro DNA. Una commessa che al supermercato aiuta la persona anziana a trovare un prodotto anziché dirle: ” È là sullo scaffale in fondo!”, un impiegato pubblico che comprende le difficoltà di un lavoratore straniero e lo aiuta a compilare un modulo, un collega anziano che si accorge di un errore o di una mancanza di un collega più giovane e lo avvisa. Alcuni la chiamano la capacità di “unire i puntini”. Cioè saper mettere a disposizione dell’organizzazione il proprio contributo personale. Non è l’impegno, la presenza né la velocità a fare ciò che viene richiesto. È un altro tipo di sensibilità e di capacità che oggi fa la differenza. Sono mille i comportamenti che dimostrano che le aziende sono migliori e più performanti laddove le persone si sentono parte di un progetto, coinvolte, ingaggiate e non anonimi e insignificanti. Chi si occupa di sviluppo delle risorse umane oggi ha un compito importante. Finita la stagione dove “l’ossessione sui costi” esauriva tutto l’impegno delle direzioni del personale occorre veramente ritornare ad impegnarsi a costruire ambienti accoglienti, lavorare sul clima interno, dare opportunità di crescita e di sviluppo personale. Comprendere anche le esigenze personali. Oggi le aziende hanno sempre più bisogno di collaboratori maturi, capaci, ingaggiati e proattivi. Caratteristiche queste che non si comprano sul mercato ma che si possono costruire. Il contratto psicologico è l’elemento basico su cui innestare un rapporto di qualità e di reciprocità perché esprime la volontà di partnership vera di entrambi. Qualcuno, prima o poi, troverà anche le parole giuste e riuscirà a proporlo per iscritto mandando definitivamente in soffitta quelle lettere prestampate uguali per tutti ricchi di riferimenti normativi e contrattuali ma povere di maturità, coinvolgimento e passione.

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Lontano è vicino…

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Essere genitori oggi è un po’ più difficile del solito. È domenica e siamo seduti a tavola. I telegiornali trasmettono in continuazione notizie e immagini da Bruxelles. Ci sembra tutto esagerato. Non sappiamo nulla. Solo che nostra figlia è là. Ad ogni squillo di cellulare o ad ogni sms qualcuno scatta in piedi. Subito dopo. Con una scusa qualsiasi parte una telefonata per rassicurarci e rassicurare. Vedere in una camera ardente una ragazza che ha l’età di tua figlia fa riflettere. Sentire i discorsi che accompagnano questa tragedia mette ansia. Mi colpisce anche il giornalista che cammina per le strade deserte della città che ha più o meno la stessa età. Oggi sembra che lavorino solo loro. I precari, i giovani sherpa, i militari. Forse anche i giovani terroristi. Ascolto distrattamente e con fastidio gli interventi di statisti e politici che mostrano i muscoli tra di loro o che minacciano probabili sfracelli. Mia figlia mi rassicura. Resterà chiusa in casa. E domani? Domani Bruxelles smette i panni sonnolenti e rallentati del week end e riprecipiterà nella sua quotidianità di capitale europea. Zeppa di tutto. Razze, popoli colori. Chi può fermarla? Oggi parlano di cinture esplosive che girano indisturbate, gas pronti ad essere usati, antidoti che vengono immagazzinati per rischi prossimi venturi. Ieri sera, ad una certa ora, il comitato di crisi di Bruxelles su Twitter si è fermato per fine turno. Basta notizie. Ci sentiamo domani mattina, era il messaggio. Anche la burocrazia quando non è opprimente rischia a volte il ridicolo. Ragazzoni armati che girano mascherati con tanto di armi cariche e pronte all’uso e Twitter che rimanda al giorno dopo ogni informazione con la rete. È anche questo il segnale di come non sappiamo affrontare  la situazione. Troppi esperti, professori del cinismo e della strategia antiterroristica che ci spiegano, sempre dopo, cosa non è stato fatto prima. Teorici della chiacchiera che riempiono gli studi televisivi. Gaber nel suo bellissimo pezzo “c’è un’aria” descrive questa incapacità di rappresentare il dolore e la speranza. Ma noi siamo qui. Tra un inno nazionale e la retorica del “non vinceranno mai”. Riflettere, bisogna riflettere. È questo il mondo che vogliamo? E stiamo facendo tutto ciò che è in nostro potere per costruire un mondo diverso? Io credo di no. I nostri ragazzi che decidono di vivere altrove per realizzare i loro desideri meriterebbero di più. Meriterebbero un Paese che pensi a loro non solo quando, purtroppo, cadono vittime di una tragedia. Mia figlia non vuole tornare. Vuole poter restare là per imparare, crescere come donna e come cittadina di una nuova Europa. Non odia nessuno e i suoi amici vivono in ogni parte del mondo. Chiede solo a noi adulti di abbandonare la retorica del giorno dopo e di credere di più in un futuro possibile. Se così fosse forse oggi sarebbe una delle tante domeniche serene riempite da un collegamento Skype e dall’orgoglio di genitori convinti della scelta della propria figlia. Senza ansie, timori e paure che un ragazzo della sua età o poco più possa incontrarla e, senza nemmeno conoscerla, distruggerne i sogni.

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Contratti pubblici: è una reazione pavloviana?

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È comprensibile la reazione di Bernocchi e dei Cobas. Di fronte alle proposte del Governo la reazione “durissima” era pressoché scontata. L’estremismo nel pubblico impiego esprime da sempre una natura ideologica seppur slegata da una qualsivoglia pratica coerente. Dopo sei anni di mancato rinnovo dei contratti pubblici poter riguadagnare il centro della scena per questa o per altre formazioni del sindacalismo autonomo nazionale era ed è fondamentale ritrovare un nemico. Il loro agire è scontato. Provocano perfidamente e inevitabilmente gravi disagi alla popolazione e marciano urlanti in pittoreschi cortei dietro striscioni feroci con le solite caricature dei potenziali avversari. Niente di nuovo. Può cambiare il mondo intorno a loro ma la cosa non li riguarda. Siano essi in una scuola, in un ospedale o in un’amministrazione. Dopo la proposta del Governo che, senza dubbio, mette poco o nulla sul tavolo del rinnovo, non aspettavano altro. La liturgia è la solita. Abbiamo già avuto i primi assaggi di ciò che ci potrebbe aspettare. Ma qual’è il problema? È giusto o meno il blocco della contrattazione? Che cosa ha spinto il Governo a “provocare” i dipendenti pubblici con questa proposta? Qual’è lo scopo? Innanzitutto la Corte che ha sentenziato lo scorso giugno che il blocco dei rinnovi è “discriminante” rispetto ai lavoratori privati, “sproporzionato” per misura e durata e per giunta “irragionevole”. Tanto da violare le libertà sindacali. Fortunatamente per le casse del Paese non ne ha invocato la retroattività. Per questo, è solo per questo, il Governo ha introdotto, nella legge di stabilita, uno stanziamento di 300 milioni di euro. Pochi? Certamente si, se dovessimo limitarci a dividere l’importo totale per il numero degli addetti che auspicavano e auspicano un rinnovo ben più significativo. Pochi euro a testa. Quindi la polemica è giustificata? Io penso di no. Quello che mi lascia perplesso è l’atteggiamento del sindacato confederale. È indubbio che siamo di fronte alla necessità di un cambiamento epocale nella qualità, nella quantità e nella localizzazione delle risorse umane nella pubblica amministrazione. Così come è altrettanto scontata la necessità di dover impegnare risorse economiche sufficienti anche per introdurre criteri di merito nei confronti dei migliori che ci sono e che operano nei differenti comparti. Nel settore privato tutto ciò è avvenuto e sta avvenendo. Infatti si è operato pesantemente sul costo del lavoro complessivo, accelerando il turn over, concentrando e/o delocalizzando produzioni ma anche esternalizzando attività. Poi la crisi ha fatto il resto. Nella PA non si può agire allo stesso modo perché, gravità dei licenziamenti a parte, sarebbe comunque una partita di giro. Inutile e controproducente. Occorrerebbe, al contrario, lavorare all’interno di un progetto condiviso con le OOSS. Per questo mi sembra sbagliato l’approccio del sindacato confederale. Respingere al mittente la proposta e dichiarare lo sciopero generale mi sembra una reazione pavloviana. Ha senso? Non avrebbe più senso sfidare il Governo su un terreno serio di riforma complessiva della PA? E, in questo caso non sarebbe più utile, anziché dichiarare provocatoriamente insufficienti le risorse messe a disposizione proporre un percorso diverso? Per chiunque sia alla ricerca di come riannodare il filo del riformismo nel nostro Paese la riforma della PA è un passaggio obbligato. Non tanto per ribadire cose già dette quanto perché il cambiamento vero del Paese passa anche da qui. Nel settore privato il sindacato ha in parte saputo cogliere questa sfida e ha compiuto un tragitto importante. Nel settore pubblico dovrebbe fare molto di più liberandosi di quell’immagine corporativa, connivente e perdente. Siamo seri. Nessuno può pensare che il Governo, questo o altri che verranno in futuro, possano prendere allegramente in mano questa partita concedendo aumenti a pioggia per il solo fatto che è passato tanto tempo dall’ultimo rinnovo. Centinaia di migliaia di lavoratori nel privato e nei servizi guadagnano molto meno di sei anni fa dopo aver perso il lavoro e lo hanno ritrovato spesso ben diverso e meno qualificato. Pensare di poter tenere sul versante occupazionale e imporre contemporaneamente un aumento dei costi è improbabile. Ma cambiare rotta è difficile se ai propri iscritti si trasmettono parole d’ordine sbagliate. Così come lasciare il campo alle parole d’ordine dei Cobas che non creano cultura del cambiamento e senso del futuro. Io credo che tra i lavoratori della PA ci sia un grande senso di disorientamento e di preoccupazione ma il recente intervento sulla scuola ha dimostrato che la stragrande maggioranza vuole risposte possibili non proteste legittime quanto inutili. È vero, come ha recentemente affermato Susanna Camusso, che, per i media, sembrerebbe più importante ciò che avviene tra i custodi del Colosseo rispetto ai milioni di lavoratori ai quali manca il contratto. Non è un dato positivo però è un dato su cui riflettere.

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Ma quale futuro ci dobbiamo aspettare?

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Più o meno quindici anni fa, in autunno, fui convocato, insieme a numerosi miei colleghi direttori delle risorse umane della Grande Distribuzione, in un luogo riservato dove, ci dissero, avremmo incontrato una persona esperta di sicurezza dei centri commerciali. Davanti a noi una persona mite e avanti con gli anni. Mi colpì il suo sorriso triste. Ci raccontò i sistemi di sicurezza necessari nel suo Paese per rendere accessibili al pubblico i loro centri commerciali. Mi colpì una frase: “Nessuno dei vostri concittadini accetterebbe mai le modalità, i tempi e la pesantezza delle nostre misure di sicurezza. Al contrario nessuno dei nostri concittadini si recherebbe a fare la spesa senza le nostre misure di sicurezza. Oggi, ve lo leggo negli occhi, voi pensate che sto esagerando. Tra dieci/quindici anni vi ricorderete di questo incontro perché, inevitabilmente, sarete, anche voi nella stessa situazione”. Il Paese di cui il nostro interlocutore stava parlandoci era Israele. Lui, ci dissero poi, era un esponente del Mossad. Non ho più ripensato a quell’episodio per molti anni. Questa mattina me lo sono ricordato. Temo che quel signore avesse ragione. Che ci piaccia o meno, siamo definitivamente entrati in un nuovo mondo a cui non siamo assolutamente preparati. Non tanto per quello che oggi e nei prossimi giorni prevarrà sui media. L’esecrazione dei fatti di Parigi, il sentirsi più o meno in guerra, la commozione per ciò che è avvenuto. Oggi sappiamo che non stiamo limitandoci ad esprimere una doverosa solidarietà ai francesi coinvolti in questi atti di guerra. Oggi sappiamo che non sarà più nulla come prima. Non abbiamo voluto prenderne atto dopo le Torri gemelle, non l’abbiamo capito quando abbiamo assistito inermi o compiaciuti ai goffi tentativi di “esportare la democrazia”, o a forzare gli avvenimenti in Libia o altrove. Adesso è chiaro a tutti. Vivremo con la paura che tutto ciò possa accadere anche a noi, ai nostri figli, al nostro Paese. E piano piano, inevitabilmente, saremo disposti a privarci di una parte importante della nostra libertà e della nostra democrazia. Visto il livello dei commenti e della nostra sensibilità a questi temi oggi prevarranno le soluzioni semplicistiche ma, purtroppo, scontate. Muri per contenere gli immigrati, guerre a cui partecipare, presunti alleati da armare affinché combattano per noi e ci illudano che qui certi fatti non arriveranno mai. Quello che oggi rifiutiamo è proprio ciò che, quel giorno, ci disse l’esperto di sicurezza del Mossad:” quello che per noi israeliani è normale, lo sarà anche per voi tra pochi anni”. Certo abbiamo problemi di intelligence e sicurezza interna, decisioni da prendere insieme ai nostri alleati e tutto ciò che è necessario fare per difenderci. Ma una cosa deve esserci chiara. Tutto quello che sta succedendo altrove è il nuovo mondo. Che ci piaccia o meno. Un mondo dove tecnologia e ideologia si continueranno a scontrare all’infinito. Un mondo meno libero e più cattivo. Un mondo dove il vicino è il nemico e dove il rischio che prevalga il “si salvi chi può” potrebbe prendere il sopravvento. Un mondo dove all’invenzione della spada segue quella dello scudo e via fino ad armi sempre più sofisticate e terribili che ci condizioneranno in una spirale senza fine. Io, purtroppo, non ho risposte pronte o soluzioni salvifiche a tutto ciò. Di una cosa sono certo. Alla profondità e ferocia di questi avvenimenti e alla volontà o meno di renderli ineluttabili io non sarò estraneo. Io voglio poter dire la mia senza lasciare soli i governanti di turno. Il futuro mio e dei miei figli mi riguarda e voglio esserne protagonista. Soprattutto di fronte ai gravi errori in politica internazionale e nei conflitti in varie parti del mondo di cui siamo stati tutti testimoni passivi. Altrimenti di questo passo dovremo rassegnarci a ricordare il pensiero che Shakespeare fa dire al conte di Gloucester: “ E’ la piaga dei tempi quando gli idioti governano i ciechi“.

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Il futuro dei corpi intermedi e il futuro del Paese: una scommessa importante

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Oggi è indubbio che comanda la legge del pendolo. Il sindacato italiano è sostanzialmente ai margini nelle imprese, estromesso dai principali tavoli di confronto politico e in difficoltà sui rinnovi contrattuali. A Verona, città con il più basso tasso di disoccupazione, gli industriali nella loro recente assemblea non hanno accennato minimamente alla prossima stagione contrattuale quasi non esistesse il problema. Le proposte e le iniziative del sindacato non fanno audience sui media. Non va meglio a chi si occupa di relazioni industriali in azienda. Sempre più ai margini nella gerarchia. Né alle associazioni datoriali, seppur impegnate a fondo e infine non si può non registrare un scarso interesse mediatico sui temi del lavoro. Dagli 80 euro e fino al Jobs act, passando attraverso il “conta assunzioni” mensile, l’iniziativa è passata nelle mani del Governo che addirittura “minaccia” di intervenire con una legge sulla rappresentanza se, entro la fine dell’anno le parti sociali non troveranno un accordo. Per non parlare della previdenza dove il Presidente dell’Inps, uscendo del suo ruolo, si è sostituito al Governo (ma anche alle parti sociali) presentando proposte di riforma più o meno azzardate. Infine la discussione sui livelli della contrattazione dove ciascuno, ormai, può dire la sua. Forse abbiamo toccato il livello più basso. È del tutto evidente che un modello di relazioni sindacali costruito quasi esclusivamente sui rapporti di forza (reali o mediatici) è dotato di un sismografo che registra immediatamente quando questi si modificano. Innanzitutto si sono modificati nell’impresa e da qui il venire sempre meno della contrattazione aziendale (sia in termini qualitativi che quantitativi) con le successive disdette della contrattazione interna; nella sempre più marcata distanza tra le piattaforme sindacali presentate e il contenuto degli accordi sottoscritti, negli allungamenti dei tempi della contrattazione nazionale e negli equilibri finali che sempre più comprendono la rimessa in discussione dei cosiddetti “diritti acquisiti”. Addirittura c’è anche chi arriva a teorizzare il superamento della contrattazione collettiva. Certo, tutto questo ha ragioni di contesto interno e internazionale precise e non attiene, come sostiene malignamente Ricolfi solo alla qualità dei sindacalisti o degli addetti ai lavori. È ingeneroso e sbagliato. Lama, Di Vittorio, Mortillaro o chiunque altro si troverebbero nelle identiche situazioni dei migliori negoziatori odierni. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” è uno slogan felice però di difficilissima attuazione per chiunque. La legge del pendolo, poi non lascia spazio a nessun ragionamento. Il punto semmai è un altro. È di questo che ha bisogno il Paese? Se la risposta è sì, il discorso è chiuso. Andiamo avanti così. Se, al contrario, ci si dovesse rendere conto che non può essere un “pendolo” a stabilire chi detta le regole del gioco in un dato momento storico dobbiamo riprendere a ragionare insieme. Tutti, a parole, siamo per il cambiamento. Purtroppo auspichiamo quasi sempre quello degli altri. Il nostro è però fondamentale. Un vecchio proverbio arabo recita: “se vuoi vedere pulita la via, comincia dallo zerbino di casa tua”. Credo sia un ottimo consiglio. Innanzitutto non credo che i corpi intermedi possano cambiare da soli, ciascuno per conto proprio. Esiste una simmetria evidente che li collega. Nessuno ha esclusivamente in sé la forza di correggere i propri difetti soprattutto perché alcuni di questi sono comuni e si giustificano proprio perché sono simmetrici. C’è un pezzo di strada che occorrerebbe fare insieme. Tra le organizzazioni datoriali in primo luogo ma anche con le organizzazioni sindacali. Quale Paese abbiamo in mente? Quali pesi e contrappesi politici e sociali pensiamo debbano coesistere? Lasciamo che si affermi una società darwiniana dove c’è chi vince e chi sopravvive come può oppure riflettiamo intorno ad un progetto di società dove le opportunità di partenza sono per tutti e dove esiste un welfare moderno che protegge chi ne ha bisogno? E come deve essere questo welfare? Come è sempre stato o con una maggiore integrazione pubblico/privato? E cosa siamo disposti a mettere di nostro sul tavolo per raggiungere quegli obiettivi? Molte di queste o di altre domande segnano il campo, le regole e la partita che si vuole giocare; soli o insieme. Ma solo affrontandole possiamo immaginare il ruolo delle parti sociali dei prossimi anni che potranno scegliere se collaborare per costruire il futuro o confrontarsi aspramente all’infinito come i “polli di Renzo” di manzoniana memoria. La Politica, nel bene o nel male, sta cercando di ridisegnare nuovi confini a ciò che nel 900 era dato per scontato e collocato da una parte o dall’altra. Equilibri e opportunità cambiano nel mondo e riposizionano ricchezza e povertà, vincoli e opportunità. E questa partita c’è chi ha deciso di giocarla solo in difesa forse sperando che chi oggi da le carte venga mandato presto a casa e tutto torni come prima. Io credo sia un errore. Personalmente “sogno” un percorso diverso. Non contando nulla, posso permettermelo. Sogno l’avvio di una fase costituente di riposizionamento dei corpi intermedi. Renzi ha lanciato Human Technopole Italy 2040 pensando al futuro della ricerca, della tecnologia e delle scienze e alle opportunità per il nostro futuro come Paese. Occorrerebbe avere il coraggio di lanciare un progetto analogo nelle scienze sociali pensando ai nostri figli e al Paese nel quale dovranno vivere. E in questo progetto una parte rilevante dovrebbe essere costruita intorno ai sistemi collaborativi all’interno delle filiere nazionali e internazionali. Ed è solo se le migliori intelligenze sociali del Paese decideranno di mettersi in gioco che si può sperare di venire a capo dei nostri problemi, di superare i rischi di frantumazione del Paese e di contrasto generazionale, di dare un senso e una speranza al mondo del lavoro e dell’impresa. Certo può essere ingenuo pensare che tutto ciò possa avvenire in un Paese che si è ormai acconciato per scontrarsi su tutto sperando così, di non cambiare nulla. Però io ho fiducia che il tempo del cambiamento sta arrivando. Non dobbiamo solo farci cogliere impreparati.

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Decentrare la contrattazione. Perché?

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L’intervento di Giuseppe Bianchi di ISRIL ha il merito di togliere dal tavolo un equivoco che stava accompagnando la discussione sui livelli della contrattazione: i supposti vantaggi del decentramento della contrattazione nel territorio. Questa tesi ha certamente molti sostenitori di diverso orientamento e questo sta generando un dibattito dove, elementi obiettivi e ragionevoli si intrecciano con posizioni strumentali e tutt’altro che chiare. Secondo queste impostazioni, portare nel territorio dove l’impresa opera, un livello contrattuale sostitutivo o integrativo sarebbe più vantaggioso per tutti. Per il Sistema, per la produttività, per l’impresa e per il lavoratore. Insomma sarebbero tutti più soddisfatti e felici. Peccato che dietro a questa “idea” ci troviamo contemporaneamente chi vorrebbe sostituire un livello con l’altro, chi vorrebbe mantenerli entrambi specializzandoli e, infine, chi vorrebbe sommarne i benefici. Decentrare la contrattazione nazionale a livello aziendale è certamente complesso ma più comprensibile. Soprattutto per la grande impresa e, soprattutto, in settori senza la presenza di concorrenti diretti. Altrimenti all’azienda leader o a quella con una maggiore presenza sindacale toccherebbe pagare un prezzo maggiore senza alcun motivo rispetto ad oggi. Continuo, però, a non vederne i vantaggi per le piccole e medie imprese che oggi, limitandosi a rispettare in tutto o in parte il CCNL, non hanno ulteriori problemi sindacali. L’assenza di un elemento regolatorio e convenzionalmente accettato come il CCNL potrebbe addirittura portare a rischi di dumping contrattuale. Sempre che non si intenda rendere obbligatorio il confronto, garantendone il risultato comunque nel singolo territorio e, di conseguenza, in ogni parte del Paese. O addirittura di renderlo facoltativo e alternativo all’applicazione del CCNL di riferimento. In questo caso, dunque, solo impegno, discussioni inutili e burocrazia aggiuntiva per le imprese senza alcun corrispettivo concreto. Aggiungo che, mentre per i lavoratori il confronto sarebbe sul costo della vita di un territorio specifico, per l’impresa non sarebbe così. Il confronto è, già oggi, nella maggior parte dei casi, globale. Comunque non territoriale. E quindi non c’è nessun vantaggio a condividere forme di contrattazione che metterebbero l’impresa stessa in difficoltà rispetto ai concorrenti che operano in altri territori nello stesso segmento di mercato. Ma se non è vantaggioso per l’impresa la conseguenza immediata è che si cerchino soluzioni che, alla fine, inevitabilmente si ritorcerebbero anche contro i lavoratori. La proposta della Cisl sulla riforma della contrattazione, che è certamente la più completa, spiega chiaramente il carattere aggiuntivo o al massimo integrativo, quindi di scarso interesse per le imprese. Una start up artigianale o commerciale che si confronta con il mondo all’interno di una filiera specifica cosa c’entra, sul piano salariale, con il territorio dove è casualmente installata? E così una realtà economica di un settore specifico presente in un territorio ricco ma che fatica già oggi a reggere l’applicazione esclusivamente economica del CCNL perché dovrebbe trovare giovamento da un contratto territoriale? Infine, cosa dovrebbe spingere un piccolo imprenditore, che oggi si limita ad applicare la parte economica di un contratto nazionale, a rispettare un contratto territoriale più oneroso? Infine la libera scelta. Alcuni ribadiscono che sarà l’impresa a scegliere cosa applicare. È ovvio che l’imprenditore messo di fronte ad una alternativa sceglierà il “male minore” che non è detto coincida con l’interesse dei suoi collaboratori. Quindi andremmo a creare situazioni di conflittualità là dove oggi non c’è. Infine dobbiamo considerare che oggi abbiamo aree del Paese dove lo stesso CCNL non è applicato, addirittura settori economici interi dove non viene rinnovato senza alcuna giustificazione credibile se non dettata dai rapporti di forza oggi sfavorevoli al sindacato. Il caso della grande distribuzione è lì da vedere. Quando Federdistribuzione ha messo insieme le aziende associate (principalmente di grandi dimensioni) con esigenze e strategie diverse tra di loro era probabilmente convinta di poter fare un contratto nazionale specifico sganciato totalmente da quello di Confcommercio. Ma il livello di mediazione necessario per sottoscrivere un contratto con il sindacato non è accettabile dalle imprese che, fuori da logiche specifiche di scambio tra ciascuna di loro e le rispettive controparti aziendali, hanno vincolato, con un mandato molto rigido, i negoziatori impedendo, di fatto, un punto di incontro finale. La morale è semplice. Non se ne farà nulla. Oppure si “scimmiotterà” il CCNL del terziario lasciando, nel frattempo, il campo ad avvocati, tribunali e agitazioni sindacali che, anche se modeste, non sono utili alle imprese e al clima interno che servirebbe oggi. La contrattazione territoriale farebbe, secondo me, la stessa fine. Quindi tempo perso. Altra cosa sarebbe stabilire delle regole uguali per tutti a livello nazionale con le deroghe necessarie e spazi a livello di settore o di azienda. Per questo la riforma della contrattazione, secondo me, avrebbe bisogno di ben altre riflessioni di merito ma, soprattutto avrebbe bisogno di correttezza e lealtà di intenti. Se l’obiettivo è solo quello di ridurre il peso o il ruolo del sindacato come interlocutore non credo abbia senso cercare convergenze e condivisioni. Sarebbe solo una presa in giro. Altra cosa è se, dietro questa idea, c’è un progetto serio di ridisegno del sistema delle relazioni industriali del nostro Paese. Ma questo presupporrebbe mettere in campo una volontà progettuale di alto profilo che oggi non sembra all’ordine del giorno. Almeno questa è la mia sensazione.

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Boeri? Preferisco i Mon Cheri.

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Oggi non è popolare difendere i redditi medio alti. Esiste una convinzione diffusa che tutto ciò che supera una certa soglia di reddito sia fondamentalmente ingiusto e, in qualche modo disonesto. Figuriamoci quando si parla di pensioni. Gli argomenti messi sul tavolo cambiano a seconda del punto di discussione ma il problema resta. I giovani che rischiano di non percepire alcuna pensione, i vitalizi degli ex parlamentari, le baby pensioni, gli over 50, tanto per citare alcuni casi, sono messi lì a dimostrare che l’ingiustizia è evidente e che quindi un taglio netto sa da fare. Ovviamente, per ottenere il consenso generale, si mischia il tutto con abilità e si presentano tutti i percettori di pensione medio alte come “ladri di futuro”. Boeri ha buon gioco a presentare la sua proposta come equa e ragionevole. In un colpo solo si pone al centro del dibattito e lancia la sua candidatura a livello politico individuando un nemico facile: 350.000 “pensionati d’oro”. Per intenderci quelli da 2.200 euro netti in su. Senza alcuna distinzione. Beh! Io non sono d’accordo. E questo per una serie di ragioni. Innanzitutto perché questi cittadini hanno sempre pagato e pagano regolarmente le tasse. Oltre il 50% del loro reddito. Vederli etichettati come potenziali “ladri di futuro” da Boeri e da chi la pensa come lui non mi piace. In secondo luogo perché non mi piace l’idea che si possa essere giudicati dall’importo della pensione e non da come si è costruita in molti anni di lavoro. Queste persone hanno lavorato, hanno pagato i contributi richiesti, hanno costruito un reddito e, oggi, quando sono più deboli e attaccabili li si incolpa di egoismo sociale e di non voler rinunciare ad una parte della loro pensione per consentire una presunta operazione di equità interna al sistema. Poco importa se l’INPS è un carrozzone che mischia previdenza con assistenza, pensioni del settore privato e pubblico, dirigenti che hanno pagato i loro contributi e dirigenti che non lo hanno fatto, baby pensioni e prepensionamenti delle ferrovie o di altri settori e via discorrendo. Tutto questo non importa. Importa indicare un nemico fragile. Un “nemico” che oggi ha un reddito comunque costruito grazie al suo impegno e al suo lavoro. Ha potuto usufruire del calcolo della pensione con il metodo retributivo semplicemente perché questo valeva per tutti fino al 1994 e non solo per i percettori di pensioni medio alte. Come si fa adesso a pretendere che chi ha sempre pagato oltre il 50% di tasse per una vita oggi debba subire una pesante decurtazione del reddito? Perché di questo si tratta al di là delle balle mediatiche. E queste pensioni non c’entrano nulla con i vitalizi dei politici o gli “aggiustamenti” delle pensioni dei sindacalisti. Questa è una decurtazione del reddito attuale in contrasto con regole e leggi in vigore che hanno determinato l’accesso alla pensione di quelle persone e, naturalmente, l’importo corrispondente. Si dice che comunque qualcuno deve pur pagare per consentire un operazione di equità interna al sistema. Perché deve essere solo un’operazione interna al sistema dovrebbe essere spiegato. È una scelta come un’altra. Non è come prendersela con gli evasori. Lì si tratta di una categoria che non ha rispettato la legge. Qui è diverso. Boeri oggi come Fornero ieri. Gli esodati sono nati con un’operazione analoga. Prendersela con pochi, tanto nessuno reagirà. Questa è la filosofia. Anche allora fu detto che non c’erano alternative. La tecnica è sempre quella: caricare il problema su una piccola parte del Paese che non può reagire.  Veniamo ai supposti beneficiari da questa manovra. Gli over 50 a basso reddito. In parte, guarda caso, prodotti proprio dalla legge Fornero. Usarli oggi cinicamente come scudi umani dopo averli prodotti e poi dimenticati è veramente scorretto. Anziché preoccuparsi di come renderli appetibili fiscalmente per reinserirli al lavoro si pensa di cavarsela con un mini assegno di cinquecento euro al mese per tacitarli. Renzi e Poletti per il momento hanno saggiamente frenato l’impeto riformatore del professore. Speriamo sia lungimiranza e non semplice calcolo politico. Staremo a vedere. Forse è il caso di dire:”Dio ci salvi dai professori”.

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