È vero. La stagione dei rinnovi dei contratti dell’industria e del pubblico impiego non si apre nei migliore dei modi. Sembra quasi che una reazione pavloviana costringa ciascuno dei contendenti a occupare un ruolo già assegnato. Falchi e colombe si dispongono cinicamente sul campo. Ciascuno urla le proprie ragioni in un Paese sempre più stanco e disinteressato ad assistere a rappresentazioni del passato. Nessuno dei protagonisti sembra accorgersene. Prima di parlare di salario, normative, diritti acquisiti e quant’altro si dovrebbe ragionare su dove vogliamo andare come sistema Paese e se, la stagione dei rinnovi contrattuali si inserisce o meno in questo percorso. In caso contrario il destino è già scritto: l’irrilevanza politica e sociale dei contendenti. È innanzitutto dalle tre Confederazioni che ci aspetterebbe un segnale chiaro. Inequivocabile. Lasciare che ogni categoria proceda in ordine sparso e, soprattutto, che i sindacati del pubblico impiego impostino una reazione tradizionale alle (modeste) proposte di rinnovo messe sul tavolo dal Governo è un errore grave che rischia di produrre conseguenze altrettanto gravi. Questo è il momento dove occorrerebbe individuare alcune priorità e procedere con iniziative mirate e coerenti. Prima di tutto nel confronto con i propri associati. Oggi più che mai serve intravedere una leadership forte e con le idee chiare. Il punto centrale, che piaccia o meno, è rappresentato dalla capacità di “rinnovamento” degli strumenti contrattuali che devono essere messi in campo tesi a creare convergenze e spazi di collaborazione vera tra capitale lavoro per recuperare competitività, produttività e voglia di crescere. Nel pubblico tra amministrazione dello Stato e Sindacati per rimettere al centro le esigenze degli utenti e l’ammodernamento del settore. E la contropartita dovrebbe essere fondamentalmente rappresentata dalla possibilità per i lavoratori di contare di più nelle scelte che li riguardano, avere a disposizione una formazione adeguata che non li lasci soli con i loro problemi di impiegabilità collegando le scelte contrattuali a serie politiche attive e, infine, un rinnovato sostegno al welfare contrattuale teso a bilanciare ciò che succederà inevitabilmente nei prossimi anni su questo terreno. Dario Di Vico ha ragione a dubitare della volontà di percorrere strade nuove da entrambe le parti. Procedere in ordine sparso, annunciare stagioni più o meno calde, banalizzare l’offerta di apertura del confronto proposta dal Governo non sono un buon viatico per “cambiare verso”. Nel settore pubblico mi sarei aspettato, dal sindacato, una cautela maggiore. Sei anni di mancato rinnovo del contratto non si accolgono, al primo segnale di apertura, con la dichiarazione dello sciopero generale. Certo la proposta è insufficiente, le aspettative sono altre, i Cobas spingono da sinistra però la situazione del Paese è sotto gli occhi di tutti. Forse sarebbe stato più opportuno entrare nel merito, proporre priorità, rinunciando con lungimiranza al rinnovo in alcuni settori. In altre parole proporsi come interlocutori attivi e non passivi. Il tempo dove uno sciopero più o meno riuscito possa cambiare significativamente la situazione è passato. A tutti coloro a cui sta a cuore il ruolo che i corpi intermedi possono ricoprire oggi ma soprattutto domani non può che preoccupare la piega che sta prendendo il confronto/scontro che si va ad aprire. Se il rinnovo dei contratti non riesce ad accompagnare la debole ripresa economica in atto si sarà persa un’occasione di protagonismo che rischia di non avere altre opportunità. È questo non è un bene per nessuno.
etica, dignità e senso del lavoro
In tempi di Jobs act e di lotta alla disoccupazione è difficile affrontare il tema del senso del lavoro, della sua organizzazione e delle modalità della prestazione in modo nuovo, diverso dal passato. È un tema centrale. Se ne sono accorte, nel mondo, le aziende più avanzate che hanno capito quanto occorra cambiare e proporre idee nuove che partano da una diversa filosofia del lavoro, della sua organizzazione, dei luoghi dove si svolge e che sappia mettere al centro la persona. In altre parole un luogo dove provare anche ad essere sereni e, perché no, addirittura felici. È l’altra faccia, altrettanto importante, del welfare aziendale o della responsabilità sociale dell’impresa. È l’impresa che sa anche guardare dentro se stessa. È l’idea, sempre più diffusa, che, per le persone, soprattutto le più giovani, è importante trovare un significato al proprio agire non solo nelle relazioni private e nella comunità nella quale sono inseriti ma anche nell’ambiente professionale. I tedeschi utilizzano un termine molto preciso:”Eigenschaften” (qualità umane). Un termine che non viene proposto per inseguire le mode farlocche che, purtroppo, in alcune imprese hanno caratterizzato le politiche di gestione delle risorse umane ma che punta a mettere concretamente le persone al centro rendendo compatibili ad esse l’eccesso di visione a corto termine, l’utilizzo strumentale di alcuni modi di essere (ad esempio: declamare valori e non praticarli, motivare senza essere motivati, utilizzare stage in modo scorretto, ecc.) e un’attenzione ai costi fine a se stessa così come si è prodotto in questi anni. È sempre interessante notare come lo scambio più importante che si realizza tra collaboratore e azienda nulla ha a che fare con l’impianto giuslavoristico che lo sorregge. Passione, creatività o entusiasmo non sono mai compresi né presi in considerazione. Tre caratteristiche, oggi molto più determinanti di ieri, che fanno la differenza tra due persone, ne caratterizzano l’impegno, il profilo professionale e il rapporto con la propria attività e il contesto aziendale. In altri termini mentre è normato con un dettaglio a volte esasperante l’aspetto quantitativo, disciplinare e normativo del rapporto ciò che dovrebbe caratterizzare la qualità della prestazione è pretesa (o data per scontata) ma non compresa nello scambio. È un po’ come se, la qualità dell’impegno, fosse solo un problema etico del singolo collaboratore. E non che il lavoro è innanzitutto realizzazione personale e riconoscimento sociale quindi ben più di una semplice prestazione dietro corrispettivo economico. E quindi coinvolge anche l’impresa. Questo limite discende sicuramente dalla cultura tayloristica che ha permeato la stragrande maggioranza delle organizzazioni aziendali, il contesto economico, sociale e contrattuale e ha, di conseguenza, contribuito a costruire il rapporto di lavoro con regole, norme e schemi che rendono molto difficile la valorizzazione della qualità del lavoro e del contributo specifico del singolo. La grande poetessa Wislawa Szymborska nella sua poesia sulla banalità del CV ci ricorda cosa è sempre stato considerato:…”Meglio il prezzo che il valore e il titolo che il contenuto. Meglio il numero di scarpa, che non dove va colui per cui ti scambiano….” Ma oggi tutto questo non è più sufficiente. Oggi si discute di nuove competenze, nuove forme di selezione e di gestione delle risorse umane, nuovi ambienti di lavoro. Tutto questo rimette prepotentemente al centro l’importanza della qualità vera del singolo lavoratore. Ritorna d’attualità il senso che ognuno assegna o meno al suo lavoro e quindi le organizzazioni devono essere sempre più in grado di produrre senso perché anche la produttività migliora se alle competenze e all’impegno richiesto a ciascuno, il singolo trova anche un significato a quello che sta facendo e quindi è disponibile ad aggiungere un suo contributo specifico. Anouk Grevin, nota sociologa francese, sottolinea come:”..purtroppo per i managers tradizionali contano i risultati e non la misura di quanto chi li ottiene mette di se stesso. L’impegno che i lavoratori offrono, nessuno lo vede e lo valorizza e ciò crea nei lavoratori senso di frustrazione e di malessere.”
Imboccare questa strada significa saper ridare al lavoro un significato più vero, riconoscendo non solo l’impegno personale ma anche ciò che va oltre la prestazione e il suo riconoscimento economico e normativo. Una sfida vera per il management nei prossimi anni.
Il successo delle organizzazioni più performanti passerà dalla consapevolezza che le risorse umane sono uniche e insostituibili se coinvolte e messe in condizione di dare il meglio di sé. Ma questo implica una capacità manageriale e delle organizzazioni di rimettersi in gioco e creare momenti veri di ascolto e di risposta ai problemi, alle proposte e alla richiesta di protagonismo dei propri collaboratori.
Dalla protesta alla proposta…
Di questi tempi si discute spesso dell’irrilevanza più che della presenza delle organizzazioni sindacali nella vita sociale e nelle imprese. Per alcuni questo è un segno dei tempi. Altri invocano a gran voce l’importazione dalla Germania del modello di sindacato partecipativo. Discussioni destinate a produrre ben poco. Il nostro Paese ha una tradizione sindacale di tipo conflittuale-antagonista. Un situazione come quella che ha coinvolto la Volkswagen non avrebbe mai prodotto da noi la maglietta:”Ein team, Eine familie” (una squadra, una famiglia) tipo quella indossata dai ventimila iscritti alla IGmetall, il sindacato metalmeccanico tedesco dell’auto poche settimane fa mentre ascoltavano, in silenzio, il nuovo CEO della Volkswagen promettere un piano lacrime e sangue. La FIOM o i Cobas avrebbero sparato ad “alzo zero” contro l’azienda, alcune trasmissioni televisive e alcuni giornali avrebbero fatto il resto con l’unico scopo di distruggere chi, fino ad un attimo prima, avevano subìto, temuto e rispettato. La nostra tradizione pesa. Per molti è difficile uscire da questo schema. Chi lo fa rischia. A volte non solo politicamente. Uscire da questa “gabbia” è la premessa indispensabile per costruire nuove regole del gioco nelle relazioni sindacali utili alle imprese e ai lavoratori. Ci stanno provando alcune federazioni della CISL e, nella conferenza organizzativa della CGIL, ci sono stati certamente spunti interessanti di riflessione. Fuori dal sindacato confederale l’esperienza di Manageritalia mi sembra l’unica degna di nota. Potrebbe sembrare evidente per un sindacato di dirigenti essere propositivi senza, per questo, essere subalterni ma questo non spiega a sufficienza un lavoro importante e continuo fatto dai suoi principali esponenti, nel tempo, per introdurre una cultura di solidarietà nella categoria. Una categoria, ben tutelata, dove però la stragrande maggioranza è ben lontana da condizioni spesso strumentalizzate sui media. Come spiegare altrimenti l’assistenza sanitaria a disposizione dell’intero nucleo familiare indipendentemente dalla numerosità dello stesso, il progetto Managerattivo a supporto dei dirigenti che hanno perso il lavoro e un sistema di welfare complessivo che tutela anche i pensionati. Ma anche la formazione e significative iniziative di coinvolgimento e di convivialità. Certo hanno potuto anche contare, nel tempo, su una controparte più sensibile di altre. Ma non è questo il punto. Potevano, negli anni, percorrere una strada simile a quella compiuta in altri settori in un contesto dove l’individualismo è ancora molto forte ma dove, al contrario, sono riusciti a radicare negli associati la convinzione che compito delle organizzazioni sindacali è quello stare sempre un passo avanti ai propri associati sia nel proporre miglioramenti sia nel gestire modifiche dello status modellando le norme sulle esigenze proposte anche dalle imprese. Un modello contrattuale che ha senso perché risponde all’esigenza di entrambe le parti. Quindi anche dell’impresa. Il sindacato, in generale, potrà porsi obiettivi di partecipazione se affronta innanzitutto, sul piano culturale, la necessità di cambiare. Prima di tutto se stesso. L’alternativa è la progressiva emarginazione o peggio, l’irrilevanza. Nel pubblico impiego, ad esempio, le proposte di rinnovo dei contratti del Governo sono state immediatamente respinte. 300 milioni (da cui togliere la parte relativa alle forze dell’ordine) sono pochi, d’accordo. Sono 6 anni che i contratti sono fermi e ci sono problemi di mobilità territoriale, esuberi, carenze e aspettative. Ma non ci sono grandi margini di manovra. Sono state proclamate le agitazioni di rito e l’intera vicenda si sta incanalando verso una liturgia classica in una fase economica completamente diversa dal passato. Un sindacato “tedesco” avrebbe accettato la sfida. Avrebbe proposto un negoziato differenziando priorità di intervento, settori da accontentare magari rinunciando al rinnovo in altri. Si sarebbe fatto carico delle difficoltà senza farsi scavalcare da nessuno. Avrebbe rilanciato con proposte sull’occupazione e sul merito coinvolgendo i propri associati sul futuro del lavoro pubblico. Cose che, purtroppo, non si faranno. Occorre scegliere; o un passo avanti, con tutti i rischi di rapporto con i lavoratori e di scavalcamento di altri sindacati come alla Fiat e altrove ma con una strategia chiara, oppure irrilevanti tutti insieme. Occorre scegliere, appunto.
Ho un buon CV ma non mi chiama nessuno. Perché?
La letteratura specialistica è prodiga di consigli su come scrivere bene un CV o come affrontare in modo brillante un colloquio di lavoro. Esistono manuali, corsi di formazione e trucchi vari per rendersi più credibili agli occhi del più sofisticato selezionatore. Quindi sembrerebbe sufficiente saper scrivere ciò che ci ha visto protagonisti nei nostri percorsi professionali e saperlo raccontare con sufficiente convinzione. Sembra tutto molto semplice. Purtroppo non basta. A volte non si ha neppure la soddisfazione di sapere se il CV è scritto bene perché non arriva nessuna risposta. Così come un colloquio, preparato molto bene e portato a termine in modo pressoché perfetto, non ha alcun seguito. E allora? Nella maggior parte delle selezioni una pur buona impostazione non è sufficiente. Contano le referenze, quindi le relazioni e il feeling che scatta o meno con l’interlocutore che dovrà decidere. Certo anche gli aspetti economici sono importanti perché sul mercato, oggi, si trova di tutto e di più. Però questo è il punto da cui partire. Chi deve assumere sa, generalmente, cosa vuole. Nei CV che legge, nei colloqui, nel brief agli Head Hunter, nel passaparola l’idea delle caratteristiche personali da individuare è chiara e quindi la ricerca è sempre abbastanza precisa. Certo è possibile cambiare idea a fronte di una candidatura particolare e non prevista ma è molto difficile. Possibile ma improbabile. Chi cerca, poi, può “permettersi” di sbagliare nel senso che, al massimo, verrà giudicato sulla qualità di chi ha selezionato non certo su chi non ha neppure preso in considerazione. Chi si offre di tutto ciò non sa nulla. Invia il suo CV, si prepara all’eventuale colloquio ma non conosce nessuna caratteristica personale del candidato ideale già in mente al potenziale selezionatore. Conosce a mala pena capacità e competenze richieste perché le ha lette sulla inserzione o ne ha sentito parlare da terzi. Non sa se in quella determinata azienda, in quel reparto o in quella squadra si cerca un giovane, una persona estroversa o una donna. Oppure se, assolutamente, non si vuole un ingegnere gestionale o una donna sposata o, infine, se, un over 50 in una squadra di trentenni, è meglio evitarlo perché potrebbe non funzionare. E così via. Ed ecco che un buon CV che comprende tutte le competenze e capacità professionali richieste non c’entra improvvisamente nulla con quella ricerca. E allora cosa serve scrivere un ottimo CV e prepararsi all’eventuale colloquio? In questi casi, niente. E così anche in tutti quei casi dove offerta e domanda sono asimmetriche. Ma il punto è proprio questo. Un CV fatto bene e la capacità di superare tutti i colloqui possibili deve sempre fare i conti con la realtà. E la realtà è lì a dimostrare che in questo mercato del lavoro non si gioca mai alla pari. È una gara, certo, però tra diseguali. È come partecipare ad un concorso a quiz dove alcuni conoscono in anticipo le risposte, altri hanno, più o meno inconsapevolmente le caratteristiche per vincere e, infine, c’è anche chi parte da zero sperando nella buona sorte. In teoria possono vincere tutti. La realtà, però, è ben diversa. E allora non serve a nulla prepararsi? No. Occorre farlo, sempre. Ognuno concorre nella propria corsia. Ci sono tante ricette diverse su come fare un CV in base a esperienze e a professionalità differenti. Occorre prenderle tutte con grande cautela sapendo che sono semplicemente stimoli che vanno adattati alle proprie esigenze. Se non si hanno segnalazioni o informazioni precise occorrerebbe, innanzitutto, capire dove si vorrebbe inviare il CV e perché. Oggi la rete può aiutare. Raccolte tutte le informazioni possibili il CV va indirizzato ad una persona precisa, non genericamente all’azienda. Che sia il titolare, il CEO, il DHR o un manager di linea occorrerebbe scegliere sempre un potenziale interlocutore. Può essere inutile? Certo che sì. Inviare un CV generico ad un’azienda qualsiasi lo è, però, ancora di più. Analizzando in rete l’impresa individuata a volte si possono capire molte cose interessanti. Come si presenta, qual’è il suo mercato chi, tra i suoi manager, si muove con una certa libertà con interviste o altro. Insomma la rete può aiutarci a predisporre un piccolo dossier di riferimento che potrà servire anche in una seconda fase in vista del colloquio. Come scrivere allora il CV? In modo sintetico, comprensibile, scevro da banalità. Chi legge cerca sempre qualcosa che già ha in mente seppur in modo non definito. Sa, ad esempio, cosa preferisce il committente finale in termini di caratteristiche generali magari non esplicitate chiaramente nella ricerca. Più che cercare di presentarsi in modo artefatto è meglio cercare di essere se stessi privilegiando una prosa asciutta, essenziale, diretta. Essere se stessi nel testo scritto come di persona. Personalmente ho sempre preferito questo approccio. E se nessuno risponde? Significa solo che hanno scelto un altro. E allora anziché perdersi d’animo, occorre insistere. Sempre. Mi è capitato in tanti anni di carriera, di essere contattato da Head Hunter per posizioni, di un certo interesse, in una determinata azienda che, per varie ragioni, non si sono concretizzate. Ammetto di aver provato una certa delusione perché ritenevo di essere la persona giusta per quel posto e perché le aziende erano importanti. E, non lo nego, perché avevo bisogno e voglia di cambiare. In alcuni di questi casi e a distanza di un paio di anni, dopo una verifica attenta, mi sono accorto che le persone scelte al mio posto erano già state sostituite da altre. Siccome non credo alla fortuna ho pensato fosse un caso ma da queste esperienze ho tratto una morale. Semplice ed efficace. Se non dovrà funzionare è meglio che non funzioni da subito. Quindi è meglio non essere scelto. In questo modo eviteremo di perdere tempo in due….
Ritrovare il lavoro perduto. Difficile ma non impossibile…
In questi anni (marzo 2010 – febbraio 2015) 762 dirigenti su 1037 partecipanti sono stati ricollocati grazie ad un progetto chiamato “Managerattivo” promosso da Manageritalia e Confcommercio. È una esperienza unica in Italia. Poco conosciuta ma, secondo me, molto importante e degna di nota.
50 edizioni tra Milano e Roma svolte presso il CFMT accompagnate da una variazione interessante chiamata “Managerinmpresa” che ha permesso ad oltre 30 piccole imprese di “ingaggiare” un manager scelto tra quelli presenti nel database di “Managerattivo” per realizzare specifici progetti pilota. Manager che hanno potuto utilizzare parte del loro tempo arricchendo il proprio CV con una esperienza a stretto contatto con imprenditori desiderosi di “tirare fuori dal cassetto” sogni o idee alle quali non potevano dedicare tempo o energie interne. Il merito va a chi ha creduto nel progetto, lo ha pensato e lo ha gestito: Giuseppe Truglia, Luigi Iagulli e Roberta Corradini insieme a qualificati partner esterni. Ne cito due su tutti: Anna Calvenzi di Acoté e Anna Graglia di Standler. Professionisti che, con ruoli e punti di osservazione diversi, hanno intuito, compreso, studiato e proposto una modalità innovativa di gestione di una fase delicatissima nella carriera di un manager. A prima vista potrebbe sembrare la “solita” variazione sul tema dell’outplacement. Non è così. L’outplacement in Italia, purtroppo, non è mai decollato sul serio. Non amato particolarmente dai sindacati confederali, utilizzato con parsimonia dalle imprese e vissuto come poco utile da molti lavoratori ha prodotto piccoli numeri in rapporto alle necessità e alle potenzialità. Tra i dirigenti c’è stata sicuramente una maggiore consapevolezza ma i numeri non sono, neanche in questo caso, particolarmente incoraggianti. La stessa opzione pur prevista dal CCNL è utilizzata pochissimo. Sicuramente Manageritalia, l’associazione sindacale dei dirigenti del terziario, ha lavorato per far crescere questa consapevolezza tra i propri associati. Questo progetto ne è la dimostrazione. Innanzitutto i numeri e la durata dimostrano che esistono concretamente le possibilità di arricchire e rendere più efficaci e rapidi i processi di transizione. Il percorso proposto prevedeva, innanzitutto, un colloquio di orientamento. Questo ha rappresentato il primo approccio con il futuro percorso formativo ed è un’occasione per riflettere sulla propria storia professionale, mettere a fuoco le competenze acquisite e motivare le scelte future. A questo seguiva un assessment di una giornata che aveva lo scopo di valutare le competenze in un’ottica di potenziale lavorando sulla carriera e sul piano di sviluppo individuale. Il profilo veniva poi restituito con un colloquio a distanza di 15 giorni dell’assessment e rappresentava la base per il lavoro con il coach personale chiamato “guida”. Questo è, dal mio punto di vista, il vero valore aggiunto del percorso proposto unito alla possibilità di essere parte di un gruppo che viveva lo stesso problema e quindi si motivava partecipando ad un’esperienza comune. Altri moduli completavano il programma e prevedevano, a seconda delle scelte individuali, come affinare strategie e strumenti per rientrare in azienda o come affrontare il passaggio dalla managerialità all’imprenditorialità nel caso si optasse per proporsi come startupper. Ecco, la differenza, rispetto ad altre esperienze, è forse rappresentata dalla passione, dall’impegno e dal coinvolgimento sia di Manageritalia che di chi, nel CFMT, ha messo a disposizione la propria professionalità e il proprio impegno personale, determinando il successo dell’iniziativa. Una recente survey lo ha evidenziato in modo netto.
Adesso questa progetto, pur concluso, ha lasciato a tutti importanti spunti di riflessione su ciò che può essere attivato e proposto in futuro. Soprattutto come reimpostare un percorso utile che lasci ai professionisti dell’outplacement il loro ruolo ma che consenta al CFMT di mettere a disposizione del dirigente il supporto necessario per riflettere per tempo sul proprio percorso e utilizzare la leva formativa in modo adeguato. Interessante, infine, è l’idea partita da alcuni colleghi che sono passati da questa esperienza che vorrebbero lanciare la proposta di creare una community per promuovere iniziative e costruire una rete di relazione efficace nel tempo.
È da progetti come questi che possono nascere nuove proposte in grado di allinearci alle migliori esperienze europee di politiche attive utili per predisporre in futuro strumenti innovativi che possano aiutare a prevenire, evitare o ad attutire al massimo, il trauma personale conseguente alla interruzione forzata del rapporto di lavoro non solo dei manager.
I collaboratori, come i capi, non sono tutti uguali…
Di questi tempi, in azienda, non è facile gestire seriamente i propri collaboratori. Aggiungo che non sono moltissime le aziende dove è presente e in uso un sistema strutturato di valutazione e sviluppo delle risorse. Questa situazione impedisce ai capi meno esperti di crescere nella capacità di ingaggiare, valutare e gestire singoli e team e quindi di far crescere i propri collaboratori. È questo crea situazioni di disagio. Apprendere specificità, diversità, metodologie e quindi dosare il proprio impegno nel coinvolgere i propri collaboratori è altrettanto importante che avere le competenze richieste per coprire una posizione manageriale. E quando ci si trova in difficoltà si mettono in crisi rapporti personali e si rischia di non ottenere quel contributo di passione, di impegno e di idee dalle proprie risorse spesso compromettendo il raggiungimento degli obiettivi di business. E, se così è, si viene messi in discussione. Un buon Capo sa capire e gestire le differenze, sa aiutare i collaboratori a crescere ed è soddisfatto quando alcuni di loro, in azienda, o fuori, si affermano professionalmente dimostrando, in questo modo, la propria capacità nell’averli cercati, selezionati, gestiti e aiutati a crescere quando erano più giovani.
I collaboratori, però, non sono tutti uguali. C’è chi cresce prima e chi dopo. E c’è anche chi non cresce mai. Occorre, però, sempre ricordare che, in azienda, esistono tre punti di osservazione. Il proprio, quello di chi ci sta di fronte e quello dell’azienda che potrebbe non coincidere né con il nostro né con quello del nostro interlocutore. Quindi è necessario avere sempre presente che i pregiudizi, la superficialità, i luoghi comuni, oggi non funzionano. O, meglio, non fanno crescere né il capo né il collaboratore. Il “Si è sempre fatto così”, “se non ti va te ne puoi anche andare”, “si fa così e basta”, “il capo sono io” rappresentano una cultura in via di estinzione o comunque priva di prospettive. I collaboratori vanno capiti e guidati, per fare questo, vanno ascoltati e gestiti. Per questo può essere interessate provare a ragionare sulle caratteristiche e sulle principali differenze oggettive tra soggetti appartenenti a categorie diverse. A questo andranno poi aggiunte, ovviamente, tutte quelle considerazioni soggettive e specifiche, indispensabili per una corretta valutazione. È una semplificazione che però può aiutare a riflettere. Nulla di più.
1) Il collaboratore brillante ma giovane
Appartiene alla generazione Y e va fino alla generazione Z. La sua idea di lavoro è profondamente diversa da chi lo ha preceduto. Non vive per l’azienda né vorrebbe trascorrervi un tempo infinito. Chi appartiene ad altre generazioni spesso pretende troppo da sé stesso e dagli altri. La quantità di tempo da investire in azienda è altra cosa rispetto alla qualità della prestazione. Il giovane, in genere, è portato a cercare un equilibrio continuo tra impegno professionale e contesto personale, spesso frequenta i social e pretende un senso in tutto ciò che fa. Nel lavoro occorre saperlo coinvolgere su diversi progetti non solo per misurarlo professionalmente ma anche per evitargli la routine. A volte sa andare ben oltre il ruolo assegnato e cerca sempre di portare un contributo positivo e costruttivo. Il capo deve lasciarlo esprimere il più liberamente possibile, aiutandolo, al massimo, a contestualizzare e a inquadrare gli aspetti che a lui sfuggono per mancanza di esperienza. Infine deve cercare di abituarlo a saper prendere la giusta distanza dai problemi insegnandogli a non reagire mai a caldo, a non dare giudizi sugli altri senza aver esaminato i differenti aspetti di un problema.
2) Collaboratore con figli o con problemi familiari
Contrariamente a quanto si crede chi ha problemi extralavorativi (soprattutto le donne) sono i più coinvolti e impegnati nel lavoro. Sono generalmente persone affidabili e produttive. Per aiutarli a sviluppare il loro potenziale il capo deve, innanzitutto, sapersi mettere nei loro panni. Ad esempio evitando di programmare riunioni tardi la sera o tollerando assenze impreviste. Agendo in questo modo e non colpevolizzando nessuno a causa di impegni improvvisi gli stessi saranno compensati da un importante investimento sul lavoro del collaboratore. Donne e uomini divorziati, famiglie con problemi e impegni extralavorativi richiedono una diversa tolleranza e un diverso approccio rispetto al passato in tema di impegno qualitativo e quantitativo sul lavoro.
3) Il futuro pensionato
Il prolungamento della vita lavorativa porta con sé la necessità di imparare a gestire collaboratori alla fine del loro percorso professionale. In genere sono arrabbiati con la Fornero, ipersensibili alle critiche e diffidenti verso capi più giovani di loro. Il rischio è di spingere, chi è in queste condizioni, a pensare di non aver più nulla da dimostrare e quindi a chiudersi in atteggiamenti passivi fino alla pensione. Al contrario occorre saper gestire queste persone con grande cautela facendo leva sull’importanza che l’azienda intende assegnare alla loro esperienza come ricchezza da valorizzare. A questo collaboratore potrebbe essere utile assegnare un ruolo di trasmissione di competenze che comunque non andrebbe mai sottovalutato. Per questo un capo dovrebbe incentivare i collaboratori più giovani a porre domande a loro, a far tesoro della loro esperienza, a far sentire il collaboratore anziano ancora utile all’azienda.
4) Lo stagiaire
L’errore più comune è non considerarli proprio. Quasi fossero fantasmi di passaggio. Al contrario con i costi di selezione e di ricerca avere la possibilità di valutare e impiegare in azienda giovani che poi potrebbero restare a lungo è un fattore importante. Un buon capo sa assegnare allo stagiaire un tutor di riferimento, obiettivi realizzabili e lo aiuta a crescere proponendogli momenti di confronto per coinvolgerlo. Quindi gli assegnerà dei lavori anche parziali e modesti ma dove lui stesso potrà apprezzarne i risultati. Questo non solo sarà utile per la sua crescita ma lascerà a lui una buona immagine dell’azienda e del Capo che porterà con sé anche altrove. Con l’utilizzo esagerato che si è fatto nelle imprese di questa figura pochi hanno considerato come la reputazione stessa dell’azienda risenta di ciò che chi vi ha lavorato anche per pochi mesi trasmette all’esterno.
5) Il lavoratore a tempo parziale
Spesso si pensa che chi lavora a metà tempo va gestito come un collaboratore di passaggio. O a metà. Niente di più sbagliato. Soprattutto non bisognerebbe mai assegnargli ciò che gli altri non vogliono fare. Il capo deve accettare l’idea che il collaboratore deve essere impegnato per il tempo equivalente e non caricato oltre il suo orario se non strettamente necessario. Colpevolizzare il collaboratore con orario ridotto (per scelta sua o spesso per scelta aziendale) non serve a nulla se non a frustrarne motivazione e impegno.
Il collaboratore da promuovere
Per prima cosa occorre accertarsi che la promozione che si vorrebbe assegnare sia il vero obiettivo del collaboratore. Non sempre lo è. Soprattutto per chi pensa di avere ancora delle possibili aree in cui è necessario crescere. Essere un ottimo specialista non significa saper gestire le persone e saper gestire le persone non sempre è accompagnato dalla capacità di mantenere alto il proprio livello di specializzazione. Spesso chi viene promosso è chiamato a gestire collaboratori che fino al giorno prima erano colleghi e questo può generare grosse difficoltà. Al Capo spetta accompagnarlo in questa nuova situazione perché intervenire dopo è spesso troppo tardi. Accompagnarlo nei primi mesi significa fornire tutti gli strumenti utili e i punti di riferimento necessari al suo nuovo incarico ed essere sempre disponibili a supportarlo. Potrebbe anche essere utile un coaching di supporto con esperti esterni propedeutici della promozione.
6) Il futuro ex
L’approssimarsi della fine di un contratto a tempo determinato, le dimissioni o un licenziamento spingono questa tipologia di collaboratore a considerarsi in uscita e quindi con scarsa motivazione e poco propenso a essere coinvolto. Se lascia l’azienda dopo pochi giorni il problema non sussiste ma, spesso, l’azienda ci mette del suo pretendendo la presenza sul posto di lavoro fino all’ultimo giorno del preavviso ma sottovalutandone la gestione interna. E quindi? In genere questo collaboratore viene pagato ma scarsamente utilizzato: una sciocchezza per l’azienda che lo paga inutilmente e per il collaboratore che si trova stipendiato senza fare nulla. In questo caso sarebbe molto meglio coinvolgerlo sui progetti che conosce e che ha seguito fino a quel momento fornendo a lui obiettivi o attività stimolanti anche se non strategici o di lungo periodo.
7) Il numero 2
È quello che aspira al posto del capo. Difficile da gestire perché in genere si muove coperto. L’unica arma con lui è il dialogo. Se il Capo merita quel posto non deve avere nessuna preoccupazione nella sua gestione.
Occorre ricordare sempre al numero 2 qual’è la sua posizione, fargli i complimenti per il suo spirito di iniziativa e per i suoi successi ricordandogli però sempre qual’è il suo posto nel suo interesse e nell’interesse dell’azienda. Occorre saperne sfruttarne l’energia positiva e spingerlo alla collaborazione continua accettando però l’idea che l’ambizione personale e la voglia di crescere rappresentano un valore positivo in una impresa.
8) Il nuovo arrivato
Chi è appena arrivato in azienda vuol fare una buona impressione con tutti. E questo provoca stress anche per paura di sbagliare. In poco tempo il nuovo arrivato deve apprendere un linguaggio nuovo, una cultura spesso diversa da quella di provenienza, interagire con colleghi e con strumenti differenti. Quindi si muove in modo spesso impacciato. Il capo si deve mostrare indulgente a fronte di inevitabili errori spiegando dove e perché ha sbagliato e rassicurando il nuovo collaboratore. Nelle prime settimane occorre prevedere degli incontri specifici sul contesto di lavoro, le difficoltà incontrate, l’adattamento, i colleghi, ecc. finalizzate ad abbassare lo stress e a finalizzare l’impegno.
A queste tipologie se ne potrebbero aggiungerne altre. Il collega polemico, quello con problemi personali, il millantatore, il sindacalista o quello che lancia il sasso e nasconde sempre la mano. Infine quello che da sempre la colpa agli altri. L’azienda è un contenitore ricco di umanità varia. Gestire diversità, tensione, competizione, atteggiamenti infantili o prepotenti fa parte dei compiti di chiunque ha a che fare con risorse e carriere. Per questo fare il capo non è facile. Come tutti i mestieri si può però apprendere come farlo al meglio. Questo deve essere l’obiettivo.
Dal discorso di Papa Francesco al Sinodo della famiglia
“Puoi aver difetti, essere ansioso e vivere qualche volta irritato, ma non dimenticare che la tua vita è la più grande azienda al mondo.
Solo tu puoi impedirle che vada in declino.
In molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano.
Mi piacerebbe che ricordassi che essere felice, non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.
Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.
Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza.
Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti.
Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell’anonimato.
Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi.
Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.
Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia.
È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un’oasi nei recessi della nostra anima.
È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita.
Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti.
È saper parlare di sé.
È aver coraggio per ascoltare un “No”.
È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta.
È baciare i figli, coccolare i genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche se ci feriscono.
Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.
È aver la maturità per poter dire: “Mi sono sbagliato”.
È avere il coraggio di dire: “Perdonami”.
È avere la sensibilità per esprimere: “Ho bisogno di te”.
È avere la capacità di dire: “Ti amo”.
Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice …
Che nelle tue primavere sii amante della gioia.
Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza.
E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo.
Poiché così sarai più appassionato per la vita.
E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta.
Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza.
Utilizzare le perdite per affinare la pazienza.
Utilizzare gli errori per scolpire la serenità.
Utilizzare il dolore per lapidare il piacere.
Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza.
Non mollare mai ….
Non rinunciare mai alle persone che ami.
Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!”
Inviato da iPhone
Trentenni fra trent’anni
Ai bambini in futuro forse non dovremo più chiedere: «Cosa ti piacerebbe fare da grande?». Piuttosto dovremmo dire: «Preparati ad essere in grado di fare tante cose». Secondo Rohit Talwar chi oggi ha 11 anni, probabilmente vivrà fino a 120 anni e rischia di lavorare fino a cento.
Incredibile? Forse è presto per dirlo. In Inghilterra, l’aspettativa di vita media oggi è oltre gli 80 anni e cresce ogni anno. A questi ritmi, un bambino di oggi vivrà almeno fino a 120 anni. E questa è una stima prudente. Contemporaneamente vediamo crescere i livelli di automazione nella vita quotidiana. Stanno nascendo nuove forme di smart software che rimpiazzeranno sempre più lavori. Questo porterà alla scomparsa di molti mestieri attuali, calcolati tra il 30 e l’80%. Da qui a 50 anni, saranno poche le persone che lavoreranno full-time. Molti non lavoreranno proprio. Sarà meglio o peggio? E chi li manterrà? Chi può dirlo?
Il sistema pensionistico e il welfare al quale siamo stati abituati si modificheranno profondamente nel prossimo futuro, perché è impossibile mantenerli con persone che vivranno fino a 120 anni. Quindi dovremo lavorare diversamente e molto più di oggi per essere sicuri di poterci mantenere fino a quelle età.
E questo solo per dire come è difficile immaginare come sarà la vita tra 20/30 anni.
Se trent’anni fa avessero proposto la legge Fornero o il Jobs act sarebbe scoppiata la rivoluzione. Negli anni 90 si poteva accedere tranquillamente alla pensione a 47 anni attraverso un mix costituito da CIGS, mobilità ed eventuali integrazioni aziendali consentendo di fatto un numero significativo di prepensionamenti. Il comparto industriale si è anche ristrutturato così. Altri tempi, dunque. Nessuno, allora, si è preoccupato delle conseguenze sul lungo periodo. Chi ha trent’anni oggi è nato allora. Nessuno ha chiesto loro di condividere o meno quelle scelte. Allora quel sistema andava bene a tutti: sindacati, imprese e lavoratori. Molti dei beneficiati sono, oggi, i genitori di questi ragazzi. Qualcuno avrebbe dovuto preoccuparsi del conto lasciato alle future generazioni? Non credo. Non dimentichiamo che dopo la prima guerra mondiale il sistema pensionistico era a capitalizzazione. Quindi assolutamente autosufficiente. Poi c’è stata la seconda guerra mondiale che ha bruciato praticamente tutte le risorse accumulate. Il dilemma, allora, fu se ricostruire il sistema precedente o andare sostanzialmente a debito tra generazioni. Scelta questa seconda strada si è scelto un sistema a ripartizione sapendo che, probabilmente, avrebbe retto per alcuni decenni. E così è stato. Cosa succederà tra trent’anni alle pensioni dei trentenni diventa oggi uno degli argomenti di una grande discussione spesso ansiogena. Noi possiamo solo limitarci ad aggiustamenti progressivi tra il vecchio sistema retributivo e quello contributivo. Non esiste “la soluzione definitiva”. Chi la propina è in mala fede. Parliamoci chiaro, nessuno può fare previsioni serie e attendibili su cosa succederà. Ci si può cimentare, ovviamente, però il rischio che si consideri solo la situazione attuale proiettandola in un futuro remoto è molto forte. Però solo con le variabili oggi a disposizione cioè al netto della tecnologia, delle innovazioni organizzative e sociali, delle crisi cicliche e della globalizzazione del lavoro. Nessuna riflessione sulla possibile evoluzione del contesto socio economico, nessuna sui flussi migratori reali; nessuna sul nuovo welfare necessario a generazioni che lavoreranno diversamente e più a lungo e con modalità completamente diverse. Per questo le ipotesi vanno prese con grande cautela. La drammatizzazione non serve. Tra trent’anni i trentenni non so se staranno meglio o peggio so solo, per certo, che loro ci saranno di sicuro e nel frattempo, a tutti noi, cittadini di oggi, viene richiesto di aiutarli a progettare un nuovo contesto economico, sociale e culturale diverso e funzionale a quello nel quale loro dovranno vivere. A noi il dovere di evitare di alimentare conflitti generazionali basati su ipotesi tutt’altro che scontate.
Si fa presto a dire: “sei un Quadro”…
Secondo i dati diffusi da Manageritalia sulla base dei report elaborati dall’Inps, in Italia ci sono oltre quattrocentocinquantamila “quadri”. Età media 47 anni (45,6 per le donne) e prevalentemente di sesso maschile, sebbene le donne che ricoprono questo ruolo siano aumentate del 24% dal 2008 al 2012, diventando più numerose delle dirigenti di sesso femminile.
Quasi centomila i professionisti presenti solo nel terziario del nostro Paese. Una via di mezzo tra la figura del Dirigente, oggi anch’essa in crisi di identità, e altre figure tipiche dei tradizionali inquadramenti contrattuali.
Una categoria in crescita, relativamente giovane e in cerca, forse, di un riconoscimento definitivo.
Il nome, certo, non aiuta: Quadro.
Oggi da più parti soppiantato dal più familiare termine inglese “manager” accompagnato da “qualcosa d’altro” che ne completa o ne contorna il significato.
La prima volta che il termine “quadro” è stato utilizzato per indicare quella specifica declaratoria del personale di un’azienda, prevista dal Codice Civile, è stato nel 1931 ma, già nel 1752, secondo il Dizionario Storico della lingua francese, il termine (“inquadrare” per indicare un insieme di ufficiali e sottufficiali che comandano dei soldati di un reggimento oppure degli individui: i quadri di un battaglione, ecc.) venne usato per la prima volta nel gergo militare da cui derivano buona parte dei termini utilizzati dalla cultura tayloristica industriale.
All’estero, soprattutto in Francia, il termine “Cadre” si è affermato con maggiore forza e ha una sua dignità specifica. Da noi, no.
È un termine polisemico. Ha una sola etimologia (quadro deriva da quadrus, quadrato in latino).
In altri Paesi esiste un contratto nazionale specifico che ne definisce perimetro e confini. E ne stabilisce varietà, ruolo e responsabilità. Da noi, no.
Da noi essere “quadro” non conferisce alcun status sociale. Al mare, al vicino di ombrellone, la moglie non può dire:”Mio marito è un Quadro”.
Meglio un generico:” Mio marito è un Manager”.
Suona meglio. Il termine quadro non identifica professionalmente. Inquadra, appunto. Per questo è venuto in soccorso l’inglese. Che spesso viene usato a sproposito.
Quadro è una termine che identifica solo una declaratoria contrattuale e il conseguente livello retributivo. Su questo aspetto, credo, dovrebbe essere fatto uno sforzo maggiore di analisi e di identificazione di nuovi percorsi professionali possibili e di riconoscimento soprattutto in contesti organizzativi profondamente diversi dal passato.
In Italia, In termini di benefit aziendali, la vera differenza con la figura del dirigente la fa il welfare a disposizione. Sanità e previdenza, innanzitutto. E questi sono, per un quadro, contrattualmente insufficienti. Ormai l’auto, il cellulare e il p.c. li hanno quasi tutti. E quindi non distinguono ma, semmai omologano. Tra l’altro questi strumenti hanno perso la loro funzione di benefit “esclusivi” trasformandosi in normali strumenti di lavoro. Spesso invasivi. Non avendo un orario di lavoro definito il professionista rischia di essere solo sempre disponibile e rintracciabile. Il Quadro può ancora contare sull’art. 18 a differenza di altre figure apicali. Almeno per chi è oggi in azienda con un contratto a tempo indeterminato. Va da sé che è molto difficile pensare di restare in una posizione di responsabilità, pur tutelato dalla legge, in un’azienda che ha deciso di non credere nella possibilità di continuare il rapporto di lavoro. Quindi occorre mantenere nel tempi competenze specifiche, capacità, responsabilità e autonomia. Ma anche competenze trasversali. Per continuare ad essere competitivi sul mercato. Da qui l’esigenza di percorsi di formazione e sviluppo continui ed efficaci. Ma tutto questo confluisce in un termine giuslavoristico ormai insufficiente, “Quadro”, appunto. Difficile da affrontare contrattualmente perché è un termine che piace ancora ai sindacati perché fa tanto “categoria”: I “Quadri”. Blanditi, vezzeggiati e ascoltati quando fanno una scelta di campo sindacale. Meno quando vorrebbero avere voce sulle proprie specificità nei contratti nazionali e aziendali. Nelle imprese occupano ruoli di grande responsabilità, partecipano a team anche internazionali o, addirittura, sono l’alter ego dell’imprenditore. Fuori dall’azienda sono una categoria apicale di un contratto nazionale zeppo di figure professionali massificate. È questo che, forse, li rende disinteressati ad una omologazione dentro un contesto tradizionale. La fine del “Taylorismo” culturale e contrattuale forse li rilancerà e gli restituirà un perimetro e un ruolo maggiormente definiti. I temi di interesse vanno da un maggiore riconoscimento del loro contributo al successo dell’azienda alla creazione di un’area professionale meglio definita e diversificata. Infine è forte la richiesta di un welfare più importante, aziendale o contrattuale, che tenga conto di vecchie e nuove esigenze di una popolazione che spesso “vive” in azienda. Le giovani generazioni, le nuove tecnologie e un contesto più globalizzato e interdipendente costringeranno contratti e codice civile a fare un deciso passo in avanti. E questo, anche se difficile, è certamente auspicabile.
Eravamo in centomila allo stadio quel dì…
È di oggi la notizia che il codacons pretenderà il rimborso del prezzo del biglietto di Expo a causa delle enormi file che rendono impraticabile una visita minimamente decente dell’esposizione. Sono sincero. Ho provato tenerezza per gli avvocati che hanno suggerito questa mossa. Roba da altri tempi.
Chiunque sia stato in Expo dopo agosto ha ben compreso la trasformazione che stava maturando sia nella composizione che nella numerosità dei partecipanti. Ormai tutti ben oltre l’Expo. Non era solo un problema di appartenere o meno alla schiera dei ritardatari che non volevano perdersi l’esposizione. Ci saranno stati anche questi. Ma restano una minoranza. Expo si è, via via, trasformato in una specie di Woodstock dove esserci è diventato più importante che vedere. Certo i padiglioni sono interessanti, gli odori o i profumi sono un po’ una via di mezzo tra un festival dell’unità e il mercante in fiera, le costruzioni sono affascinanti, ardite e particolari, ma la calca, la folla, il desiderio di essere in questo posto, qui e ora, ha superato ogni altra necessità o fatica. Follia collettiva? Non so. Io vedo centinaia di migliaia di persone contente. Un sabato mattina mi seduto in un bar all’entrata Triulza ad osservare le ondate di amici, scolaresche, coppie, single che alle dieci del mattino si accalcavano all’entrata e poi alla sera li ho osservati all’uscita. Stanchi ma felici. Avranno avuto, si e no, la possibilità di visitare due o tre padiglioni. Molti, tra di loro, chiacchieravano progettando di tornarci appena possibile. Le discussioni erano più che altro sulla lunghezza delle code a cui avevano partecipato. In realtà non avevano visto quasi niente ma erano stati lì. In mezzo a coetanei sorridenti e disciplinati. Ecco. A parte qualche incazzatura per i furbi esperti della “non coda” o in grado di infilarsi nelle cosiddette fast track le persone, sembravano serene e disciplinate. Si aspettavano questo e questo hanno trovato. Un grande luogo di incontro, di struscio collettivo di presenza. Ci sono alcuni avvenimenti che restano in ciascuno di noi, per sempre. Al di là di chi li ha organizzati. Si depositano in fondo ai nostri ricordi ed emergono quando ci si trova, la sera, con gli amici. Alcuni sono molto personali altri sono solo una testimonianza del tipo: io c’ero. Tutto qui. L’Expo per molti è uno di questi momenti. Adriano Celentano cantava nel ’67 un improbabile: “..Signorina se non sbaglio lei ha visto l’inter milan con me. Ma come fa lei a non ricordare. Noi eravamo in centomila allo stadio quel di’. Io dell’ in Inter Lei del mi Milan…” Potenza dei riti collettivi….