Contratto dirigenti terziario: Un “rinnovamento” assolutamente necessario più che un semplice rinnovo.

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Ogni contratto nazionale è figlio della storia e del contesto che lo hanno prodotto. Non fa eccezione il contratto nazionale dei dirigenti del terziario. Chi, negli anni, lo ha costruito e negoziato (da entrambe le parti) ha avuto la lungimiranza di pensare a lungo termine. Cioè di capire che sarebbe stato necessario pensare non solo ai dirigenti nel momento della loro massima forza professionale individuale ma concentrandosi su quando questa capacità negoziale individuale sarebbe venuta meno.
Da lì un importante welfare previdenziale e sanitario di carattere marcatamente solidaristico e, in un secondo tempo, anche formativo, attraverso il Cfmt.
Intuizioni non da poco in una categoria, per sua natura, dominata da un forte individualismo.
Quindi l’anima, il cuore di questo contratto nazionale, la sua specificità e la sua ragion d’essere non sono mai state né la parte economica né il sistema di tutele peraltro presente anche in altri contratti. Ovviamente un welfare così decisivo e importante deve essere mantenuto efficace nel tempo, per rispondere alle esigenze dei dirigenti, ma anche efficiente e quindi in equilibrio economico per non pesare sulle imprese.
Questo è ottenibile solo se si rafforza un sistema di governance moderno e trasparente in un contesto effettivamente bilaterale. Quindi rispettoso del peso e del ruolo di entrambi.
Ed è chiaro che questo rappresenta e rappresenterà un tema ineludibile che deve essere affrontato. Non è materia di merito del CCNL ma precede o accompagna il suo percorso di rinnovo. Così come rappresenta un tema ineludibile, per le imprese, la necessità di mettere mano al sistema delle tutele o dei vincoli quando questi ormai rappresentano solo un costo eccessivo o hanno le loro radici in un passato che forse non ha più ragion d’essere.
Il CCNL dei dirigenti del terziario viene applicato da aziende di settori molto differenti. Il commercio ne rappresenta una minoranza. Alcune di queste aziende non hanno problemi di costo per questa specifica categoria, altre, e sono la maggioranza, sono, al contrario, estremamente sensibili. Inoltre per la Confcommercio c’è un problema di coerenza e di equilibrio in rapporto agli altri contratti firmati. E di questo occorre tenerne ben conto. Tutto ciò pone un secondo punto di riflessione.
Il termine “rinnovo contrattuale” nell’immaginario collettivo è sempre stato collegato alla necessità di migliorare le condizioni di una sola parte. Sia essa rappresentata da dirigenti, come in questo caso, o da altre categorie di lavoratori dipendenti.
È sempre stato così ma non è scritto nella pietra e, proprio per questo motivo, negli anni, questa certezza ha lasciato spazio alla constatazione che un rinnovo di contratto nazionale rappresenta un momento di confronto e verifica su ciò che dovranno essere le regole, vecchie o nuove, da confermare, aggiornare o abrogare per l’intera durata dello stesso. E siccome nulla è statico, tutto è modificabile. Ovviamente con l’accordo tra le parti. Quindi ha più senso parlare di rinnovamento concordato e necessario degli istituti contrattuali più che di rinnovo automatico.
I negoziatori meno esperti potrebbero pensare che, a certe condizioni, sia meglio non rinnovare alcun contratto come se il rifiuto di affrontare uno o più temi li possa di per sé esorcizzare.
È un errore che spesso compiono i neofiti della contrattazione o i sindacati ideologici. Il risultato è semplice: un sindacato che non firma contratti è destinato a non contare più nulla. I temi sul tavolo non vanno sottaciuti o sottovalutati. Vanno affrontati e risolti con autorevolezza e lungimiranza. Il punto centrale resta la qualità dello scambio. Ciò che si lascia in rapporto a ciò che si ottiene. È questo non in astratto ma in un determinato contesto economico del Paese.
E se da un lato, al sindacato dei dirigenti preme allargare la propria platea di riferimento, rafforzare il sistema formativo o sostenere i colleghi nei casi di transizione tra differenti opportunità di lavoro, alle imprese interessa muoversi in un contesto di riduzione di ambiguità interpretative, e che gli eventuali costi se mai dovessero esserci siano comunque compensati da contropartite certe e misurabili. Oggi siamo qui, ancora fermi al palo. Riprendere il confronto con l’idea di arrivare ad una conclusione vuol dire comprendere fino in fondo la necessità di lavorare per ottenere questo riequilibrio. Personalmente non vedo altre vie praticabili.

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GDO. Essere di nuovo protagonisti o rischiare di essere irrilevanti: forse è arrivato il momento di riflettere

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Da osservatore esterno ho maturato una personalissima convinzione: la grande distribuzione avrebbe sicuramente bisogno di farsi sentire, oggi più di ieri. La necessità di continuare a contribuire al processo di ammodernamento del sistema distributivo italiano, il rapporto con l’agricoltura nazionale e con l’industria di trasformazione; la riorganizzazione e rinnovamento dei formati e quindi il rapporto con le pubbliche amministrazioni; la necessità di mettere mano a un modello efficace di contrattazione nazionale e aziendale, i nuovi modelli organizzativi, la qualificazione, la formazione e il welfare del personale presuppongono la presenza di una forte spinta associativa che sappia guardare oltre le specifiche esigenze di concorrenza e di equilibrio tra insegne. Questa ultima necessità credo sia ormai superata così come si è conclusa la fase dove ad alcune insegne è riuscito il disegno di rafforzarsi definitivamente a spese di altre. Adesso occorrerebbe decisamente andare oltre. Non nei convegni o sulla stampa dove la professionalità di ottimi specialisti può fare la differenza ma dove si trovano le soluzioni, dove si incide sul serio e dove si determinano le decisioni a proprio o altrui favore. E non è più, sia chiaro, un problema tra grande e piccola distribuzione. È un problema di strategia. Che oggi sembra non esserci o non essere incisiva come dovrebbe essere necessario. Il perché è evidente. La GDO ha sempre condizionato la contrattazione nazionale di categoria pur non gestendola mai in prima persona. Lo ha fatto per oltre trent’anni. In altri termini con poco più di duecentomila addetti ha sempre dettato le condizioni di un contratto che copre oggi oltre tre milioni di persone. E ne ha tratto benefici indiscutibili. Purtroppo negli anni, anziché capitalizzare queste opportunità, ha preferito cedere a richieste assurde dei sindacati a livello aziendale costruendo accordi con vincoli organizzativi e costi relativi che dovrebbero essere contestati e trattenuti dalla pensione dei Direttori del personale e dei board che si sono succeduti in quegli anni. L’impasse di oggi è anche figlia di quel passato. E questa impasse porterà inevitabilmente con sé le tradizionali liturgie natalizie, le vertenze legali con i relativi costi e consoliderà ancora di più l’impressione, nel Paese, che nella grande distribuzione il lavoro è povero, mal pagato e di scarso interesse per chi vuole crescere e investire su se stesso. E, nei dipendenti, l’idea che le loro aziende non sono disponibili a concedere ciò che altre aziende dello stesso settore sono state disponibili a dare. Reazioni inevitabili quando si tira troppo la corda. E confondere, come si sta facendo, i limiti, i ruoli e le potenzialità di livelli contrattuali differenti porta ancora di più a non essere compresi. Così come sulle aperture e sulla pianificazione degli orari dove la GDO ha contribuito a costruire, a suo tempo in Confcommercio, una posizione forte mediana ma condivisa e inattaccabile sia sul versante sindacale che nelle diverse regioni. Anzi ha avuto il merito di condizionare non poco la posizione della più grande confederazione del terziario, favorendo un importante dibattito interno positivo e costruttivo ben diverso rispetto ad altre organizzazioni, come ad esempio Confesercenti, che si sono messe, anche per questo, alla testa di posizioni abolizioniste tra le più intransigenti. Oggi è chiaro che la posizione di Federdistribuzione non trova grandi ascolti e, probabilmente, rischia di essere accantonata rimettendo inevitabilmente in discussione abitudini e comportamenti di consumo ormai consolidati. Risultato, questo, che non giova a nessuno. E anche su questo tema, la difficoltà a costruire alleanze propositive, è evidente e sotto gli occhi di tutti. Infine il rapporto con l’agricoltura nazionale. C’è in atto da sempre una guerra tra industria alimentare e agricoltura che passa quasi sotto traccia sulla stampa mentre continua la polemica esplicita sulla presunta “voracità” della GDO e sulla sua evidente volontà di “affamare” l’agricoltura nazionale magari a vantaggio di altri Paesi esteri. È certamente scandaloso e inaccettabile. Ma perché accade tutto ciò? Non certo per mancanza di volontà o di impegno di Federdistribuzione. È un problema di massa critica, di alleanze, di capacità o meno di finalizzare iniziative di sostegno che, quando il vento soffia contro, diventano più impegnative e complesse da realizzare. Per questo occorrerebbe tornare ad essere protagonisti costruendo le convergenze necessarie con chi ci sta. Occorre però avere la volontà e saper rimettere in fila i problemi valutando i percorsi possibili. Soprattutto quelli che non si sono sufficientemente valutati perché si è stati troppo occupati a cercare scorciatoie impraticabili. A volte qualche passo indietro aiuta a osservare meglio lo scenario che si ha di fronte. Personalmente vedo tre priorità: trovare un punto di incontro con le organizzazioni maggiormente rappresentative sulle aperture che non penalizzi fortemente le imprese della GDO e che sappia trovare un equilibrio praticabile così come ritrovare con loro e con le organizzazioni sindacali un percorso serio e costruttivo sulla contrattazione nazionale che sappia andare oltre le disfide giudiziarie che, per loro natura, non portano da nessuna parte e i desideri impossibili della prima ora e, infine, riprendere un iniziativa che riporti un equilibrio sostanziale nella filiera dalla produzione al consumo. Per fare questo occorre crederci, lavorare con ostinazione ma anche con lungimiranza dando per scontato che non c’è alcuna soluzione a portata di mano ma che occorre comunque provarci verificando chi ci sta e a quali condizioni. E se queste condizioni, pur diverse dai propri desideri, incontrano le esigenze delle imprese. Le aziende oggi, hanno bisogno di punti di riferimento. Il compito di una federazione è di aiutarle ad individuarli.

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Condividere, collaborare, partecipare. Una sfida non facile per il Paese

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passare dalla cultura del conflitto a quella della partecipazione non è facile. Soprattutto quando resta l’ideologia del conflitto ma non più la possibilità di farlo. Restano i rancori, le accuse reciproche, la paralisi. È chiaro che non si partecipa né per forza né perché non ci sono altre alternative. In questi casi si subisce solo l’iniziativa altrui.  Purtroppo in Italia siamo fermi qui. Io credo che occorrerebbe procedere per gradi. Innanzitutto sul piano macro. È vero o no che i corpi intermedi sono in discussione? Quindi occorre partire da lì trovando un terreno comune tra sindacati, imprese e associazioni rappresentative sull’identificazione di alcune semplici regole del gioco condivise. E occorrerebbe farlo in fretta. Riconoscimento reciproco, accordo sulla rappresentanza, salvaguardia della contrattazione nazionale, tutele minime per chi non ha un contratto nazionale di riferimento, consolidamento del welfare contrattuale. Ovviamente questo non basta. Occorre andare avanti. Cosa serve oggi al Paese per consolidare la ripresa e attrarre nuovi investimenti? Serve meno burocrazia, rapidità nella giustizia civile e regole semplici sul lavoro che consentano alle  nuove imprese di decollare rapidamente. Cosa serve ai lavoratori? Riduzione del cuneo fiscale, politiche attive, tutele minime, incrementi salariali legati all’andamento aziendale, flessibilità nel lavoro e tra lavori. Beh! Un sindacato in grado di collaborare con le imprese, che sostiene la ripresa e  la accompagna, che condivide con gli imprenditori gli elementi fondamentali di una rinnovata politica economica utile all’ammodernamento del Paese ricrea le condizioni per una ripresa vera di un ruolo propositivo che è altro rispetto alla vecchia concertazione. L’asimmetria di oggi condanna all’irrilevanza tutto il sindacato e aspettare con pazienza sulla riva del fiume che cambi qualcosa non è mai una buona politica. Quindi una strategia di collaborazione basata su elementi concreti, misurabili e condivisibili. Nel frattempo occorre continuare un processo di confronto unitario che abbandoni decisamente le ormai superate derive identitarie che si sono impadronite del confronto tra sindacati confederali. E, infine, un grande appuntamento nazionale condiviso che sappia coinvolgere il Paese con un linguaggio chiaro e diretto e che prospetti un percorso riformista, partecipativo e unitario. Ciascuno nel proprio ruolo e nelle proprie prerogative dovrebbe capire che il momento necessità di una svolta e di una leadership visionaria che sappia guardare al futuro. Il 900 è alle nostre spalle. Inutile voltarsi. Oggi, ci ricorda in una bellissima poesia Antonio Machado, non c’è un sentiero segnato da percorrere, la via si fa camminando ma, soprattutto, nessuno può più ritornare sui propri passi.

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la “terziarizzazione” dello sciopero

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L’effetto mediatico che avvenimenti quali l’assemblea al Colosseo o lo sciopero indetto da USB che ha bloccato Roma è stato enorme. Così come le polemiche che ne sono scaturite. Ovviamente non succederà nulla né in termini di prevenzione intelligente né in termini di risoluzione dei problemi che hanno determinato quelle situazioni. Si preferisce continuare ad andare da indignazione a indignazione senza mai approdare a nulla. Forse sarebbe il caso di fermarsi a riflettere. I protagonisti dello sciopero come strumento di lotta e di difesa dei propri interessi sono sempre meno gli operai (quelli veri). Ormai scioperano con più frequenza medici, avvocati, pubblici dipendenti, vigili del fuoco, controllori di volo, tassisti, notai, e prefetti. Le manifestazioni pubbliche sono sempre più partecipate da pensionati, studenti, migranti, ecologisti o gente comune. Gli operai, costretti a creare questo strumento e suoi utilizzatori principali e legittimi per almeno un secolo lo hanno in qualche modo ormai messo in soffitta. Aris Accornero, nella enciclopedia dei ragazzi della Treccani, fa risalire il termine sciopero al verbo latino “exoperare” cioè smettere di lavorare. È interessante osservare che il suo significato, nella declinazione individuale, è più associato a smettere di lavorare più per pigrizia o per scarsa voglia di lavorare del singolo, idea questa che, nel corso del 900, è sempre emersa, soprattutto nei giudizi sprezzanti di chi avversava lo sciopero. Diverso è il suo significato collettivo che lo conferma, da sempre, come strumento di lotta sociale. Anche in altre lingue assume sempre un significato aspro e duro; Huelga in spagnolo significa anche picchiare, cozzare; in inglese o in tedesco strike e streich significano anche attacco e colpo. Un termine forte dunque. Se pensiamo alle condizioni di partenza, di povertà estrema, di emarginazione sociale e culturale che hanno determinato l’esigenza di inventare strumenti di difesa così necessari e estremi per cambiare la propria situazione non possiamo non convenire che, oggi lo strumento si è trasformato in altra cosa. Così come il diritto di riunirsi in assemblea conquistato con migliaia di licenziamenti, morti ammazzati nelle manifestazioni e tragedie di ogni tipo. Se ci limitiamo al nostro Paese e leggiamo la storia sindacale tra gli anni 50 e lo statuto dei lavoratori ci rendiamo conto di cosa è stata quella stagione per la classe operaia italiana. Nulla però di tutto questo ha coinvolto le categorie di cui sopra. Nessun licenziamento ha riguardato né il pubblico impiego né le categorie professionali che, nel tempo si sono impadroniti e utilizzano, alcune con una certa dose di spregiudicatezza, questo strumento estremo non già contro un padrone ma inevitabilmente contro categorie di cittadini che, di volta in volte, vengono prese in ostaggio in vicende che non li riguardano minimamente e di cui ne pagano in esclusiva le conseguenze.

È proprio questo fenomeno di “terziarizzazione” del diritto di sciopero sul quale sarebbe necessario ritornare a riflettere. Stiamo parlando dello stesso diritto di chi lo esercitava nei confronti di una controparte dura e spesso insensibile e in grado di resistere o di concedere o di un’altra cosa? E quindi in questo caso non sarebbe utile trovare diversi canali di composizione visto che quelli fino ad oggi previsti non hanno portato a risultati apprezzabili? Pierre Carniti sosteneva che l’unica regola utile per non creare danni a terzi con uno sciopero è non farlo. Ovviamente era un paradosso. Però è significativo che l’attenzione di tutti è su come regolare un diritto e non su come rendere stabile forme di dialogo e di ricomposizione che siano più adatte ai tempi. Non porsi il problema di cosa c’è oltre allo sciopero e oltre alla sua regolamentazione con l’obiettivo di renderlo inutile è veramente un segno del degrado raggiunto. Lo hanno saggiamente messo da parte gli operai (quelli veri) che lo hanno inventato perché hanno constatato sulla loro pelle che oggi, i vantaggi possibili, sono decisamente inferiori ai costi necessari per realizzarli e quindi cosa aspettiamo a capire che il problema non è come lasciare intatto un simulacro del passato salvo poi svuotarlo dall’interno!  Più che costringerci ad accettare come inevitabile la terziarizzazione dello sciopero sarebbe meglio lavorare per cercare, insieme, come ricomporre i conflitti sociali nell’era della globalizzazione e della terziarizzazione dell’economia. Questa sarebbe una vera sfida.

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Rinnovo o rinnovamento dei CCNL?

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Nei percorsi negoziali e nella normale dialettica sindacale i cambiamenti di fase sono scanditi da parole chiave, da nuovi comportamenti o da modifiche strutturali che segnano contemporaneamente la chiusura di una fase o l’apertura di una nuova. Questo vale, soprattutto, nei modelli e nei contenuti della contrattazione sia essa nazionale o aziendale. Marca nuove opportunità, atteggiamenti, nuovi diritti o li rimette in discussione. C’è stata, ad esempio, la fase della “contrattazione articolata”, decisamente aggiuntiva rispetto al Contratto nazionale, quella della cosiddetta “prima parte dei contratti” dove i diritti di informazione hanno avuto ben più importanza del salario, quella della partecipazione “concessiva” (termine coniato dal prof. Baglioni) dove le imprese coinvolgevano i sindacati quasi esclusivamente nella gestione dei processi di riorganizzazione e di ristrutturazione. Poi quella nella quale le materie trattate nel CCNL non potevano essere più riprese nella contrattazione aziendale. Adesso siamo entrati nella fase del “riequilibrio” o, come preferisce chiamarla Federmeccanica di “rinnovamento contrattuale”. L’impresa vuole muoversi con maggiore rapidità e autonomia e quindi cerca di rimettere in discussione anche i ruoli e le prerogative delle organizzazioni sindacali interne o esterne. Questa fase è stata preceduta, in molte realtà di dimensione medie (Fiat a parte) da un suo sottoprodotto: l’azzeramento o la sospensione della contrattazione aziendale. Proposte e accettate dalle le organizzazioni sindacali in molte realtà del sud soprattutto in caso di acquisizioni o per evitare chiusure, unilaterali  e con scontri e battaglie legali al nord. L’obiettivo era, ovviamente, quello di ridurre i costi ma anche quello di cercare di ridefinire, una volta per tutte, i rapporti di forza all’interno di molte imprese. In generale è possibile affermare che questa asimmetria di potere oggi è favorevole alle imprese. Ed è da qui che occorre partire. Perché è necessario un profondo rinnovamento del CCNL? E perché questo rinnovamento è fondamentale sia per le imprese che per i sindacati? Al di là delle discussioni sui livelli della contrattazione e della necessità di rivederli un dato è certo: occorre comunque rivisitare e attualizzare i contratti nazionali. In primo luogo perché non ha senso superarli, in secondo luogo perché le imprese devono trovare risposte e soluzioni rapidamente e non vincoli e norme spesso inapplicabili e quindi disapplicate.  I diversi contratti nazionali hanno subito, negli anni, una continua manutenzione ordinaria e straordinaria. Sono stati adattati a nuovi mestieri, nuove realtà imprenditoriali. Si sono dovuti piegare a nuove norme e hanno dovuto accompagnare le imprese e i lavoratori sia nelle fasi di crescita che di profonda crisi spesso trascinando con sé norme e cavilli spesso contraddittori che non hanno più ragioni di esistere. Per questo occorre mettervi mano e ha più senso parlare di rinnovamento dello stesso anziché di semplice rinnovo. Nel contratto del terziario il tema è stato affrontato istituendo le cosiddette “deroghe”. Non è un caso, che proprio nel CCNL del terziario, i negoziatori hanno dovuto prendere atto che un contratto che gestisce oltre tre milioni di addetti non può non prevedere la possibilità di adattamenti e modifiche in contesti specifici. Forse non sarà sufficiente, però è una presa d’atto importante. Sarà così anche per il contratto dei dirigenti del terziario fermo proprio sulla necessità di una profonda rivisitazione di tutele che rischiano di non avere più senso. Sarà ancora più decisivo ciò che avverrà nell’industria dove si misurerà la possibilità o meno di creare nuove regole del gioco e quindi di riequilibrare diritti, doveri e costruire nuove relazioni sindacali. Ovviamente sarà interessante capire se le parti in causa giocheranno fino in fondo la partita o se si richiuderanno in un reciproco quanto infruttuoso scambio di accuse. Siamo un po’ su una nuova linea di confine. Termini come collaborazione, partecipazione, rispetto reciproco, diritti e doveri possono trovare una composizione positiva è una nuova declinazione nell’interesse delle imprese e dei lavoratori. Non si difendono il lavoro, le imprese e gli interessi del nostro Paese giocando solo contro uno all’altro come fossimo ancora nel 900. Dobbiamo tutti saper guardare oltre e costruire insieme. Quello che spero è che dietro le parole ci sia una vera presa d’atto che i cambiamenti nel nostro sistema di relazioni sindacali  sono inevitabili sia nel metodo che nei contenuti e quindi vengano affrontati come tali.

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CCNL dirigenti terziario: un rinnovo che rischia di non esserci..

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Dopo un anno di moratoria seguito da lunghi quanto infruttuosi negoziati il rinnovo del contratto nazionale dei dirigenti del terziario rischia di non trovare una sua conclusione. Le ragioni alla base dell’impasse sono essenzialmente da ricercare nella difficoltà di trovare una sintesi tra le necessità, espresse da Confcommercio, tese a modificare alcune datate normative contrattuali e la posizione ribadita da Manageritalia di mantenerle comunque in vigore accettando, al massimo, modifiche non sostanziali e comunque non ritenute sufficienti dalla controparte.
Ovviamente sono posizioni di parte assolutamente legittime.
Personalmente cerco di andare oltre perché credo che un rinnovo di un contratto nazionale oggi deve saper trovare un vero e proprio riequilibrio rispetto ad un passato più o meno recente dove, era dato per scontato, che l’asimmetria fosse esclusivamente a favore del lavoratore. Era cioé ovvio ritenere che il rinnovo di un contratto prevedesse solo miglioramenti a favore di una parte. Oggi non è più così.
E se questo equilibrio non lo si riesce a trovare un contratto non si chiude. Certo è che Confindustria e ABI lo hanno siglato da poco senza costi aggiuntivi e prevedendo revisioni importanti su alcune vecchie tutele. Quindi in quei contesti  un ragionevole riequilibrio è stato possibile trovarlo.
Personalmente ritengo che sarebbe saggio chiudere anche il contratto del terziario. E questo per una serie di ragioni.
Credo sia ormai sia chiaro a tutti che stiamo entrando in una fase di ripensamento  sulla contrattazione in generale e sull’adeguatezza o meno degli attuali modelli o livelli a disposizione.
Il contratto dei dirigenti del terziario è un piccolo contratto rispetto ad altri ma da esso dipende un importante welfare che non sarebbe certamente gestibile se smontato o decentrato a livello regionale o aziendale.
Così come credo sia improponibile pensare di separare la gestione del welfare, che resterebbe come è oggi, lasciando alla singola azienda il compito di determinare la normativa individuale più adatta per i propri dirigenti. Ed è inutile negare che alcune aziende pensano sia giusto spingere in questa direzione.
In un contesto del genere lasciare aperto all’infinito il confronto può rivelarsi un grave errore di valutazione.
Ovviamente è una mia personalissima opinione.
La figura del dirigente sta cambiando molto sia in ruolo che in status. Nessuno credo, possa ipotizzare più che tra la nomina e la pensione tutto è destinato a procedere come in passato. Il percorso manageriale è sempre più caratterizzato da una forte instabilità. Si alternano ormai fasi a tempo indeterminato con altre a tempo determinato, consulenze e fasi di riorientamento della propria carriera che rendono necessari strumenti e normative diverse e più adatte ai tempi. Capacità e competenze vengono costantemente messe alla prova e quindi la formazione continua deve diventare parte fondamentale del patto tra dirigente e impresa. E deve crescere nel dirigente la consapevolezza che la qualità del proprio percorso dipende essenzialmente dalle proprie scelte o non scelte in termini di sviluppo professionale, formazione e impiegabilità. Tutto questo rende inevitabile percorsi personalizzati, momenti di verifica, capacità di acquisire anche quelle competenze soft che unite alle ovvie competenze tecnico professionale potranno fare la differenza sul mercato del lavoro. A questo vanno aggiunte le altrettanto importanti modifiche che i differenti percorsi professionali determineranno alla propria previdenza integrativa e all’assistenza sanitaria in tempi dove dovremo inevitabilmente misurarci con profondi cambiamenti del sistema a cui eravamo abituati. Tutto ciò determinerà, a sua volta, priorità e conseguenze i cui costi non possono essere semplicemente messi a carico delle imprese come in passato. Quella fase è finita per sempre.
Non è certamente facile portare a termine un negoziato dove far coesistere vecchio e nuovo, esigenze di tutela e esigenze di cambiamento, aspettative dei singoli e obiettivi delle imprese. Non è facile, però è indispensabile. I gruppi dirigenti si misurano sulla loro capacità di capire come anticipare e gestire i cambiamenti in atto. C’è stato un momento, alcuni mesi fa, dove sembrava possibile chiudere ma è stato purtroppo sprecato. Quindi occorre ricominciare da capo. Con pazienza e con determinazione.Se qualcuno pensa che sia sufficiente rilanciare la propria posizione convincendosi così di fare passi avanti si sbaglia così allo stesso modo chi pensa che occorra cercare un semplice punto di equilibrio e non cerca di comprendere la necessità ormai indilazionabile di un riequilibrio complessivo dimostra di non capire la posta in gioco. Quello che è avvenuto fino ad ora dimostra che non ci sarà alcun contratto per forza. Ci sarà solo se il punto di incontro sarà accettabile da entrambe le parti.
Sempre manifestando una mia personalissima opinione io credo che chi non lavora con questo spirito e con la volontà di arrivare a questa determinazione rischia solo di continuare a perdere tempo.

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GDO al bivio: l’intransigenza può essere una tattica, non una strategia..

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Non c’è ancora una sentenza definitiva ma il Tribunale di Torino sembra aver imboccato una strada che può modificare i piani di Federdistribuzione che, nel frattempo a leggere i comunicati e i toni utilizzati, continua ad essere poco conciliante con le organizzazioni sindacali. L’intransigenza mostrata nel voler realizzare un proprio contratto nazionale non sta portando ai risultati sperati; il contratto non c’è e difficilmente ci sarà. Soprattutto non ci sarà nulla di diverso e di specifico rispetto al CCNL del terziario. Quindi, in estrema sintesi, tanto rumore per nulla. Al di là delle imprese che decideranno se e come seguire le indicazioni di Federdistribuzione, un dato è certo: l’intransigenza, se non è finalizzata ad un obiettivo preciso si trasforma spesso in un boomerang. Prendiamo ad esempio il tema delle liberalizzazioni. Si è partiti anche qui da una posizione intransigente. O tutto o niente. Confcommercio, pur condividendo la necessità di superare anche al proprio interno, le posizioni più ostili alle liberalizzazioni aveva tentato di trovare sintesi nell’interesse di grandi e piccole superfici. Tutto inutile. Altre organizzazioni hanno cavalcato l’opposizione più intransigente mentre Federdistribuzione, legittimamente, ha colto la possibilità di ottenere il massimo e quindi non ha voluto sentire ragioni. Oggi quella vittoria rischia di trasformarsi in una vittoria di Pirro. La politica sta facendo altre scelte che rimettono in discussione ciò che sembrava scritto sulla pietra. Dario Di Vico in un suo articolo ha invitato alla ragionevolezza le imprese della GDO invitandole a rientrare in gioco. Personalmente condivido quel pezzo. Era sbagliata l’intransigenza di allora è sbagliata quella di chi, oggi, vorrebbe rimettere in discussione tutto ribaltando la situazione. Occorre trovare un punto ragionevole di equilibrio. Sugli orari, sulla crisi delle grandi superfici, sul ridisegno delle città e, quindi sulle nuove aperture, ha poco senso procedere in ordine sparso. Così come sui contratti. Ha senso applicare nella GDO tre contratti nazionali con tre welfare differenti? Io non credo. Ovviamente non spetta a me individuare soluzioni ma, credo, che sia corretto interrogarsi sul confine tra tattica e strategia e, soprattutto, se, la difficoltà a dotarsi di una strategia aiuta le imprese in un momento nel quale si cominciano a cogliere i primi segnali di una ripresa.

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Ancora sulla “provocazione” di Dario Di Vico

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un vecchio proverbio arabo recita:”tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Mi sembra spieghi bene la piega che sta prendendo il dibattito sulla provocazione di Dario Di Vico sul ruolo del sindacato nelle nostre imprese. Al di là delle legittime opinioni un dato sembra emergere con chiarezza: in molte imprese il sindacato o non esiste o non esercita nessun ruolo. Inoltre, in  alcune imprese, il contesto economico, la presenza di politiche di gestione delle risorse umane o la cultura imprenditoriale o manageriale hanno sviluppato o stanno sviluppando un sistema di gestione positivo per i lavoratori (e per l’impresa) che esclude la necessità di intermediare con le organizzazioni sindacali. Nella gestione dei manager  e dei K people c’è sempre stato questo approccio. La concessione di benefit oltre l’auto, il telefonino e il p.c. si è diffusa in molte realtà, soprattutto multinazionali comprendendo via via assicurazioni, asili privati per i figli, contributo per affitto, rimborso spese mediche, ecc. fino ad arrivare a soluzioni più specifiche per rendere la vita degli espatriati meno ossessionata dalla burocrazia servizi di pagamento delle bollette, tintoria, gestione del tempo libero, ecc. L’obiettivo era chiaro: migliorare il clima interno, trattenere i migliori, rendere più complesso il lavoro dei cacciatori di teste che si trovavano a dover fare i conti non solo con la retribuzione da offrire ai potenziali candidati ma con benefit che non tutte le aziende erano disposte a concedere più rivolti alla qualità della vita. Ovviamente questi benefit erano e sono riservati ad un numero ridotto di persone. La profondità della crisi e i mutamenti profondi del mercato del lavoro li hanno messi in discussione e, via via, sono scomparsi. È rimasta però la cultura che li aveva generati che è ben altro rispetto al cosiddetto “paternalismo” che viene evocato ogni volta che si esce da quanto previsto dal CCNL ma che è molto ambito dalle persone. In un’azienda ciò che conta veramente è il clima. Un contesto positivo ti fa sentire parte di una squadra vincente indipendentemente dal tuo ruolo. Hai la consapevolezza di essere in un’azienda che crede nelle proprie risorse e che investe in formazione, sviluppo e magari in qualcosa in più che altrove non c’è. Avere la possibilità di essere valutati, aiutati a crescere, corretti, incentivati e ben altra cosa che non contare nulla. Tutto questo non ha nulla ha che fare con il paternalismo. È un sistema di gestione che funziona e che va ben oltre il rispetto o meno del CCNL, dell’inquadramento pofessionale e della gestione collettiva. Punta sul merito, sull’adesione ai valori aziendali, sull’individuo. È questo checché ne pensino i detrattori, funziona e spinge a performance migliori, al coinvolgimento e alla crescita. Ovviamente questo riguarda quella parte dei collaboratori che per ruolo individuale o per appartenenza a reparti importanti può fare la differenza per quell’impresa. Detto questo alcune imprese non si fermano qui. Vanno oltre e propongono sistemi premianti specifici per gruppi o per l’insieme dei lavoratori. Oppure propongono forme di welfare aziendale che comprendono sconti in palestre, spacci, ecc. e, perché no, forme di integrazione della previdenza e della sanità. Alcune lo fanno consorziandosi, altre da sole. Tutto questo non c’entra nulla con il sindacato? Dipende. Dopo aver perso la battaglia sui superminimi individuali o di gruppo adesso ha senso bollare come paternalistica o sbagliata una realtà che premia non solo il singolo lavoratore ma spesso l’intera collettività? Io non credo. Ci sono aziende che se lo possono permettere o che sperimentano modelli gestionali innovativi. Basti vedere la sede di Facebook a Milano o di Google solo per fare un esempio per rendersi conto che in molti casi  ruoli, scrivanie, coinvolgimento sono necessariamente diversi. Sono realtà dove il sindacato non c’è o se c’è non interferisce quasi mai. Anzi. E allora dov’è il problema. Non c’è antisindacalità in tutto questo. C’è una proliferazione di modelli gestionali e organizzativi diversi dal tayolorismo che consentono di costruire un patto nuovo e diverso tra impresa, management e collaboratori. Dove si sa benissimo che si può essere licenziati l’indomani o che l’azienda può anche fallire e quindi conviene a tutti scambiare professionalità con formazione, crescita e contropartite che vanno oltre l’aspetto economico. Ovviamente non è cosí per tutti. È quindi c’è spazio per il welfare contrattuale che va consolidato e dotato di governance efficaci, c’è spazio per un sindacato moderno che non scambia per paternalismo il welfare della luxottica altrimenti non verrà compreso dagli stessi lavoratori. Ma se non vuole diventare un sindacato a cui ci si rivolge solo quando quel patto viene meno si deve prender atto che la fine del taylorismo e l’affermarsi di una cultura propria delle nuove generazioni che pretendono maggiore maturità nel rapporto di lavoro con più coinvolgimento, possibilità di crescita personale e meno burocrazia impone un salto culturale. Altrimenti il rischio non è che il sindacato scompaia ma che declini diventando, purtroppo, marginale.

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Welfare aziendale e welfare contrattuale: quali prospettive.

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Il welfare aziendale piace molto ai media. Ci fa tanto assomigliare alle grandi imprese di altri Paesi. Ci fa assomigliare a quelle realtà dove la dimensione aziendale, il sistema contrattuale e fiscale consente alle aziende di investire sul questa forma di salario indiretto che produce retention, clima positivo e integra l’intervento pubblico. In Italia rischia di essere un percorso sterile. Per quanto le aziende possano investire su questo filone la dimensione delle aziende, la distribuzione sul territorio di strutture pubbliche adeguate, i limiti dell’intervento pubblico presente e soprattutto futuro, in termini di assistenza e previdenza rendono difficile un approccio che fa perno sul singolo imprenditore. Per questo occorre puntare decisamente sul welfare di derivazione contrattuale. Consente economie di scala, opportunità che coprono grandi e piccole imprese, controllo sul piano della qualità dell’offerta. È strano come osservatori attenti si lascino sfuggire questa dimensione che già oggi coinvolge  circa cinque milioni di persone nei diversi settori merceologici. Capisco che oggi, tutto ciò che comprende tra i promotori le organizzazioni di rappresentanza, non è percepito come positivo e propositivo ma questo è. Fondi contrattuali come EST, QUAS, FASDAC solo nel settore del terziario rispondono alle esigenze di natura sanitaria di oltre un milione e mezzo di lavoratori dipendenti. Forse non fa notizia come la LuxOttica di Del Vecchio ma certamente risponde ad un problema sentito. Non nasce oggi ma nasce in anni dove la scelta tra salario diretto e salario accessorio non era facilissima da fare e dove, anche le organizzazioni sindacali dei dipendenti e dei dirigenti hanno convenuto con la Confcommercio scelte innovative. È strano che, proprio oggi, quando Confindustria si pone giustamente, e tra mille critiche, di seguire lo stesso percorso, si voglia sottacere i risultati già ottenuti nel terziario. Certo ci sono problemi di governance, di approcci burocratici da superare e di tenuta in prospettiva di alcuni di questi fondi. Ma ci sono problemi di strategia che potrebbero orientare le parti socie, a cominciare da Confindustria, Confcommercio e le associazioni degli artigiani a guardare avanti magari ipotizzando convergenze utili a costruire masse critiche simili a quelle presenti in alcuni Paesi europei. Ma una cosa è certa; questa è la strada da percorrere in Italia. Inseguire le pur lodevoli iniziative di singoli imprenditori non porta da nessuna parte. Occorre far crescere una cultura nuova che favorisca la creazione di fondi privati importanti che sappiano dialogare anche con il pubblico portando risparmi, razionalizzazioni ed efficienza nel l’erogazione dei servizi senza togliere alcun spazio agli interventi delle assicurazioni sul piano individuale. Comprendere fino in fondo i vantaggi che comporterebbe un consolidamento di una politica seria a sostegno della previdenza complementare. Per questo, credo, occorrerebbe dedicare maggiore attenzione a ciò che le parti sociali stanno facendo, individuarne pure limiti ed errori, ma evitando di gettare il bambino con l’acqua sporca. Progetti del genere modificano culture radicate, creano forme di collaborazione tra le parti, danno nuove prospettive e ruolo ai corpi intermedi. C’è molto da fare ma la strada è quella. Le scorciatoie, seppur benemerite, non portano da nessuna parte.

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Declinare crescendo?

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È vero. A volte quando osservi i comportamenti nei CDA di alcuni sindacalisti negli  enti bilaterali ti viene il sospetto che vivano fuori dal tempo. Lontani dalla realtà. Avendo fatto il DHR per tanti anni mi rendo conto che la capacità di comprendere i problemi concreti delle imprese, la rapidità necessaria a risolverli e  l’attenzione ad affrontare tutto ciò che non è noto e scontato sono caratteristiche sempre meno presenti. Anche il linguaggio è vecchio e di difficile comprensione per i non addetti, soprattutto se sono di altri Paesi. La stessa comunicazione spesso propone una caricatura della realtà, i toni sono quasi sempre esagerati e poco credibili e offrono soluzioni semplici ma quasi mai realizzabili nei modi e nei tempi proposti ai destinatari. I comportamenti incoerenti. Ad esempio tutte le deroghe in pejus consentite per i nuovi assunti (lavoro domenicale, turni, disagi vari) hanno creato un confine tra generazioni che non è più  stato colmato. Le stesse piattaforme contrattuali, i tempi di rinnovo e la distanza tra obiettivi e risultati spiegano bene la difficoltà nel costruire strategie e consapevolezze nuove tra i lavoratori. L’idea che del sindacato si può farne a meno è presente in molte aziende soprattutto là dove le imprese cercano di gestire in modo autonomo il rapporto con i propri collaboratori. Di fronte a chiavi di lettura molto tradizionali si consolida sempre più la voglia di fare a meno del loro contributo. Gli incontri si trasformano in liturgie della parola, i colleghi dirigenti delle altre direzioni (vendite, acquisti, logistica, ecc.) guardano noi DHR come professionisti della chiacchera e nell’impresa si consolida l’idea della irrilevanza e dell’inutilità del confronto con i sindacati. E spesso anche noi quando ci sediamo di fronte a loro partiamo prevenuti con la convinzione che stiamo solo perdendo tempo. In azienda, in molte realtà, si va senza di loro. Nel bene e nel male. Di Vico fa bene a porre il problema. Siamo forse già in una fase post sindacale. Personalmente non credo sia una buona cosa. E questo per varie ragioni. Non ci sono solo le aziende che propongono forme di welfare aziendale o che si occupano positivamente dei propri collaboratori. In Italia ci sono oltre quattro milioni di imprese. Proviamo a pensare come potrebbe essere una realtà senza contrattazione nazionale, senza equilibrio tra diritti e doveri, dove non esistono regole e dove se la cava il più furbo o solo chi è disposto a tutto pur di lavorare. Il sindacato è necessario in una società complessa come la nostra. Certo c’è chi ne puó fare a meno sia individualmente che collettivamente ma non è cosí per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Secondo me anche per le imprese è utile. Pensiamo solo al dumping contrattuale.  Detto questo possiamo discutere di quale sindacato avrebbero bisogno i lavoratori e le imprese oggi. Io ho le mie idee. Penso ad un sindacato che sa collaborare con l’impresa in modo nuovo. Che comprende e forma i suoi esponenti a capire il nuovo e ad affrontarlo senza paura. Intransigente sui principi ma aperto alle novità. Pronto a sperimentare soluzioni innovative e conscio che la stagione dell’obiettivo-lotta-risultato è finita. Oggi la stagione è condivisione-convergenza-risultato. Ma questa è solo una mia opinione. Al sindacato spettano le mosse che vorrà compiere e decidere le traiettorie conseguenti. Io, a differenza di Di Vico registro segnali nuovi. Nelle categorie dell’industria della CISL e in alcune aree del nord ma anche provenienti dalla conferenza organizzativa della CGIL vedo proporre riflessioni significative sia in direzione di un superamento della situazione di concorrenza tra sigle confederali sia nel merito. i rinnovi contrattuali la governance degli organismi bilaterali, il welfare contrattuale e gli accordi sulla rappresentanza possono costituire un passaggio importante. Speriamo venga colto da tutti.

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