Perché la Grande Distribuzione italiana non è in grado di varcare i confini nazionali..

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Quando collaboravo con la Direzione Generale di Confcommercio mi è capitato di visionare un carteggio tra il Presidente Carlo Sangalli e Bernardo Caprotti allora patron di Esselunga. All’invito  del primo ad iscriversi a Confcommercio, il secondo declinava simpaticamente, ricordando  il tempo e l’impegno dedicato a combattersi a vicenda sulle aperture contrastate ovunque dagli uomini della Confederazione. E come questa “guerra”  lo avesse impegnato e trattenuto dall’idea di tentare la via dell’internazionalizzazione della sua azienda. E di avergli così impedito di mettere in atto quel tentativo sul quale lui però non aveva mai creduto fino in fondo. E di questo ringraziava ironicamente Sangalli.

Nessuno ci ha mai provato veramente. Il tramonto delle partecipazioni statali presenti nella filiera agroalimentare ha portato con sé tutti i sogni che facevano pensare a convergenze nell’interesse del Made in Italy proiettato nel mondo all’interno di una strategia organica. Ci aveva provato anche Banca Intesa a mettere insieme una cordata composta da industrie alimentari e realtà della GDO negli anni in cui queste iniziative sembravano essere ancora di moda. Ovviamente senza successo. Oggi, progetti di quella portata sarebbero assolutamente improponibili.

Eppure, come sottolinea il rapporto Teha, vantiamo 62,2 miliardi di esportazioni alimentari, siamo il primo Paese in Europa per prodotti certificati per un fatturato di 20,2 miliardi, prima destinazione enogastronomica al mondo. Secondo Denis Pantini, Responsabile Agrifood e Wine Monitor Nomisma, il nostro Paese è al 9° posto nella classifica dei maggiori esportatori agroalimentari. Per il 2024 si fa sempre più concreta la prospettiva di raggiungere 70 miliardi di euro.  Un risultato a cui hanno contribuito sia l’industria alimentare, con un incremento dei flussi in valore del 7,7%, sia la componente agricola (+3,4%). Sempre su dati Thea.

Le esportazioni italiane sono aumentate in maniera generalizzata verso la maggior parte delle destinazioni. Spicca la crescita a doppia cifra negli Stati Uniti (+17%), dove l’aumento è stato trainato dai prodotti di punta del made in Italy come vini, spumanti, olio EVO e pasta e in Giappone, dove l’incremento in valore dell’export è stato di quasi il 50%, dopo la battuta d’arresto osservata nel 2023. Ottime anche le performance in Romania (+11%) e Australia (+18%). Guardando alla top 10 dei principali mercati, Germania, Francia e Stati Uniti si confermano ai primi tre posti, seguiti da Regno Unito, Spagna, Paesi Bassi, Svizzera, Belgio, Polonia e Austria. (dati ISMEA)

La stessa ristorazione italiana è la più presente a livello mondiale. Seicentomila ristoranti definiti “italiani” anche se FIPE ne ha certificati e recensiti solo 2218 in 60 Paesi e 451 città. Di questi circa il 33% è concentrato nei Paesi Ue, il 23,3% tra Asia e Oceania, quasi il 30% in America del Nord, il 13% in America Latina e il restante 10% tra Africa, Medio Oriente ed Europa non Ue. Una potenza di fuoco che non si è mai materializzata in un grande progetto di filiera e di Paese.

Nella Grande Distribuzione ci sono solo due realtà nazionali che stanno espandendosi fuori dai nostri confini. Conad  Adriatico in Albania, Eurospin in Slovenia , Croazia e Malta. entrambe insegne molto performanti.  Eurospin  è leader italiana incontrastata nel  discount. La seconda, Conad Adriatico, pur essendo a forte caratterizzazione regionale, è tra le più dinamiche e meglio gestite del mondo Conad.  Altre multinazionali presenti da noi   (LIDL, Carrefour e Rewe) esportano prodotti italiani. LIDL per oltre 2 miliardi di euro. Carrefour, oltre un miliardo.  Eurogroup Italia, acquista e vende ortofrutta per il Gruppo Rewe in modo diretto o indiretto, attraverso Rewe, Billa e Penny in 14 Paesi europei.

Eataly, l’altro player che porta il Made in Italy alimentare nel mondo,  nel 2023, ha realizzato ricavi consolidati per 696 milioni.  Principalmente in USA (circa il 60% dei ricavi consolidati). L’Europa arriva a circa il 38,5%. Nel Nord America l’obiettivo è aprire una ventina di nuovi punti vendita nei prossimi cinque anni. Per ora è partito Il secondo Eataly di Toronto in Canada e il terzo Eataly di New York. Seguirà Philadelphia, all’interno del mall King of Prussia, uno dei più iconici della Pennsylvania, e due punti vendita a Miami. In Europa toccherà a Dresda, in Germania  e presto apriranno a Bruxelles. È di pochi giorni fa la notizia che ha assunto la gestione diretta del punto vendita Eataly Paris Marais a seguito di un accordo con Galeries Lafayette Group.  6.000 clienti al giorno, 2.500 metri quadri di superficie sviluppati su tre piani con mercato, enoteca, 7 punti ristoro e due aule didattiche.

 

Lidl italia da sola, se considerassimo solo le sue esportazioni di prodotti italiani, si collocherebbe poco dopo il decimo posto come fatturato nel nostro Paese. E questo la dice lunga sulla situazione. Giuseppe Caprotti in un suo recente intervento agli Stati Generali dell’Export ha concluso sottolineando: “A mio parere in Italia c’è già tutto per provarci, a parte il “coraggio”. Attenti, però : il tempo per provarci non è infinito”. Personalmente credo che quel tempo sia abbondantemente scaduto. Resta Eataly oggi  inserita in un percorso di cambiamento interessante. L’unica realtà italiana che si è posta l’obiettivo di valorizzare l’eccellenza enogastronomica italiana nel mondo.

Tra l’altro qualsiasi insegna della GDO nazionale potrebbe, già oggi, fare accordi per entrare con successo in alcuni specifiche nicchie di mercati esteri. Ricordo con piacere l’effetto che fece a Colonia la quarta città tedesca, l’apertura di “Standa la casa degli italiani”,  da parte di Rewe). Una città  che ospita quasi  ventimila connazionali. Certo occorrerebbe uscire dagli abituali schemi mentali che prevedono esclusivamente un crescente presidio territoriale e il calcolo del fatturato per metro quadro come indici di successo in GDO. E avere la capacità di stabilire partnership con fornitori di servizi logistici e reti di distribuzione consolidate.  Per arrivarci  (forse) dovremo attendere  un salto generazionale.  La mia generazione è, purtroppo sintonizzata con teorie e iniziative sempre  uguali a sé stesse, nate nel novecento e che garantiscono una navigazione a vista, tutto sommato, serena.

Giusepppe Caprotti, ha giustamente fatto riferimento a marchi e format come il Viaggiator Goloso, Esselunga o il Gastronauta. Esselunga, condivido,  sulla carta, potrebbe essere  la più strutturata. Ma non mi sembra di percepire questa volontà. Logistica e management sono, ad oggi, tra i punti deboli di quella realtà ma costituiscono snodi vitali in un eventuale progetto di internazionalizzazione.

Sul “Gastronauta” il problema, per un imprenditore di successo come Giovanni Arena, non credo sia il lancio o la gestione  di un progetto simile a spaventarlo, quanto la constatazione evidente  di non poter contare sulla  compagine imprenditoriale alle spalle. Oggi è di fatto, solo. E da soli non si va da nessuna parte.  Il Viaggiator Goloso, da parte sua,  è impegnato in una complessa ripartenza. Dipenderà dall’evoluzione dei  progetti che, tra altro, coinvolgono, seppure in piccola parte,  anche Cortilia.

L’online in generale  è una possibile componente  per progetti di internazionalizzazione. Nessuna azienda italiana ha capito il potenziale che, ad esempio, Cortilia potrebbe esprimere se inserita in un contesto più ampio.  Ed è questo il limite vero del comparto: non capire che è cambiato lo scenario della crescita possibile. “Chi vuole sul serio qualcosa, cerca una strada. Agli altri, basta una scusa” verrebbe da dire.

Credo che pochi, oltre ad Amazon, abbiano compreso  l’importanza che potrebbero avere partnership locali in un contesto di internazionalizzazione. Amazon sa che può veicolare prodotti e produttori (e gestire diversamente l’online e l’ultimo miglio) spostando parte del rischio  di impresa, mantenendo un vantaggio per la dimensione del suo mercato senza vincolarsi  ad un modello di retail fisico tradizionale dove la concorrenza sarebbe ben diversa. Amazon non guarda Walmart né altri. Guarda sé stessa. Semmai teme i cinesi. Per questo l’ipotesi Cortilia ha, a mio parere, senso e prospettiva proprio perché inseribile in un disegno più vasto. Vedremo presto quando  l’opportunità verrà colta. Per il resto, purtroppo,  non c’è nulla di esclatante  da segnalare, sul tema,  per le imprese italiane.

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