In tutte le survey in cui si interrogano, ad esempio gli associati di Confcommercio, l’esistenza e la gestione del CCNL viene vista come un plus. Poter disporre di un contratto nazionale di riferimento è vissuto, dai più, positivamente. La stessa Federdistribuzione da quando ha lasciato Confcommercio non si è mai posta il problema di passare ad una contrattazione aziendale ma, al contrario, si è da subito mobilitata per proporre un proprio contratto nazionale di riferimento. Oscar Giannino, a suo tempo, ha proposto di superare i contratti nazionali dotando le aziende di ogni dimensione di un kit specifico che consenta di affrontare in azienda il tema (sic!). Altri propongono di affidare un nuovo mestiere ai consulenti del lavoro. Altri ancora di lasciare al “buon cuore” dell’imprenditore la remunerazione dei propri collaboratori. Neofiti della materia, osservatori distanti dalle imprese, propugnatori di scorciatoie si sono sbizzarriti in soluzioni di ogni tipo. Non le imprese. Meno ancora gli imprenditori che non vogliono problemi là dove non ci sono. Cosa succederebbe se non ci fossero i CCNL? Innanzitutto si creerebbe molto più lavoro per gli avvocati e per i consulenti. Ovviamente anche per i tribunali. Nella maggioranza dei casi assisteremmo all’effetto “badante”. Persona di fiducia fino a quando serve e quindi disponibile a rispondere a tutte le esigenze del datore di lavoro ma proponente causa certa quando per un motivo o per un altro il rapporto di lavoro si dovesse mai interrompere. Visto dalle piccole imprese l’ombrello del CCNL copre tutto. Se lo si applica si evitano forme di dumping tra aziende, si tengono lontano ispettori del lavoro e sindacalisti, si impediscono richieste pretestuose. Nelle medio grandi consente flessibilità collettive, determina un confine netto e accettato tra diritti e doveri. Soprattutto evita contenziosi perché dura un numero di anni sufficiente a raffreddare eventuali tensioni. Ultimo ma non ultimo evita che, in presenza di rapporti di forza sfavorevoli, l’azienda debba trovarsi in situazioni nelle quali eventuali concessioni possano pregiudicarne opportunità future. Nelle contrattazioni aziendali questo è successo spesso. Mai in quelle nazionali. Per impreparazione o per inadeguatezza di chi affianca l’imprenditore. O per mancanza di lungimiranza. Può essere sostituito? Su molti aspetti si, su altri meno. I neofiti della contrattazione sono convinti, spero in buona fede, che possa essere sostituito tout court. Non è così. Inviterei chi pensa questo a lasciare le discussioni da salotto e recarsi alle quattro del mattino davanti ad un qualsiasi magazzino logistico dove i Cobas o qualche centro sociale si apprestano a mettere in pratica il loro modello di contrattazione aziendale. Capiranno da soli cosa significa. O per par condicio dove la debolezza del sindacato lascia i lavoratori in balia per anni di imprenditori senza scrupoli che non vogliono sentir parlare di concedere alcunché a nessuno. L’unica strada praticabile è un modello misto dove siano chiare le materie di pertinenza del livello nazionale e, altrettanto chiare, le materie di pertinenza aziendale o territoriale. E dove nessuno possa fare il furbo da una parte e dall’altra. Concludo ricordando a chi non ha mai sottoscritto personalmente un contratto (aziendale o nazionale che sia) di astenersi da semplificazioni fuorvianti. I meccanismi di coinvolgimento, negoziazione, sottoscrizione e gestione di un contratto non sono cose che si improvvisano. In Italia solo le organizzazioni che rappresentano lavoratori e imprese possono metterci mano. Oppure la legge. E le proposte di modifica, tutte quante, devono essere soppesate e valutate nelle loro conseguenze concrete. Fortunatamente tra chi ne parla a proposito, ma anche a sproposito, e chi dovrà deciderne l’architettura futura c’è una notevole distanza. E questo è un bene per tutti.