Che la contrattazione aziendale e/o territoriale sia riservata a pochi lo si può ricavare anche nel 4° rapporto Ocsel (Osservatorio Contrattazione di Secondo Livello) curato dalla Cisl che raccoglie ed analizza 2.196 accordi aziendali stipulati negli anni 2016 e 2017 (di cui 1.238 per il primo anno e 958 nel secondo) in 1.078 aziende che occupano 928.260 lavoratori.
Su circa quindici milioni di lavoratori del settore privato solo un quindicesimo è coinvolto dalla contrattazione di secondo livello. E sarebbe interessante analizzare quanto è dovuto ad iniziativa delle imprese e quanto del sindacato per poter parlare a ragione veduta di peso della contrattazione.
Un dato sembra emergere chiaro: l’interesse delle imprese al 2° livello di contrattazione continua ad essere scarso. A partire dagli anni 90 è avvenuto un processo lento di “disintermediazione” profonda all’interno delle imprese italiane. il tramonto del fordismo, le diverse tipologie di flessibilità in entrata, le crisi aziendali hanno ridotto la qualità e il perimetro del confronto con il sindacato già inesistente nelle piccole imprese.
Nelle medio grandi la gestione delle risorse umane è diventato un elemento sempre più delicato e quindi affidato a professionisti esperti che hanno allineato le politiche e gli strumenti alla cultura e ai valori di ogni singola impresa. Nuovo welfare aziendale, merito, sviluppo delle carriere, premi e incentivi, modelli organizzativi, diritti e doveri si sono modellati sulla singola realtà escludendo o assegnando al sindacato un ruolo marginale di condivisione su politiche già decise altrove. Spesso centralizzate a livello internazionale.
Non avendo occasioni di confronto e dialogo costruttivo, se non in presenza di problemi occupazionali o di obblighi previsti dalla legge, le parti si sono rinchiuse in pregiudizi o caricature del ruolo dei potenziali interlocutori sempre più difficili da superare. Soprattutto a livello aziendale.
Tutto questo ha determinato una mutazione genetica, una ridefinizione della job description anche dello stesso rappresentante sindacale interno, quando presente. Meno conflittuale, più collaborativo e più in linea con le stesse politiche aziendali anche perché il clima nelle aziende è cambiato in profondità e le indagini sul campo generalmente lo testimoniano. Questo spinge ad evitare di coinvolgere chi, dall’esterno, tende spesso ad enfatizzare o strumentalizzare posizioni minoritarie per tentare di rientrare in partita.
Non va poi sottovalutato che, sul versante sindacale esterno all’impresa, l’interlocuzione è spesso scadente o in competizione permanente tra sigle confederali diverse o tra queste ultime e i sindacati di base laddove esistono. E questo rende ancora più complesso ricostruire un tessuto di reciproca credibilità e disponibilità negoziale.
Gli accordi interconfederali siglati con le principali Associazioni di categoria, la firma degli ultimi contratti nazionali e recentemente quello dei chimici in anticipo sulla scadenza, la stessa idea del “Patto di Fabbrica” e la concezione del lavoro proposta sia dal documento “Impegno” di Federmeccanica che quello sul “Futuro del lavoro” di Assolombarda disegnano, però, la volontà di una parte importante della rappresentanza datoriale di rimettere al centro, anche del confronto, l’importanza delle persone e della rappresentanza nell’impresa che cambia.
Interessante, a questo proposito l’articolo di Dario Di Vico sul corriere (http://bit.ly/2NAeHa3) che traccia un’ipotesi su cui riflettere di autonomia del sociale in rapporto alle intromissioni della politica nelle materie del lavoro.
E’ chiaro che questo filone di pensiero non può trasformarsi in un obbligo negoziale nei confronti delle organizzazioni sindacali però dovrebbe far riflettere le imprese sulle opportunità di coinvolgimento che un confronto serio potrebbe offrire pur sapendo che, per le piccole, l’ombrello del CCNL resta un punto di riferimento importante per la programmazione dei costi e della flessibilità necessaria.
La stessa idea di contrattazione territoriale, proposta da parte del sindacato non decollerà facilmente se non se ne comprende fino in fondo l’utilità per le imprese, il contenuto e il suo peso specifico in rapporto ad altri livelli di confronto.
Il punto dirimente a mio parere è però legato alla strategia che si vuole adottare quindi a un’idea di futuro dove la collaborazione e la convergenza possono diventare un fattore importante di competitività per le aziende italiane.
E questo nuovo modello di collaborazione non può che trovare, nella contrattazione di secondo livello uno snodo cruciale. Maurizio Sacconi insiste su questo punto e sulla capacità innovativa che ne deriva in alternativa alle logiche conservative dei contratti nazionali.
Il punto, semmai è capire bene se i due livelli possono coesistere o, una scelta netta in direzione del decentramento contrattuale ne presuppone l’alternatività. I rischi sono tanti e forse il limitato perimetro di azione della contrattazione di secondo livello è la fotografia dell’impasse di un sistema che non riesce a prendere atto della sua crisi e delle sfide che lo attendono.
Secondo Marco Bentivogli:” Nell’idea di mondo e di società chiusa, il sindacato semplicemente non è contemplato. Non serve, la schiuma della folla sostituisce ogni necessità di solidarietà collettiva e protagonismo civile”. E’ il rischio che stiamo correndo.
E non lo corrono, a mio parere, solo i rappresentanti dei lavoratori. E, proprio per questo credo che una visione moderna e positiva del lavoro e dell’impresa, soprattutto della sua evoluzione, debba contemplare un ruolo positivo e propositivo del sindacato nei luoghi di lavoro e non una sua emarginazione consentita dal ribaltamento dei rapporti di forza.
Certo anche le organizzazioni di rappresentanza del lavoro e dell’impresa devono fare la loro parte sia in termini di crescita professionale dei propri rappresentanti che di capacità di interlocuzione sui problemi reali delle imprese e dei lavoratori. Ma questa credo possa essere la direzione di marcia.