Ai fautori della decrescita felice, prima o poi, qualcuno ci si doveva mettere contro. Ci ha pensato il leader degli industriali Vincenzo Boccia a pronunciare parole che sembravano ormai cadute nel dimenticatoio del 900: “se le cose non cambieranno saremo costretti ad andare in piazza”. C’è un’aria strana intorno a noi mentre i vincitori delle elezioni del 4 marzo, Lega e 5S, esplicitano le loro proposte per il futuro del Paese.
La Lega persegue un disegno di cambiamento percorrendo progetti e sentieri di destra. Forte nei piccoli e medi imprenditori, punto di riferimento per buona parte del nord produttivo ma diffidente nei confronti dello Stato, dell’Europa e preoccupato dalla competizione internazionale, in questa fase Salvini ha scelto come prioritari i temi delle migrazioni e della sicurezza.
Temi non scelti a caso ma necessari a costruirsi quella autorevolezza e quella forza che il 4 marzo le urne non gli hanno concesso. L’obiettivo vero, però, sembrerebbe essere l’Europa (almeno questa Europa) e probabilmente anche l’Euro in questo aiutati anche da nuovi equilibri internazionali e dall’emergere di una spinta sovranista e antieuropea in molti Paesi del continente.
I 5S, dall’altra parte, pur scontando una imperizia e una faciloneria nei comportamenti e nelle dichiarazioni più da assemblea di condominio che da Governo del Paese, cavalcano una cultura ribellista contro l’establishment a tutto tondo, e, proponendosi come rappresentanti esclusivi del popolo, non riescono ad accettare l’idea che altri, a cominciare dai corpi intermedi, manifestino una rappresentatività in parte concorrenziale attraverso le loro burocrazie.
Nella democrazia dove uno vale uno non sono previsti altri soggetti ritenuti, più o meno, reperti archeologici del novecento.
I 5S non sono di destra. Semplicemente non sono. Sono sostanzialmente un patchwork composto da un agglomerato di costituency e di sentimenti a volte in contraddizione tra di loro che trovano una sintesi molto semplicistica nella condanna a tutto ciò che è stato.
Agli interessi che hanno governato fino al loro arrivo, alle forze economiche e sociali che ne hanno presidiato il perimetro e a quella parte della popolazione che ne ha tratto benefici. Da qui la vicinanza culturale con una certa forma di estremismo di sinistra, la cultura anti industriale, la semplificazione della complessità tipica dei movimenti nello stato nascente, il rifiuto della competenza quando esprime continuità con ciò che è stato e la volontà di dare inizio ad una nuova era.
Ma, a mio parere, in una parte consistente dell’elettorato di entrambi i vincitori del 4 marzo c’è anche una sana richiesta di cambiamento che, lasciata senza risposta porta solo acqua alle leadership che oggi lo interpretano.
Un’esigenza di cambiamento profondo c’è.
Per le imprese, non solo del nord, che vogliono uno Stato più leggero e con meno pretese, un fisco più equo, infrastrutture efficaci e strumenti per affrontare la competizione internazionale. A loro occorrerebbe dare risposte credibili che fino ad oggi non ci sono state.
Come occorrerebbe dare risposte credibili ai giovani a cui andrebbe proposto un percorso scolastico di qualità, una entrata nel mondo del lavoro semplice e all’altezza delle loro aspettative e una serie di strumenti che contrastino la precarietà del singolo senza mettere in discussione la necessaria flessibilità organizzativa delle imprese.
Per realizzare concretamente questo programma al di là dei grandi disegni politici occorre mettere in campo tutto ciò che fa crescere il PIL. Non ciò che lo deprime. Per questo condivido quanto oggi Dario Di Vico rilancia sul Corriere (http://bit.ly/2P7kx4r) a proposito di una possibile quanto decisa presa di posizione unitaria del mondo delle imprese. Va dato un segnale forte alla Politica.
Non c’è nessuna volontà di delegittimare un risultato elettorale. C’è una precisa esigenza di indicare una via da imboccare con decisione. In autunno diverse prove aspettano il Paese. Nessuna persona dotata di buon senso gode a vedere lo spread salire, la sfiducia degli investitori crescere, i risparmi degli italiani erosi dai contraddittori segnali che vengono lanciati con eccessiva superficialità ogni giorno.
Così come pensare che sia corretto pensare di poter accettare pseudo forme di giustizia riequilibrativa agendo solo sulle pensioni di chi, come i manager, pagano le tasse fino all’ultimo centesimo come peraltro tutti i lavoratori dipendenti, promettendo però condoni fiscali e lanciando, così, evidenti segnali di scarsa volontà di perseguire evasori totali e parziali.
Il decreto dignità, da questo punto di vista è stato paradigmatico. Colpire la seconda forma più tutelata del lavoro dipendente, il tempo determinato, disinteressandosi delle forme di entrata nel mondo del lavoro, delle politiche attive, del lavoro nero, sottopagato o addirittura che continua a produrre nuove forme di schiavitù.
Così come intervenire con grande superficialità contro le delocalizzazioni lanciando segnali truci al mondo delle imprese multinazionali che si troveranno costrette a pensarci più e più volte prima di investire nel nostro Paese.
Ed è proprio questa idea che alle parti sociali e alla loro capacità di pesare i reciproci interessi debbano essere sostituite da una sorta di novello Robin Hood con una ciurma di estremisti di vecchio conio o di appartenenti a sindacati che non hanno mai avuto alcun seguito tra i lavoratori che le imprese guardano all’agire del Governo con grande preoccupazione.
Altro che reazione delle lobby!
Per questo, far sentire la propria voce prima che sia troppo tardi più che un diritto rappresenta un dovere per chi vive come proprie le preoccupazioni degli imprenditori, dei manager e dei risparmiatori.
Prima che sia troppo tardi.