Quando succede un fatto grave in un’azienda che ha un brand importante e riconosciuto dai consumatori, dipendenti e fornitori il rischio di strumentalizzazioni è molto alto anche perché un licenziamento disciplinare in IKEA non è un fatto consueto.
Addirittura così come a suo tempo era stato presentato sembrava un autogol incredibile da parte aziendale. Rete e media avevano amplificato il carattere vessatorio e crudele del provvedimento che andava a colpire una lavoratrice in una condizione familiare e personale grave. Almeno così sembrava per come i fatti erano stati rappresentati dal sindacato milanese di categoria subito ripresi e rilanciati come verità assoluta.
In altri settori merceologici la risposta dei colleghi a decisioni aziendali di questo tipo era stata netta, immediata, durissima mentre in IKEA lo sciopero era sostanzialmente fallito (87 persone su 1.407 nell’area milanese secondo i dati comunicati dall’azienda). E questo, forse, avrebbe dovuto rappresentare già un primo elemento di riflessione.
A quel punto il sindacato a cui la lavoratrice era iscritta, ha scelto un’altra strada: impugnare il licenziamento e ricorrere davanti ad un giudice. Eravamo in novembre. In queste settimane, quattro mesi dopo i fatti, il giudice Silvia Ravazzoni che ha esaminato atti, riscontri e testimonianze ha dato ragione a IKEA non constatando alcuna discriminazione nei confronti della lavoratrice. Semmai ha ravvisato nel comportamento della stessa un atteggiamento ripetuto e scorretto all’interno del rapporto di lavoro.
La FILCAMS CGIL sembrerebbe intenzionata a presentare ricorso e vedremo come proseguirà questa vicenda se dovesse seguire schemi tradizionali.
La prima cosa che risulta evidente è però che nella sentenza non si ravvisa nulla di ideologico. Solo una cruda rappresentazione di fatti e addebiti specifici. Lo stesso sindacato ha preso atto della sentenza limitandosi a giudicarla “ingiusta e non condivisibile” e riservandosi di riprendere in successive sedi ciò che, a loro parere, non sarebbe stato tenuto in sufficiente considerazione.
Il punto centrale che il giudice sembra aver però ben analizzato è fino a che punto una persona (pur esasperata per ragioni extralavorative) può entrare in aperta collisione con le esigenze organizzative di un’azienda senza subire alcuna conseguenza sul piano disciplinare.
Soprattutto perché, come emerge dalla sentenza, i comportamenti contestati non sarebbero così facilmente ascrivibili alle esigenze personali di cura. Quindi, se non ci sono stati gravi errori difensivi nella gestione della causa da parte del sindacato stesso mi vien da pensare che o la lavoratrice si è comportata in un determinato modo ritenendolo un suo diritto o è stata consigliata molto male.
Presentarsi al lavoro in orari diversi da quelli previsti senza giustificazioni, interrompere di propria iniziativa la prestazione in corso abbandonando clienti e colleghi, pretendere permessi senza riuscire a dimostrare legami con la propria situazione familiare è difficile pensare possano essere solo frutto di affrettate decisioni personali.
Ma se così fosse qualcuno oggi porterebbe su di sé una grave responsabilità. Ancora più grave dei comportamenti stessi della lavoratrice che sotto un certo aspetto apparirebbero indotti anche da una forma di esasperazione personale dovuta alla difficile gestione della sua situazione.
Personalmente sono convinto che se la verità fosse apparsa per quella proposta fin da subito dalla FILCAMS CGIL territoriale con tutto il suo carico di cattiveria ed ingiustizia nei confronti di una lavoratrice vessata dall’azienda e dopo aver veicolato e cercato di consolidare nell’opinione pubblica un’immagine di IKEA assolutamente negativa e se questa verità fosse stata confermata nel giudizio in tribunale, qualche testa, in azienda, sarebbe persino potuta cadere.
Difficile però ipotizzare analoghe conseguenze sul fronte sindacale. Gli eventuali errori commessi in genere non vengono quasi mai riconosciuti oppure vengono addebitati sempre alle circostanze. Così facendo, però, si costruiscono solo relazioni conflittuali infinite tra sindacati e aziende.
Personalmente non credo che l’obiettivo di IKEA sia questo. E così dovrebbe essere anche quello del sindacato. Purtroppo, ad oggi, tutta la vicenda, per come è stata proposta e gestita, ha preso una piega difficilissima da affrontare con sufficiente realismo negoziale.
La soluzione, questo è chiaro, non può essere il rientro in azienda della lavoratrice, cosa irrealizzabile oggi, ma non dovrebbe neppure essere quella di lasciare la stessa, disoccupata, sola con i suoi problemi costretta a recitare un ruolo in commedia per mesi in attesa che qualcosa si possa rovesciare con tutte le conseguenze del caso.
Da questo punto di vista la chiarezza della sentenza, a mio parere, potrebbe addirittura aiutare. Forse è proprio questo il momento di cercare altre strade.