È interessante la domanda che il professor Michele Tiraboschi ha posto a margine del dibattito scatenato dalla proposta delle associazioni dei medici di lasciare ai singoli lavoratori l’obbligo di autocertificazione dei primi tre giorni di malattia nella PA.
La stragrande maggioranza dei partecipanti alla survey si è dichiarata contraria. I medici, dal canto loro, preferiscono chiamarsi fuori anziché spingere il lavoratore a riflettere sull’effettiva necessità del ricorso alla malattia soprattutto in presenza di una frequenza di richeste quantomeno sospette.
La malattia breve è stata da sempre grande fonte di abusi nelle aziende pubbliche e private. In alcune realtà fuori controllo venivano chiamate ironicamente, dagli stessi lavoratori, “ferie INPS” per sottolinearne la facilità di utilizzo. E sono stati motivo di grandi contenziosi con i medici e con gli uffici preposti ai controlli.
Nel terziario certi comportamenti tipici dei primi tre giorni di malattia hanno determinato la necessità di concordare un sanzionamento preciso nel contratto nazionale.
Il tema della fiducia in azienda va quindi visto oltre l’utilizzo improprio di un diritto contrattuale o delle reazioni di diverso segno che provoca tra imprese e sindacati. Se non altro perché non si approderebbe a nulla. La domanda di Tiraboschi però va oltre i tre giorni di malattia.
Se il rapporto tra la gerarchia aziendale e il lavoratore resta quella del 900 fordista, con tutti i suoi controlli e le sue sanzioni, come è possibile parlare di smart working, lavoro ad obiettivi condivisi e prestazioni, anche a distanza, con risultati concreti e misurabili?
In questo senso è giusto chiedersi se può esistere la fiducia nella cultura aziendale. Se per fiducia intendiamo un generico affidamento che ha a che fare con l’esecuzione di un compito assegnato, di un progetto o di un obiettivo credo di sì. In genere è un affidamento sempre accompagnato da tempistiche, verifiche e controlli vari che consentono a chi deve gestire il rapporto di lavoro di avere sempre un riscontro sullo stato di avanzamento dell’impegno assegnato.
Un luogo di lavoro non determinato a priori può modificare la sostanza dell’affidamento? Credo di no. Non esistendo più, un indirizzo civico definibile del lavoro questo determinerà inevitabili conseguenze in termini di orario (sostanzialmente auto-determinato), controlli (che diventano tecnologici e di risultato) e strumenti. L’affidamento non cambia sostanzialmente.
Anche perché il luogo di lavoro, fabbrica o ufficio, smetteranno di essere luoghi isolati ma diventeranno nodi del IoT. L’Internet di ogni cosa, in cui ognuno è un sensore che fornisce dati alla rete che collegherà persone, imprese, reti, enti pubblici, scuole. Temo che, al contrario di quello che si è portati a pensare, la tecnologia consentirà maggiori controlli sul lavoro, sulla produttività anche individuale, sia in presenza del collaboratore in un reparto o in un ufficio tradizionale che a migliaia di chilometri di distanza. Quindi il problema diventerà qual’è il livello legittimo di controllo potendo, potenzialmente, essere molto più opprimente e invasivo di oggi. E fatto magari da macchine e non necessariamente da persone.
Forse, per questo, è un errore confondere questo generico affidamento tipico di ogni organizzazione con un idea di fiducia vera e propria che resta altra cosa. Questa si, di difficile introduzione nella cultura aziendale. Al di là della legittima divergenza di interessi tra lavoratore e impresa altri problemi rendono difficile un rapporto totalmente trasparente.
Ad esempio un buyer della Grande Distribuzione può realizzare gli obiettivi assegnati in qualsiasi luogo con grande professionalità ma, per l’azienda, controllarne l’operato e la correttezza negoziale a 360 gradi resta fondamentale. E questo vale per molte attività dove il risultato è solo una variabile tra le tante.
Il limite nel dibattito di oggi è che rischiamo di concentrarci troppo sugli aspetti connessi alla maggiore libertà e fattibilità di esecuzione rispetto a ciò che sono le conoscenze attuali piuttosto che concentrarci sulle potenzialità trasformatrici della tecnologia in termini di qualità e sofisticazione, anche dei controlli stessi.
Personalmente credo che lo smart working renderà il lavoratore più produttivo e anche più responsabile. E anche l’azienda dovrà “rassegnarsi” ad una maggiore sensibilità. Questo contribuirà a creare un rapporto di lavoro più adulto, meno dipendente dalle paturnie dei capi ma, non per questo, meno controllato.
Lavoro agile e lavoro 4.0 in molte attività determineranno condivisione sugli obiettivi e maggiore autonomia consentendo forti aumenti di produttività individuale e collettiva non necessariamente collegata ad un miglioramento della qualità del lavoro. Sicuramente ad una maggiore complessità subordinata a continui aggiornamenti.
Stefano Venturi CEO di HP ci ricorda che “La prossima rivoluzione digitale avrà forme e dimensioni che fatichiamo ancora a concepire, ma di certo permeerà i nostri business e trasformerà il modo in cui lavoriamo e viviamo”.
Ha sicuramente ragione. Credo che su questo occorra concentrarsi per riuscire ad anticipare i fenomeni e a guidarli anche nell’interesse del mondo del lavoro e dell’impresa.