Quale spazio per i futuri rinnovi dei contratti nazionali?

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I prossimi rinnovi contrattuali non saranno affatto scontati nella forma e nei contenuti. Da una parte la situazione economica generale che peserà sul lavoro e sulle imprese, dall’altra il dibattito sul salario minimo e sulla sua potenziale sovrapposizione sui contratti nazionali in un Paese dominato da piccole e piccolissime imprese. Non ultimo peserà il giudizio che sindacati e associazioni imprenditoriali daranno degli impegni, onorati o meno, dei contratti in scadenza.

Personalmente credo che ci si troverà davanti ad un bivio. Scommettere o meno sulle relazioni industriali, sul loro potenziale per affrontare il cambiamento, sul livello di coinvolgimento  e sulla possibilità di entrambe le parti di alzare la posta sui contenuti oppure rassegnarsi a riportare inevitabilmente indietro il sistema  rimodellandolo su modelli tradizionali destinati comunque al declino.

Il sindacato confederale oggi è in una fase difficile. La mobilitazione culminata con la grande manifestazione non può nascondere le evidenti difficoltà nel rapporto con i lavoratori. Soprattutto con le nuove generazioni. Quindi è proprio nelle imprese e nel rapporto con le stesse che la crisi è più profonda. Difficoltà prodotte sostanzialmente dalla incapacità di leggere ed interpretare  il cambiamento in atto.

Ovviamente non è così per tutto il sindacato. In questi giorni la FIM di Marco Bentivogli si sta interrogando sul ruolo che il loro prossimo CCNL può determinare in questo contesto. Nell’ultimo rinnovo le parti avevano scommesso insieme sulla centralità delle persone in un quadro di relazioni sindacali avanzate.

Le intuizioni sul diritto soggettivo alla formazione, su un nuovo modello di inquadramento  e sulla contrattazione di prossimità,  nascono da lì. Se sono rimaste tali o se non hanno fatto grandi passi in avanti lo giudicheranno i diretti protagonisti in premessa al nuovo tavolo di confronto anche perché se quel percorso dovesse rallentare o addirittura fermarsi, resterebbe ben poco.

Ma se dal versante sindacale i segnali sono ancora complessivamente deboli e contraddittori, non si scorgono segnali forti nemmeno dal fronte delle associazioni datoriali. Anzi. Il “Patto della fabbrica” è sostanzialmente fermo al palo, la contrattazione aziendale non ha fatto passi avanti significativi e l’ipotesi di intervenire sul cuneo fiscale a vantaggio dei lavoratori dipendenti è frustrata dalla volontà del Governo di  privilegiare altri ambiti. In più, i rischi sulla tenuta dei conti non invitano a scommettere su ipotesi di stabilità di medio/lungo periodo.

Il modello sociale che vagheggiano i due partiti di maggioranza è chiaro. “Annettersi” le piccole imprese e il lavoro autonomo, commercianti compresi, da parte della Lega lasciando ai 5S il compito di interloquire con quella parte del mondo del lavoro più sensibile alle loro tesi con l’obiettivo neanche troppo nascosto di confinare in una sorta di riserva indiana quella parte dei corpi intermedi che non accettano un ruolo ancillare.

Non è un caso che Salvini quando attacca Confindustria cerca di limitarne il raggio di rappresentanza alle grandi imprese quando è noto a tutti che non è così.

Confcommercio ha le sue difficoltà. In questi giorni, sta portando, pur in mezzo a mille contraddizioni, alla conclusione il suo quadriennio contrattuale. Anni dove è successo di tutto. L’elemento certo, emerso in tutta evidenza, è il dumping salariale che ha coinvolto negativamente  le imprese con un inseguimento al ribasso dei salari  nella grande distribuzione sia privata che cooperativa. Senza scordare i contratti pirata. E questo non è certamente un buon viatico in vista dei prossimi rinnovi.

Aggiungo  che il CCNL del terziario rischia di essere tra i più  esposti all’erosione di un’eventuale legge sul salario minimo. E infine, così come Federdistribuzione ha ritenuto di poter rivendicare un proprio contratto nazionale vantando una rappresentatività reale del comparto della GDO lo stesso può valere per tutti quei settori dove il vecchio confine tra industria e terziario rischia di non avere più senso.

Se prendiamo, ad esempio, il CCNL dei dirigenti del terziario la maggioranza delle imprese che lo applicano non sono iscritte a Confcommercio. Molte, tra l’altro, sono iscritte a Confindustria. Probabilmente scelgono il contratto del terziario per l’insieme di ciò che offre. Un welfare di prim’ordine, una formazione di qualità e una serie di normative innovative. Confcommercio, da parte sua,  lo ha sempre gestito più per convenienza che per convinzione. E questo rischia di impedirne una ulteriore evoluzione.

Inutile nascondere che i contratti nazionali, così come sono oggi, portano con sé una serie di contraddizioni evidenti. Ci sono problemi di rappresentanza e rappresentatività dei firmatari, di confini da ridefinire, di contenuti da rivedere e di funzione da assegnare in rapporto ai diversi livelli della contrattazione.

Un lavoro urgente, pesante ma, a mio parere, propedeutico alla tornata dei rinnovi e che dovrebbe essere portato avanti in prima battuta  dalle confederazioni e dalle associazioni datoriali più rappresentative rispettando, ovviamente, l’autonomia negoziale delle categorie ma inserendole in un quadro forte che impedisca la possibile degenerazione del sistema. I contratti nazionali, oltre al salario minimo di categoria, comprendono diritti, doveri, inquadramenti professionali e welfare. Elementi da aggiornare in funzione del contesto ma che restano fondamentali in un tessuto di piccole imprese come il nostro.

Ridefinire il peso, i contenuti e il ruolo che dovrà avere è giusto ed è un compito delle parti sociali. Pensare di mandarlo in pensione o di farlo declinare sarebbe un errore grave. E non solo per le parti sociali più direttamente coinvolte.

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