Relazioni “industriali” e terziario di mercato….

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Se togliamo le grandi organizzazioni datoriali di rappresentanza del terziario e degli alberghi che hanno fatto una scelta diversa, le relazioni industriali con i sindacati confederali nel settore sono generalmente in affanno.

Diversi contratti nazionali attendono di essere siglati e la contrattazione aziendale è scarsamente praticata. Così come nei trasporti e nella logistica dove i confederali tengono a fatica mentre crescono o si consolidano, soprattutto nel mondo delle cooperative fasulle, COBAS e USB.

Gli iscritti alle organizzazioni sindacali del terziario sono un numero significativo in termini assoluti ( in rapporto agli altri comparti) ma la polverizzazione del settore li rende scarsamente attivi e rilevanti nelle singole imprese.

Nelle aziende il cambio generazionale, avvenuto anche nel management, ha portato nuovi modelli di gestione e di sviluppo delle persone sia individuale che collettivo che prescindono dalla presenza o meno del sindacato.

Se prendiamo un comparto dove il sindacato ha sempre registrato un ruolo negoziale importante negli anni passati, quello della Grande Distribuzione, la situazione si è, di fatto, completamente ribaltata a favore delle imprese.

E, tutto questo, pur non essendo in presenza di un sindacato confederale di categoria particolarmente rivendicativo, anzi. C’è da domandarsi se siamo di fronte ad una tendenza che si consoliderà e si generalizzerà nei prossimi anni o manterrà una sua specificità categoriale.

La vicenda Amazon segna però un punto di svolta. I processi di industrializzazione del terziario e della logistica stanno accompagnando i processi, in direzione opposta, di terziarizzazione dell’industria. È una ibridazione complessa che rivoluziona gli approcci organizzativi rendendoli sempre più sofisticati.

Da qui, si stanno diffondendo in alcune situazioni, modalità sempre più pervasive di controllo e di incremento della produttività individuale e collettiva, sistemi organizzativi che attraverso la tecnologia raggiungono un livello di efficacia elevato da cui discendono modalità di gestione dell’orario di lavoro e delle incentivazioni mai sperimentate prima.

Questi cambiamenti trovano spesso sia i giuslavoristi che i sindacalisti in difficoltà costretti  a promuovere convegni a ripetizione sul futuro del lavoro o a invocare, come unica soluzione, quella di sedersi intorno ad un tavolo per discutere e negoziare ciò che difficilmente può essere negoziato perché mina la base stessa della logica di un determinato business.

Vale, ad esempio, per i bikers di Foodora piuttosto che per i magazzinieri di Amazon. Presto varrà per molte altre categorie. È un cambiamento epocale. Ed è già qui. Non è di là da venire. Albert Einstein con arguzia esclamava:” Non pensò mai al futuro. Arriva troppo presto.” Aveva ragione.

E più le generazioni si susseguiranno più l’apprendistato nell’uso di queste modalità e di queste tecnologie sarà una semplice conseguenza di ciò che i giovanissimi usano per il proprio divertimento, ad esempio con le play station, i telefonini e le app già oggi utilizzate quotidianamente. O la bicicletta.

Una parte significativa dei lavori poveri rischia di essere una continuazione strumentale di ciò che nell’adolescenza era considerato, a torto o a ragione, coinvolgente, gratuito e divertente. E tutto questo in un mercato del lavoro dove qualità e quantità del lavoro non saranno più distribuiti territorialmente e disponibili come in passato.

Per questo la vicenda Amazon genera tanta solidarietà fuori dal perimetro aziendale. È una forma interessante di luddismo 4.0 (a parole) che si abbatte sul rappresentante massimo del cosiddetto “Algoritmo che avanza”. E che non piace.

E non importa che nel settore della logistica, ad esempio, ci siano forme di sfruttamento peggiore difficili da estirpare. Qui c’è la multinazionale, per giunta americana. Quindi il massimo per evocare la presenza di un “Annibale alle porte”.

E, proprio per questo le proteste trovano maggiore solidarietà fuori dal perimetro del lavoro. Perché raggiungono una opinione pubblica che osserva con occhiali tradizionali un mondo che non riconosce più. E che non si rassegna a subire.

Al contrario, la difficoltà del sindacato sta essenzialmente nell’essere costretto ad approcciarsi a questi cambiamenti o con modalità superate o con un linguaggio incomprensibile per chi non è avvezzo alle proteste sindacali del secolo scorso.

Ma come si può ricomporre questa situazione?

Innanzitutto la querelle sul contratto nazionale. A differenza che altrove, in Amazon viene applicato. Ed è quello del terziario. E di questo andrebbe dato atto all’azienda. Così come sul peso degli interinali, certamente da approfondire, dove però bisogna considerare che, troppi o pochi, non incidono minimamente sulla soluzione da ricercare sulla qualità della prestazione  in sé.

Resta aperto il problema del lavoro, delle modalità di esecuzione, della sua organizzazione e del suo riconoscimento. Rispetto a questi temi l’azienda ha di fronte due strade. O chiudere qualsiasi interlocuzione in considerazione dei rapporti di forza a suo favore o proporre un percorso di reciproca conoscenza propedeutico a costruire un rapporto costruttivo con il sindacato.

Nel breve condivido che l’idea che basti sedersi ad un tavolo prima di Natale e confrontarsi per trovare delle soluzioni è di una ingenuità disarmante. Non porta da nessuna parte. Bene ha fatto l’azienda a proporre un incontro a gennaio.

Sul fronte sindacale picchetti e scioperi, di fatto contro i lavoratori che non aderiscono, proposti da diverse categorie e sindacati (Fisascat Cisl, Uliltucs Uil, Filcams CGIL, Ugl Terziario, USB e COBAS) spesso in conflitto tra loro, temo non portino assolutamente a nulla. Cosa già successa negli outlet e nei centri commerciali sulle festività. 

Forse l’omogeneità dei modelli organizzativi a livello internazionale potrebbe favorire una piattaforma comune dei sindacati dei diversi Paesi Europei fortemente innovativa.  Difficile da costruire ma in grado di segnalare una consapevolezza nuova e diversa tra i lavoratori e l’esistenza di un problema vero ben oltre l’effetto mediatico che lascerà il tempo che trova.

Il sociologo Renato Curcio lo ha paventato in molti dei suoi scritti quando ha sostenuto che il lavoro nei centri commerciali e, di conseguenza, nei magazzini logistici dove la merce è stoccata in attesa di essere acquistata dal consumatore rischia di essere il vero detonatore sociale prossimo venturo. 

Ed è su questo  che l’azienda in Italia, ma non solo, dovrebbe riflettere. Soprattutto se il modello sarà replicato in serie e si affermerà in tutta Europa.

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *