Credo che Confartigianato non ne potesse davvero più. Va bene la generosità richiesta quando metti insieme anche associazioni concorrenti ma quando non fai passi avanti per anni tendi inevitabilmente a riflettere sul valore aggiunto che l’essere parte di qualcosa di più ampio ti restituisce mentre accetti vincoli e minore visibilità sul tuo agire come singola confederazione.
Lo stesso poteva valere anche per Confcommercio, l’altra grande organizzazione presente in Rete Imprese Italia, ma il suo Presidente non avrebbe mai proposto di concludere quell’esperienza che rappresentava, nel bene e nel male, una delle sue principali intuizioni politiche.
Rete Imprese Italia era la dimostrazione concreta di aver saputo guardare oltre ai propri confini organizzativi contribuendo a trasformare un momento di protesta in un progetto unitario di ampio respiro.
La rappresentanza delle piccole imprese metteva finalmente a fattor comune la sua evidente fragilità politica semplificando il quadro associativo di riferimento e creando intorno a questo mondo quella narrazione e quei riferimenti culturali e politici indispensabili per restituire una diversa dignità al comparto delle piccole imprese nel suo insieme. E infine mettendo a terra una sua forza economica dotandosi così di un diverso ruolo e peso politico.
Ho avuto la fortuna di essere presente nel 2010 all’Auditorium della musica di Roma quando Rete Imprese Italia ha portato a compimento il percorso iniziato quattro anni prima nel 2006 con il «Patto del Capranica» con il quale Casartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti dissero «no» alle scelte fiscali del governo Prodi.
La nuova associazione si è presentata in quella sede vantando numeri impressionanti. Oltre due milioni di imprese iscritte, 14 milioni di addetti, 800 miliardi di valore aggiunto prodotto. Fino ad allora, di fatto, solo Confindustria aveva la titolarità nella rappresentanza delle imprese nel nostro Paese. Da quel giorno avrebbero dovuto e potuto cambiare molte cose. Fu un battesimo impressionante. Poi solo qualche importante convegno, una grande manifestazione nel 2014 e poco più.
La nuova creatura purtroppo si era portata dentro di sé i difetti di chi l’aveva generata aggiungendone di suoi. E non è certo bastata l’autorevolezza di Giuseppe De Rita a nasconderli sotto il tappeto.
È però singolare che questa crisi esploda proprio adesso quando la fine del lockdown imporrebbe alle associazioni di categoria una unità e una visione in grado di contribuire al ridisegno complessivo del nostro Paese. E quanto il contributo della rappresentanza delle micro e piccole imprese del commercio, del terziario e dell’artigianato sarebbe fondamentale.
Certo quel progetto ha fatto pochi passi in avanti dal 2010. Le ragioni, a mio modesto parere, sono innanzitutto da ricercare all’interno delle rispettive confederazioni. Mentre alcuni tra i massimi vertici probabilmente ci hanno creduto e investito pensando sia al superamento delle logiche novecentesche che alla necessaria semplificazione della rappresentanza sociale ed economica non è stato così per il corpo intermedio delle singole organizzazioni che ha sempre vissuto rete imprese Italia come una fusione a freddo tra diversi, impossibile da realizzare nei singoli territori e quindi da contrastare ad ogni livello.
È stata così percepita dai più come una sovrastruttura burocratica in cui le mediazioni continue hanno prevalso sulla visione strategica, la competitività tra sigle e la fatica delle sintesi sul destino comune, le esigenze e il futuro personale dei singoli dirigenti sull’evoluzione possibile.
A chi ha avuto la responsabilità politica delle rispettive sigle non è rimasto che prenderne atto. Nessuno ha voluto cedere modeste porzioni di sovranità all’interno di un disegno più ampio per paura di pagare un prezzo interno in termini di consenso. E così mentre i confini settoriali costruiti nel novecento vengono meno dappertutto, una intuizione che in qualche modo era riuscita ad andare oltre ha perso forza e significato nel momento peggiore.
I piccoli imprenditori usciranno con le ossa rotte da questa crisi e la ripartenza sarà durissima. Le loro rappresentanze sono in difficoltà perché le risorse a disposizione dovranno necessariamente essere concentrate in alcuni comparti e quindi l’autorevolezza, le idee, la forza delle argomentazioni prevarranno sulla semplice richiesta di risorse a fondo perduto. La mancanza di unità, di strategia e la crisi di un modello frantumerà la competizione tra sigle in mille rivoli. Ma le carte nel mondo della rappresentanza di interessi si rimescoleranno comunque. È solo questione di tempo.
Gli angusti recinti costruiti nel secolo scorso hanno sempre meno ragione di esistere. Non è un caso che la cosiddetta certificazione della rappresentanza pur evocata ad ogni piè sospinto non viene mai praticata. Imporrebbe una trasparenza che ben pochi sono disposti ad accettare al di là delle parole di circostanza.
Il tramonto di Rete Imprese Italia non è quindi un bel segnale.
Ne seguiranno altri. E purtroppo non credo che sia intenzione delle rispettive sigle, di questi tempi, dare fondo ad un supplemento di generosità e di lungimiranza. Gli uomini che hanno accompagnato in sostanziale silenzio il declino di questi anni difficilmente daranno fondo ad un sussulto di visione strategica. Troppo concentrati su come uscire ciascuno dal proprio angolo nel quale si sono cacciati da soli.
Un amico che stimo particolarmente quando gli ho raccontato a mo’ di battuta che mi era giunta voce che il coronavirus avrebbe potuto fare una prima vittima illustre sul piano associativo mi ha replicato che il Covid è stato particolarmente violento con chi aveva patologie pregresse. Purtroppo questo sembra proprio essere il caso di Rete imprese Italia.