Mi ricordo una modesta storiella che racconta di un congresso di matematici dove il primo relatore, con una vistosa cravatta verde sosteneva dal palco che 2+2=5. La parte della platea dotata di cravatta verde annuì e si prodigò immediatamente in un applauso frenetico. Il secondo relatore, dotato di cravatta rossa, sostenne al contrario che 2+2=3. Ebbe anche lui un grande applauso da tutti coloro che portavano una cravatta dello stesso colore. Il terzo relatore si presentò sul palco con una barba lunga e folta. Quando disse che, a suo parere, 2+2=4 un silenzio imbarazzato pervase tutto l’uditorio fino a quando uno dei matematici presenti, seduto sul fondo della sala, si alzò e chiese al relatore di spostare la barba così da mostrare alla platea il colore della cravatta.
Purtroppo oggi siamo messi così. Non mi piace cosa sta facendo il nuovo Governo pentaleghista in tema di immigrazione e cosa sembra prospettare in tema di lavoro. Non mi piace soprattutto l’idea che un’azione proposta, qualunque sia, prevalga sulla riflessione necessaria che la deve precedere, sulle conseguenze e sugli effetti collaterali che può provocare.
Sull’immigrazione l’Europa deve assumersi le proprie responsabilità. Credo sia evidente a tutti. Per costringerla a farlo, però, non si possono usare le persone più deboli come scudi umani. Né fare di tutta un’ erba un fascio delle ONG che operano nel Mediterraneo. Soprattutto quando, e lo si vede in questi giorni, la faccia truce mostrata con l’Acquarius non è servita a fermare alcunché visto che gli sbarchi sono continuati e continuano in alcuni porti del nostro sud. E sono destinati a continuare.
Sarà pure un Governo anomalo ma che sia il Ministro degli Interni a dettare strategie, modalità e priorità al posto del Presidente del Consiglio non depone certamente a rafforzare l’immagine del nostro Paese sul piano internazionale. Se l’intenzione non è quella di uscire dall’Europa le partite aperte sono molte e non sarà certo il tono della voce a determinare gli equilibri da trovare su diverse materie.
Così come sul lavoro. Capisco la necessità di non essere fagocitati dalla Lega e quindi la necessità di rincorrerla almeno sul piano del lavoro e delle vertenze aperte ma, se non si ha una visione della trasformazione del lavoro stesso, dell’urgenza dotarsi di strumenti in grado di gestire le transizioni in caso di disoccupazione, di come rapportarsi ai territori che si muovono e di come affrontare le crisi aziendali in un’ottica di lungo periodo il rischio è che anziché andare oltre i limiti del jobs act ci si impantani in una palude di provvedimenti tattici che appesantiranno i pur deboli segnali di ripresa del lavoro.
Il nostro non può confermarsi come un Paese ostile a chi crea lavoro. C’è un contesto, quello sì da affrontare, che ne limita la competitività, che spinge le imprese ad investire altrove o che diffida delle aziende estere addirittura a prescindere. Così come sarebbe un errore non comprendere il ruolo che le parti sociali, soprattutto nelle categorie, possono mettere in campo per ricomporre situazioni complesse.
L’idea che le si possa scavalcare destabilizzandole e disintermediandole è ingenua e pericolosa. Innanzitutto perché le deresponsabilizza. In secondo luogo perché non esistono soluzioni mirabolanti a disposizione. L’irruenza salviniana si contiene sviluppando una rete di coinvolgimento sulle cose da fare con tutti coloro che credono nel futuro di questo Paese.
Matteo Salvini si sgonfia se, nel rispetto della più alta carica dello Stato, le istituzioni lavoreranno per costruire sul serio la Terza Repubblica. Quella costruita sui cittadini, sulle persone quindi sulla partecipazione nel lavoro, nella vita pubblica e nella comunità in un Europa non matrigna.
Il presidente del Consiglio, le persone serie che, in questo Governo, hanno deciso di metterci la faccia, una parte consistente dell’elettorato che ha scelto i 5S perché non ne poteva più dell’immobilismo precedente e che aveva scommesso sull’evoluzione del centro sinistra ma che ha dovuto prendere atto della sua vocazione autodistruttiva, dovrebbero oggi più che mai alzare la testa e la voce. Non serve “buttare via il bambino con l’acqua sporca”.
Indipendentemente dalla prospettiva di andare o meno a votare in primavera 2019 credo sia chiaro a tutti che questa deriva non potrà comunque reggere a lungo. Non se lo può permettere il Paese ma non se lo possono permettere neanche coloro i quali pensano di poter governare l’esuberanza dell’alleato leghista scavalcandolo in attivismo e in comunicazione.
Inseguirlo costantemente sul suo terreno spinge il proprio elettorato ad una profonda mutazione genetica con tutte le conseguenze del caso. Il Ministro Di Maio ha fatto bene a scegliere due dicasteri fondamentali per cambiare questo Paese. Lavoro e Sviluppo Economico. L’Italia di domani passa da lì.
Però occorre dotarsi e dichiarare una strategia chiara e operare scelte concrete che vanno in quella direzione. Non solo individuare modeste risposte tattiche. E, soprattutto, saper ascoltare chi sta andando, pur da sponde differenti, nella stessa direzione.
Mai come in questo momento, credo, occorrerebbe ascoltarsi di più e offendersi di meno.