Con l’assise di Verona Confindustria sta dando un importante segnale di presenza e di forza propositiva al Paese. E questo non va assolutamente sottovalutato.
I corpi sociali pur con modalità differenti sono tutti scesi in campo per tentare di condizionare una campagna elettorale che ha preso una brutta piega e che rischia di compromettere i pur deboli segnali di ripresa.
Certo se avessero concordato unitariamente alcuni punti fondamentali presentandosi compatti ad un appuntamento pubblico avrebbero ottenuto ben altro risultato in termini di condizionamento della campagna elettorale e di credibilità, anche sul piano internazionale. Così non è stato almeno fino ad oggi.
Manca in campo, è inutile nasconderselo, la percezione netta che ci sia un Paese che non vuole risse inutili e che crede nella possibile risoluzione dei problemi senza le demagogie tipiche di questa contesa politica.
Ci ha provato Emma Bonino sia nel confronto con i dirigenti di Confcommercio di qualche giorno fa che con la lettera di ieri agli industriali riuniti a Verona. Ci avevano provato qualche tempo prima Carlo Calenda e Marco Bentivogli con il loro documento comune.
Lo scontro tra chi è disposto ad affossare il Paese pur di vincere e chi vorrebbe continuare la difficile strada del risanamento e della crescita con l’Europa come punto di riferimento è evidentemente sbilanciato a favore di chi promette tutto e il suo contrario.
La pubblicazione degli orientamenti di voto antisistema per categorie segnala un insufficiente impegno dei corpi intermedi. È inutile girarci intorno. Il futuro del Paese non ha bisogno di predicatori né di suggeritori di mestieri altrui.
Ha bisogno di gente e di organizzazioni che si assumono le loro responsabilità. È vero che politici e sindacalisti (del lavoro e dell’impresa) fanno un lavoro diverso ma ci sono momenti dove queste differenze devono cedere il passo in nome di un interesse superiore.
Fare impresa o fare sindacato in contesti politici diversi non è la stessa cosa. Così come non è indifferente rassegnarsi o scendere in campo. Il compito delle forze sociali è mandare un segnale forte di dissenso verso certe derive politiche che oggi sembra affascinino importanti fette di elettorato. L’idea di accasarsi con chi vince non vale più quando in gioco c’è l’appartenenza o meno ai Paesi che scommettono sull’Europa. Senza se e senza ma.
Un Paese dominato da sovranisti o demagoghi attrae o respinge gli investimenti? Il lavoro cresce o si riduce se le imprese sceglieranno una posizione attendista magari rinviando i possibili investimenti? I risparmi degli italiani saranno più o meno tutelati? Il dialogo sociale si sviluppa o il contesto spingerà le imprese ad arroccarsi sui contratti e sul costo del lavoro?
Di fronte a queste domande, credo, non si possa restare neutrali. Le principali organizzazioni della rappresentanza dovrebbero, insieme, scendere in campo. Bene le iniziative di organizzazione che creano orgoglio di appartenenza e voglia di partecipazione. Però tutto questo non basta.
Come ci ricorda quel vecchio quanto abusato proverbio keniota: “Se vuoi arrivare primo, corri da solo. Se vuoi arrivare lontano, cammina insieme”.
Ci sono ancora molti indecisi da convincere. Il tempo c’è, andrebbe utilizzato fino in fondo.