I dati dell’ISTAT confermano che alla crescita del numero di occupati non corrisponde una crescita delle ore lavorate e Dario di Vico, attento osservatore del fenomeno, si interroga sulle ragioni che porterebbero PIL e occupazione su due strade diverse (http://bit.ly/307ZXHd). I 5S sono soddisfatti perché si afferma la loro idea di lavoro. Gli analisti un po’ meno.
Ma cosa sta succedendo? C’è evidentemente in corso da tempo una mutazione genetica, una trasformazione del lavoro autonomo e dipendente in cui però continuano a convivere diversi modelli. Alcuni più tradizionali, in linea con il 900 industriale altri dove è già più percepibile lo spostamento del rischio di impresa al fattore lavoro. Di Vico si interroga anche sui ritardi delle parti sociali e della politica sul fenomeno e sulle possibili terapie.
Per alcuni la cura è relativamente semplice. Basta tornare al via. Le risposte sono tutte lì. Meno flessibilità, compressione del tempo parziale, regole sul part time, superamento dei “lavoretti” financo al ripristino dell’art.18. Per altri puntare alla creazione di lavoro, all’impiegabilità delle persone. Quindi formazione continua, politiche attive, tutela del lavoro piuttosto che del posto di lavoro. Per altri ancora è il reddito, non il lavoro in sé, il cuore del problema. Quindi dal reddito di cittadinanza, al salario minimo per consentire alle persone di mettere insieme un patchwork di attività e di reddito disponibile, corredati da una serie di diritti e tutele definiti dalla legge.
Le parti sociali sono ferme al palo per loro responsabilità. Sul fronte sindacale perché la riflessione sul terziario low cost spinge solo alla sua contestazione inconcludente. Sul fronte datoriale perché le flessibilità organizzative e sui costi che il mercato impone hanno spinto alcuni settori importanti a muoversi in quella direzione. E infine perché la tecnologia e l’innovazione non bruciano posti di lavoro ma ne cambiano la struttura, la qualità e la stessa definizione.
Se prendiamo il principale contratto nazionale, quello del terziario, vediamo come la scelta di applicarlo va ben al di là dei confini delle parti sociali che lo sottoscrivono. Questo perché ha una struttura a ”cipolla”. Costruita nel tempo e applicabile a strati. Unico nel suo genere. Costruito fin dall’inizio sulle esigenze del commercio quindi applicabile sia nella GDO che nel piccolo esercizio commerciale lascia spazi di manovra e di applicabilità che hanno trovato, nell’intero terziario di mercato, terreno fertile consentendo ai firmatari di estenderne il campo di applicazione. E, nonostante questo, ha trovato imitatori al ribasso in numerosi contratti pirata.
La stagione dei rinnovi appena iniziata dovrebbe cominciare a dare nuove risposte. Confindustria sta girando intorno all’idea di entrare anch’essa nel terziario per evidenti ragioni di rappresentatività. Moltissime aziende iscritte applicano quel contratto ma non si riconoscono in Confcommercio. Gli interessi in gioco non fanno presagire sbocchi particolarmente innovativi. I sindacati di categoria mantengono un peso decisivo sulle rispettive confederazioni. E quindi un diritto di veto ad accettare o meno nuovi interlocutori. E la stessa Confcommercio è più interessata al mantenimento dello status quo.
Per questo temo che i corpi sociali, presi nel loro insieme, non abbiano nessun interesse ad affrontare le nuove traiettorie del lavoro. La politica, da parte sua, potrebbe trovarsi in una posizione di vantaggio. Non ha legami con il passato, né interessi da difendere. Personalmente non ho mai giudicato positivamente l’intervento della politica su materie del lavoro però comincio a pensare che il piano inclinato su cui si è messa l’intera rappresentanza avrebbe bisogno di una scossa salutare.
Il tema in arrivo dall’Europa, il salario minimo punta decisamente lì. Anche se porterà inevitabilmente con sé contraddizioni e illusioni pericolose da gestire.
Al contrario occorrerebbe una grande presa di coscienza della parti sociali pronte a dare un contributo nell’interesse del Paese, del lavoro, delle nostre Imprese e dei giovani dove inserire uno schema nuovo di diritti e tutele più in capo alla persona che al luogo e al lavoro svolto. E dove la retribuzione più che alle ore lavorate può prendere consistenza sugli obiettivi, sui risultati individuali e dell’impresa, sull’impegno, la professionalità e sul merito. Che sono altra cosa rispetto al “cottimo”. Dove il luogo di lavoro e il tempo dedicato diventano strumenti tra i tanti non vincoli insormontabili. E dove le persone tornano veramente al centro diventando loro stesse il vero vantaggio competitivo di un’azienda.
E come far convivere tutto questo in un sistema misto che continuerà a far leva su una pluralità di modelli organizzativi e di riconoscimenti economici.
Senza tutto questo la strada è già tracciata. Secondo i dati dell’ISTAT siamo ormai alla messa a terra dello slogan “lavorare meno per lavorare tutti”. In una versione attualizzata e non certo a parità di salario come auspicavano i suoi inventori.