Credo sia interesse di tutti che il “Patto di Fabbrica” tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil segni l’inizio di una svolta nel sistema delle relazioni industriali italiane.
C’è sicuramente la necessità di accompagnare la ripresina in corso irrobustendo il ruolo dei protagonisti in campo, c’è la necessità di coinvolgere le PMI per estendere o consolidare le opportunità legate all’innovazione, c’è, infine, la necessità di dare un segnale forte di vitalità dei corpi intermedi alla Politica.
La nuova presidenza di Confindustria ha scommesso molto su questa impostazione. Un risultato positivo ne legittimerebbe e confermerebbe il ruolo guida nel complesso sistema delle relazioni industriali del nostro Paese. L’accordo, tra l’altro, sembrerebbe in dirittura di arrivo.
Tra pochi mesi ci saranno le elezioni politiche e un segnale forte di convergenza di una parte importante del sistema economico e sociale non potrebbe che essere vissuto come una buona base di partenza per costruire un modello di relazioni positive e costruttive.
Soprattutto dopo gli accordi firmati dalle altre organizzazioni datoriali a cominciare da Confcommercio. Il Paese ha certamente bisogno di mettere al centro imprese e lavoro.
L’alternativa è, purtroppo, il progressivo sfaldamento del sistema. Le imprese, sfiduciate dalla insufficienza delle risposte del contesto si muovono in ordine sparso. Le più performanti si arrangiano e competono individualmente con ottimi risultati, le altre, e sono la stragrande maggioranza, cercano, attraverso una difficile azione quotidiana tra vincoli e opportunità di mantenere il proprio equilibrio economico e motivazionale.
Oggi le aziende non sono isole. Sono inserite in dinamiche competitive, spesso internazionali, che ne determinano contraddizioni, vincoli produttivi e di mercato; al loro interno l’organizzazione del lavoro deve fare i conti con modelli e tipologie contrattuali sempre più diversificati e, spesso, tutto ciò che non è core business, viene relegato in altri luoghi anch’essi sottoposti a forti tensioni competitive.
Diritti e doveri dell’impresa e del lavoro perdono i significati che avevano nel secolo che abbiamo alle spalle e stentano ad assumerne di nuovi. L’impresa è più fragile e in balìa delle onde ma anche il lavoratore diventa sempre più fragile.
Come ridare slancio alle relazioni industriali come strumento di crescita e di sviluppo per le aziende, come costruire nuove tutele (welfare, formazione, diritti) dove renderli esigibili e come garantire una reciprocità di ruoli alle parti sociali sono le sfide sul tavolo.
Sul tavolo confindustriale due modelli si confrontano. Quello proposto dalle imprese (e dai sindacati) del settore chimico che vede nella rilancio della produttività lo strumento principale per caratterizzare questo “patto” e quindi di affidare alla contrattazione aziendale un ruolo importante ma più tradizionale e quello uscito dal recente rinnovo del contratto dei metalmeccanici. Quest’ultimo cerca, forse più dell’altro, di mettere al centro la qualità del rapporto con il lavoratore come elemento di rottura con un passato fordista e di massa. Da qui un’idea di contrattazione aziendale più propensa ad assumersi e condividere rischi e quindi più disponibile ad una innovazione qualitativa.
Nel primo modello il sindacato accetta sostanzialmente di farsi carico dei problemi delle imprese cercando però di ottenere in cambio buona occupazione e salario.
Nel secondo caso il sindacato accetta anch’esso il rischio della scommessa sul futuro ma cerca, proprio attraverso una nuova centralità del lavoratore, di partecipare alla costruzione di un volano di cambiamento e di innovazione continui.
I due contratti nazionali firmati sono stati, da questo punto di vista, molto chiari. Confindustria, insieme ai tre sindacati confederali, credo cercherà di individuare punti di mediazione che però rischiano di non aprire varchi a quella parte del sindacato più propensa alla sfida.
Per l’organizzazione datoriale pesa il fatto che le imprese, in generale, non amano la “compagnia” dei sindacati. Da questo punto di vista un modello più vicino a quello proposto dai chimici, e costruito in anni di relazioni costruttive, è più rassicurante.
Lascia alle imprese grande libertà di movimento e consente, contemporaneamente ai sindacati, un maggiore ruolo, seppure a posteriori e di controllo sui risultati.
L’altro modello presupporrebbe la disponibilità reciproca a mettersi in gioco in anticipo, condividere insieme la scommessa sul futuro e definire, attraverso una più estesa contrattazione aziendale, i vantaggi, per tutte le parti in campo, ma anche le responsabilità e i possibili insuccessi.
E a questo modello temo che molte aziende (e molti sindacalisti) non siano ancora pronte. O meglio che questa scommessa preferiscano mantenerla all’interno delle proprie prerogative imprenditoriali.
Da qui, ad esempio, l’indisponibilità ad estendere la contrattazione aziendale dove non viene praticata e alla volontà di circoscriverne le potenzialità soprattutto di quelle che vedrebbero protagonista il sindacato.
Vedremo se la montagna partorirà il topolino oppure se, in nome dell’innovazione e del cambiamento del sistema delle relazioni industriali qualcosa di nuovo uscirà da questo confronto.
Un po’ di aria nuova non guasterebbe…