Ai bambini in futuro forse non dovremo più chiedere: «Cosa ti piacerebbe fare da grande?». Piuttosto dovremmo dire: «Preparati ad essere in grado di fare tante cose». Secondo Rohit Talwar chi oggi ha 11 anni, probabilmente vivrà fino a 120 anni e rischia di lavorare fino a cento.
Incredibile? Forse è presto per dirlo. In Inghilterra, l’aspettativa di vita media oggi è oltre gli 80 anni e cresce ogni anno. A questi ritmi, un bambino di oggi vivrà almeno fino a 120 anni. E questa è una stima prudente. Contemporaneamente vediamo crescere i livelli di automazione nella vita quotidiana. Stanno nascendo nuove forme di smart software che rimpiazzeranno sempre più lavori. Questo porterà alla scomparsa di molti mestieri attuali, calcolati tra il 30 e l’80%. Da qui a 50 anni, saranno poche le persone che lavoreranno full-time. Molti non lavoreranno proprio. Sarà meglio o peggio? E chi li manterrà? Chi può dirlo?
Il sistema pensionistico e il welfare al quale siamo stati abituati si modificheranno profondamente nel prossimo futuro, perché è impossibile mantenerli con persone che vivranno fino a 120 anni. Quindi dovremo lavorare diversamente e molto più di oggi per essere sicuri di poterci mantenere fino a quelle età.
E questo solo per dire come è difficile immaginare come sarà la vita tra 20/30 anni.
Se trent’anni fa avessero proposto la legge Fornero o il Jobs act sarebbe scoppiata la rivoluzione. Negli anni 90 si poteva accedere tranquillamente alla pensione a 47 anni attraverso un mix costituito da CIGS, mobilità ed eventuali integrazioni aziendali consentendo di fatto un numero significativo di prepensionamenti. Il comparto industriale si è anche ristrutturato così. Altri tempi, dunque. Nessuno, allora, si è preoccupato delle conseguenze sul lungo periodo. Chi ha trent’anni oggi è nato allora. Nessuno ha chiesto loro di condividere o meno quelle scelte. Allora quel sistema andava bene a tutti: sindacati, imprese e lavoratori. Molti dei beneficiati sono, oggi, i genitori di questi ragazzi. Qualcuno avrebbe dovuto preoccuparsi del conto lasciato alle future generazioni? Non credo. Non dimentichiamo che dopo la prima guerra mondiale il sistema pensionistico era a capitalizzazione. Quindi assolutamente autosufficiente. Poi c’è stata la seconda guerra mondiale che ha bruciato praticamente tutte le risorse accumulate. Il dilemma, allora, fu se ricostruire il sistema precedente o andare sostanzialmente a debito tra generazioni. Scelta questa seconda strada si è scelto un sistema a ripartizione sapendo che, probabilmente, avrebbe retto per alcuni decenni. E così è stato. Cosa succederà tra trent’anni alle pensioni dei trentenni diventa oggi uno degli argomenti di una grande discussione spesso ansiogena. Noi possiamo solo limitarci ad aggiustamenti progressivi tra il vecchio sistema retributivo e quello contributivo. Non esiste “la soluzione definitiva”. Chi la propina è in mala fede. Parliamoci chiaro, nessuno può fare previsioni serie e attendibili su cosa succederà. Ci si può cimentare, ovviamente, però il rischio che si consideri solo la situazione attuale proiettandola in un futuro remoto è molto forte. Però solo con le variabili oggi a disposizione cioè al netto della tecnologia, delle innovazioni organizzative e sociali, delle crisi cicliche e della globalizzazione del lavoro. Nessuna riflessione sulla possibile evoluzione del contesto socio economico, nessuna sui flussi migratori reali; nessuna sul nuovo welfare necessario a generazioni che lavoreranno diversamente e più a lungo e con modalità completamente diverse. Per questo le ipotesi vanno prese con grande cautela. La drammatizzazione non serve. Tra trent’anni i trentenni non so se staranno meglio o peggio so solo, per certo, che loro ci saranno di sicuro e nel frattempo, a tutti noi, cittadini di oggi, viene richiesto di aiutarli a progettare un nuovo contesto economico, sociale e culturale diverso e funzionale a quello nel quale loro dovranno vivere. A noi il dovere di evitare di alimentare conflitti generazionali basati su ipotesi tutt’altro che scontate.