UNES. Quando tra sede e punti vendita il dialogo si complica…

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Una crisi aziendale non nasce improvvisamente. Diversi segnali l’annunciano e la precedono. I numeri non sono l’unico punto di osservazione. Innanzitutto i top manager che vanno e vengono. Poi il turn over. Chi ha una professionalità rivendibile sul mercato lascia l’azienda  appena se ne presenta l’occasione. A questo si aggiunge la difficoltà a reperire personale ad ogni livello. Infine le continue operazioni sull’organico  che si susseguono nel tentativo di comprimere i costi della struttura in attesa, si spera, di altre soluzioni. Ricordo l’ultima fase di Standa quando Mediocredito Lombardo (l’investment bank di Banca Intesa), che ne possedeva due terzi, non l’aveva ancora ceduta a  Rewe. In sede e nei 120 PDV, in quei  mesi di interregno sembrava di essere asserragliati ciascuno in una sorta Fort Alamo dove ci si difendeva  rimbalzando le rispettive responsabilità.

Nel  “caos calmo” che regna in azienda  in quelle condizioni, il responsabile del punto vendita è una delle figure più delicate. È determinante il suo spirito di servizio e la sua capacità di tenere la motivazione ad un livello accettabile, della  squadra di regia e dell’insieme dei collaboratori. “Prendersela” con i responsabili di punto vendita  è come spararsi ad un piede. Qui non si parla di qualche personaggio inadatto al ruolo che deve e può essere sostituito. Si propone di chiudere o trasformare radicalmente  il rapporto con l’intera categoria aziendale in servizio perché non ritenuta in linea con la nuova organizzazione ipotizzata che resta tutta da verificare.

So benissimo che in molte insegne della GDO quelle figure professionali sono state di fatto sostituite,  in termini di livello di inquadramento  e quindi di retribuzione, ormai da tempo. Ma un conto è ridiscutere una ipotetica nuova job description del ruolo in una fase di stabilità, per nuovi assunti o, come hanno fatto altre insegne ,  che mettono in posizione giovani inseriti in processi di crescita, un altro è “azzerare” i ruoli occupati  da persone fisiche e presenti  in azienda. Anche lasciando perdere leggi e contratti e future cause individuali a mio parere resta un autogol sul piano della motivazione, del clima interno  e della qualità del lavoro nei punti vendita.

Ovviamente la mia riflessione va oltre il caso UNES.

Questa figura professionale si trova spesso  tra l’incudine e il martello schiacciata da una gerarchia commerciale di sede che non ha quasi mai il coraggio di assumersi le proprie responsabilità sui risultati soprattutto quando gli errori di strategia si fanno sentire. Le  attività quotidiane del “direttore” in un’ insegna che attraversa una evidente crisi di risultati non sono facilmente descrivibili in una job description tradizionale. Se normalmente la funzione principale  è rappresentata dalla gestione economica di un negozio e la responsabilità della gestione dei lavoratori in situazione di forte tensione si trova a dover rispondere ai clienti che percepiscono immediatamente i segnali di peggioramento, spegnere gli incendi quotidiani, ammortizzare gli errori  della logistica, supervisionare e spesso sostituire il personale indipendentemente dal ruolo  con orari si lavoro che coinvolgono i responsabili molto di più di ciò che si pensa quando se ne discute a tavolino.  Per questo servono competenze sia di tipo organizzativo che di tipo relazionale. E soprattutto tanta disponibilità personale. 

Non è un caso che molti CEO sono partiti da lì nelle loro carriere. D’altra parte  gli store manager hanno spesso iniziato  proprio come addetti alle vendite per poi fare crescere fino al ruolo di responsabili. Questo percorso conferisce loro una conoscenza globale e dettagliata della realtà e delle necessità dell’azienda. Privarsene, demansionarne il ruolo trasformandoli in una sorta di  terminali della sede è una sciocchezza.

Dall’annuncio dell’apertura della procedura sono stato “bersagliato” da moltissime di mail dall’interno dell’azienda che descrivono una situazione molto tesa. D’altra parte il mio blog è l’unico che ha cercato di spiegare la situazione di Unes non solo partendo dal dato in sé (l’annuncio della procedura) e evitando i comunicati aziendali che lasciano il tempo che trovano. Adesso la palla passa ai sindacati di categoria. Posizione non facile soprattutto se l’azienda metterà in campo azioni di convincimento “spintaneo” sulle persone coinvolte con l’obiettivo  di  ridurre al massimo il problema. Ripeto: non è questo il punto. 

La procedura prevede un primo passaggio che dura  45 giorni in cui l’azienda cercherà di convincere i rappresentanti dei lavoratori dell’inevitabilità della procedura stessa e della sua gestibilità cercando di raggiungere un accordo che stabilisca i tempi di gestione e il  numero finale degli esuberi. Ovviamente in mancanza di accordo in sede sindacale, il datore di lavoro comunicherà alla Regione o al Ministero del Lavoro, a seconda dei casi, che le parti non sono riuscite a trovare un’intesa e la Regione, o il Ministero, procede ad una convocazione nell’arco dei successivi 30 giorni.

Con l’accordo le parti possono liberamente fissare i tempi di gestione della procedura e i criteri di scelta degli esuberi. Con il “mancato accordo” vanno rigidamente rispettate le modalità di gestione previste dalla L. 223/91: 120 giorni di tempo per il licenziamento delle eccedenze e i criteri di scelta stabiliti dall’art. 5 della Legge. Alla procedura sono collegati degli oneri che il datore di lavoro deve corrispondere all’INPS, che in caso di mancato accordo sono maggiorati di tre volte. La selezione dei lavoratori da estromettere  viene individuata dal datore di lavoro, ma non è libera. E non servono liste compilate da consulenti  esterni “neutrali”. Deve avvenire tenendo conto sicuramente  delle esigenze tecnico-produttive e organizzative aziendali ma rispettando i criteri previsti da leggi e  contratti collettivi in concorso tra di loro quindi aggiungendo i carichi di famiglia e l’anzianità di servizio.

Certo la sola decisione relativa all’apertura della procedura non fa presagire nulla di buono sul futuro dell’insegna. Non solo sui responsabili di punto vendita spinti a subire il  demansionamento per poi  magari rivalersi come sempre avviene con cause legali individuali  prossime venture per farsi restituire le differenze retributive sottratte. Spero solo che se l’obiettivo vero dovesse essere quello di cedere l’azienda a terzi che lo si faccia in fretta. Perdere la fiducia dei clienti e contemporaneamente quella dei propri collaboratori non porta molto lontano. Purtroppo. 

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3 risposte a “UNES. Quando tra sede e punti vendita il dialogo si complica…”

  1. Pur non lavorando dentro lei ha perfettamente esposto quello che succede. Sinceramente la pensavo da tempo che la strada che Unes vuole percorrere è vendere quindi cominciando con ridurre costi per essere più allettante ai possibili compratori. Una domanda, in un attuale momento critico della GDO con un asfissiante presenza di competitor, chi mai potrebbe essere interessato ad acquistare la Unes?

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