Il quotidiano l’Unità ha chiuso sostituito, on line, da un più tranquillizzante “Democratica”. Ostentarlo in fabbrica nella tasca sinistra della tuta come i comunisti facevano con il giornale fondato da Antonio Gramsci, oggi, farebbe sorridere.
Le stesse storiche feste di cui mantengono il nome arrancano pur tra ottimi gnocchi fritti e chiacchierate politiche ormai incalzate da quelle chiamate “del Lavoro” di MDP. Unità e Sinistra stanno diventando ormai ossìmori. In questo clima chiunque (ri)parli di unità sindacale rischia di passare per un ingenuo passatista.
Sia i congressi di categoria che quello confederale della CISL non hanno lasciato spazio al tema. Eppure la firma unitaria degli accordi interconfederali e dei recenti contratti di lavoro nel comparto industriale aveva fatto pensare (a chi crede ancora rilanciabile questa ipotesi) ad un cambio di strategia sul tema dopo le stagioni delle divisioni. Non è stato così.
I tre sindacati confederali, almeno fino ad ora, hanno deciso nei fatti, di continuare a “marciare divisi” per eventualmente “colpire uniti” su singole questioni. La carta dei diritti, i referendum proposti e l’eccessivo significato dato allo scontro sui voucher e sulle successive proposte del Governo per risolvere il problema avevano chiarito che la CGIL non si sarebbe fermata in attesa di un ripensamento di CISL e UIL. Ripensamento ovviamente lontano dalle intenzioni dei gruppi dirigenti degli altri sindacati.
La conferenza di organizzazione della CGIL confermerà probabilmente questa strategia. L’avvicendamento in FIOM con Re David e lo spostamento di Maurizio Landini in CGIL fanno presagire una linea di assoluta continuità, almeno nel breve. Inoltre le divisioni, interne alla sinistra politica, sono destinate ad accentuare e non ad attenuare le divaricazioni tra i sindacati.
Il rischio vero è che la debolezza di ciò che si muove alla sinistra del PD spinga la CGIL a immaginarsi come elemento di possibile coagulo. Una sorta di cinghia di trasmissione al contrario in stile vecchio Labour inglese dove è il sindacato il soggetto politico portando così a compimento l’idea dalla quale era partito lo stesso Landini, però in termini più vasti, di “coalizione sociale”.
I fatti però ci dicono che, dal referendum sulla scala mobile del giugno del 1985 ad oggi nessuno dei tre sindacati confederale ha beneficiato, sul piano organizzativo, delle divisioni. Anzi.
Negli anni caratterizzati dalla deriva identitaria il sindacato confederale ha perso iscritti, peso e autorevolezza. Soprattutto tra gli attivi e tra i giovani. Nelle aziende, pur con significative differenze settoriali, il declino è continuato inesorabile.
In contro tendenza a questa deriva una parte della Politica sembra voler ritornare sui suoi passi. Dal PD si cominciano a sentire piccoli ma importanti segnali di autocritica sul rapporto con le organizzazioni di rappresentanza. Segnali analoghi di interesse alla collaborazione vengono dal Presidente Gentiloni e dal Ministro Calenda solo per citare i più importanti. Anche i più scettici hanno capito che i corpi intermedi svolgono una funzione decisiva nella società italiana. E restano un antidoto potente alla deriva populista.
Chi ha capito, però, nelle federazioni di categoria, che il Lavoro sta cambiando in profondità e che una difesa delle proprie idee e della propria strategia passa attraverso la capacità di individuare nuovi interlocutori, stabilire alleanze inedite, uscire dal proprio isolamento sembra non avere interesse a giocare le sue carte in questa fase. In nessuno dei tre sindacati.
Landini è un caso a parte perché doveva ricostruire una sua immagine interna alla CGIL fortemente sfuocata in questi anni. Per questo dovrà probabilmente disegnare e proporre scenari apocalittici sulle prospettive del sindacalismo confederale per rimettersi al centro della scena e ricompattare la CGIL intorno al suo nome.
In quella organizzazione (e non solo in quella) non perdonano facilmente egocentrismi, protagonismi esasperati e atteggiamenti ripetuti da “metalmeccanico”… La stessa votazione appena avvenuta nel parlamentino della CGIL sulla sua nomina segnala la presenza di malumori.
Tra i diversi temi su cui si gioca la partita c’è di mezzo anche il modello contrattuale di riferimento nel negoziato con Confindustria. Non è un caso che tutti i soggetti in campo si sono affrettati a dichiarare di non considerare come punto di riferimento valido per tutti la filosofia contenuta nel rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici. Anche gli stessi firmatari di quel contratto tengono un profilo basso. La logica spingerebbe verso l’esatto contrario.
Quel contratto, in cambio di una disponibilità unitaria su di una distribuzione innovativa del salario positivo anche per le imprese (oltreché per i lavoratori) potrebbe portare ad un rilancio del sindacato nei luoghi di lavoro e nei territori rimettendolo al centro di un rinnovamento in chiave anche collaborativa dagli esiti imprevedibili.
Il rischio è che nella fase di gestione, che deve ancora partire, il fronte delle imprese lavori per sterilizzarne parti significative. Per questo occorrerà attendere la conferenza di organizzazione della CGIL per capire se il primo sindacato italiano affronterà alcuni nodi in modo problematico pensando alla prospettiva o preferirà continuare in un lento ripiegamento su se stesso.
Susanna Camusso ha contribuito in modo decisivo a far uscire la CGIL dall’isolamento in cui era finita. Per farlo ha scelto di compattare l’intera organizzazione spostandone l’asse più a sinistra anche perché, con una CGIL rissosa al proprio interno, non sarebbe andata da nessuna parte.
Il suo compito sta per concludersi ed è nel momento del passaggio di testimone che si capirà se lascia al suo successore un compito difficile o uno impossibile.
Ed è a quel punto che CISL e UIL potranno o meno individuare proposte e strategie tese ad accompagnare, contrastare o concordare un percorso e una strategia credibile.
Per ora non possiamo non registrare l’assenza di qualsiasi riflessione significativa sul tema dell’unità e del futuro del sindacalismo confederale.