Il welfare aziendale piace molto ai media. Ci fa tanto assomigliare alle grandi imprese di altri Paesi. Ci fa assomigliare a quelle realtà dove la dimensione aziendale, il sistema contrattuale e fiscale consente alle aziende di investire sul questa forma di salario indiretto che produce retention, clima positivo e integra l’intervento pubblico. In Italia rischia di essere un percorso sterile. Per quanto le aziende possano investire su questo filone la dimensione delle aziende, la distribuzione sul territorio di strutture pubbliche adeguate, i limiti dell’intervento pubblico presente e soprattutto futuro, in termini di assistenza e previdenza rendono difficile un approccio che fa perno sul singolo imprenditore. Per questo occorre puntare decisamente sul welfare di derivazione contrattuale. Consente economie di scala, opportunità che coprono grandi e piccole imprese, controllo sul piano della qualità dell’offerta. È strano come osservatori attenti si lascino sfuggire questa dimensione che già oggi coinvolge circa cinque milioni di persone nei diversi settori merceologici. Capisco che oggi, tutto ciò che comprende tra i promotori le organizzazioni di rappresentanza, non è percepito come positivo e propositivo ma questo è. Fondi contrattuali come EST, QUAS, FASDAC solo nel settore del terziario rispondono alle esigenze di natura sanitaria di oltre un milione e mezzo di lavoratori dipendenti. Forse non fa notizia come la LuxOttica di Del Vecchio ma certamente risponde ad un problema sentito. Non nasce oggi ma nasce in anni dove la scelta tra salario diretto e salario accessorio non era facilissima da fare e dove, anche le organizzazioni sindacali dei dipendenti e dei dirigenti hanno convenuto con la Confcommercio scelte innovative. È strano che, proprio oggi, quando Confindustria si pone giustamente, e tra mille critiche, di seguire lo stesso percorso, si voglia sottacere i risultati già ottenuti nel terziario. Certo ci sono problemi di governance, di approcci burocratici da superare e di tenuta in prospettiva di alcuni di questi fondi. Ma ci sono problemi di strategia che potrebbero orientare le parti socie, a cominciare da Confindustria, Confcommercio e le associazioni degli artigiani a guardare avanti magari ipotizzando convergenze utili a costruire masse critiche simili a quelle presenti in alcuni Paesi europei. Ma una cosa è certa; questa è la strada da percorrere in Italia. Inseguire le pur lodevoli iniziative di singoli imprenditori non porta da nessuna parte. Occorre far crescere una cultura nuova che favorisca la creazione di fondi privati importanti che sappiano dialogare anche con il pubblico portando risparmi, razionalizzazioni ed efficienza nel l’erogazione dei servizi senza togliere alcun spazio agli interventi delle assicurazioni sul piano individuale. Comprendere fino in fondo i vantaggi che comporterebbe un consolidamento di una politica seria a sostegno della previdenza complementare. Per questo, credo, occorrerebbe dedicare maggiore attenzione a ciò che le parti sociali stanno facendo, individuarne pure limiti ed errori, ma evitando di gettare il bambino con l’acqua sporca. Progetti del genere modificano culture radicate, creano forme di collaborazione tra le parti, danno nuove prospettive e ruolo ai corpi intermedi. C’è molto da fare ma la strada è quella. Le scorciatoie, seppur benemerite, non portano da nessuna parte.