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Non fa mai bene voltarsi troppo indietro. Lì ci sono sentieri che non possono più essere percorsi. Il futuro si fa, costruendolo quotidianamente, pezzo dopo pezzo. Non certo sedendosi ad aspettarlo. A volte penso agli epici scontri tra  Bernardo Caprotti e Turiddo Campaini. Credo che Esselunga e Coop il meglio lo abbiano dato con loro due al comando. Interpretazioni originali, per certi versi opposte, forse irripetibili di un mestiere in sé povero. Nel tramonto del novecento sono state due uomini e due insegne agli antipodi. Multinazionali tedesche a parte, i vincitori e i perdenti di oggi  sono cresciuti intorno al loro mito. Se oggi parliamo di un vibrante testa a testa  tra Conad e Selex allora era tra Coop e Esselunga. Il resto era contorno. È poi non mancava neppure l’ingrediente ideologico.  O di qua o di là. Molti protagonisti del passato negli anni a venire verranno dimenticati. Loro due, non credo. Semplificando possiamo dire che la storia della GDO italiana di quegli anni ha avuto in quelle due realtà i protagonisti più noti al grande pubblico.

Colpiva la “grinta” che li contraddistingueva, nel difendersi  e nello scambiarsi accuse e qualche colpo basso. Erano più simili di quanto davano a vedere. Giuseppe Caprotti nel suo libro “Le ossa dei Caprotti” racconta che il padre stimava Campaini. Così come, nel libro-intervista “Un’altra vita è possibile” quest’ultimo ricambia la stima ammettendo di aver  imparato qualcosa da lui: la coerenza ferrea. Ovviamente senza rinunciare a sottolineare una differenza “tra chi ha creato un modello imprenditoriale a sua somiglianza e chi crede nel «primato assoluto delle persone in una realtà che è insieme impresa e organizzazione di soci”. Personalità forti. Entrambi, per diverse ragioni,  non sono però riusciti a costruire i passaggi generazionali necessari. Né familiari, il primo, né di cultura cooperativa/manageriale, il secondo.  Esselunga e Coop restano realtà dalle radici solide e dai conti in ordine. Basta però osservarle da vicino per capire che stanno consumando l’abbondante fieno che, per tempo, è stato messo in cascina. Sia economico che, forse, di credibilità. Oggi altri attori sono comparsi sulla scena a contendersi la torta. 

Coop fatica ad essere sé stessa. O meglio, ad essere una cosa sola. Si riorganizza, discute, produce innovazioni e idee ma non riesce ad essere ciò che era ne si capisce ciò che vorrebbe continuare ad essere. Nel mondo cooperativo c’è sicuramente un problema di leadership riconosciuta come tale da tutti. È un segno dei tempi. Chi ha il potere in una qualsiasi delle cooperative che ne compongono parte dell’universo complessivo si sente interprete di quello spirito, a modo suo. Quindi più degli altri. In realtà è anche questo un mondo, non l’unico, dove si è consolidato il principio di fedeltà al leader di turno. Più della lealtà al sistema. Il vero tema quindi resta l’approdo. Il modello di barca e la navigazione necessaria cambiano in funzione di dove si vuole andare. Se è il mercato, la difesa da una concorrenza aggressiva, il cliente e il collaboratore assumono ciascuno un profilo comune al resto del comparto. Conad, ad esempio,  è già arrivata  lì. Coop, se non riesce a  riposizionarsi attualizzando il significato dell’identità cooperativa in questo contesto storico,   ci arriverà.

Forse nel defilarsi di Unicoop Firenze dal modello in costruzione di Unicoop Etruria, c’è proprio una differenza di valutazione tra ciò che ti senti di essere, ciò che appari a chi ti osserva e ciò che temi qualcuno  dal di dentro voglia farti diventare. Da fuori non è facile giudicare. L’impressione è che l’evoluzione imposta al  modello e le accelerazioni conseguenti tendano inevitabilmente a snaturarne i connotati. Quindi la domanda è se può esistere, oggi, una specificità del tradizionale modello cooperativo in grado di confrontarsi, alla pari, sul mercato della Grande Distribuzione. Osservando anche  l’evoluzione di quel modello in Europa. Coop si situa comunque nella fascia alta nel rapporto con i suoi stakeholder. Penso ai soci, ai lavoratori, ai sindacati. Lo stesso rapporto con i fornitori. Parliamoci chiaro: nella GDO c’è di tutto e di più. Coop è certamente più avanti. Ma in ciascuna  di queste relazioni con i singoli stakeholder la distanza con la concorrenza si è ridotta mentre i vincoli del sistema sono aumentati. La sensazione, visto da fuori,  è che non ci sia, al di là dei formalismi,  un orizzonte  unitario del sistema.

Se però Atene piange, Sparta non ride. Anche a  Pioltello, a mio parere, è proprio il punto di approdo che si fatica a comprendere. L’azienda è in salute. Questo va premesso per evitare speculazioni inutili. Ed ha un vantaggio consistente sugli inseguitori. Per Bernardo Caprotti l’approdo avrebbe dovuto essere la cessione. Come ho già scritto. Estromesso il primo figlio, non ha avuto né il tempo né probabilmente la convinzione di voler investire su un altro passaggio generazionale. Altrimenti lo avrebbe fatto. Il resto è storia. Esselunga, pur tenendo botta,  non ha fatto alcun significativo passo in avanti dall’uscita del suo fondatore. Non è uscita dai suoi territori di elezione dove è continuamente erosa da una concorrenza tignosa e non ha trasformato, in questi 5 anni,  nessuno dei pur interessanti esperimenti  (Esse, Enoteca, Essere Bella, Eccellenze Esselunga e Bar Atlantic) in business aggiuntivi veri. Restano modesti contorni.

Sinceramente dopo l’exploit di Mind mi sarei aspettato qualche novità da EsselungaLab. Era stato annunciato come una vera novità. Un laboratorio dinamico di servizi, tecnologie, tecniche  di comunicazione, materiali. Così come, ad esempio,  non si entra in Milano da ogni lato da almeno vent’anni senza percepire dai cartelloni pubblicitari la leadership di Esselunga pensavo che la nuova gestione puntasse a marcare il territorio nelle stazioni e negli aeroporti cittadini proprio con qualche “effetto speciale” di EsselungaLab. Così per ora non è stato.  Lo sviluppo del personale pur ruvido sul piano sindacale, vero fiore all’occhiello della gestione di Caprotti senior, non è certo quella che ci si aspetta da una realtà  leader. I direttori risorse umane, vanno e vengono. Centrale, fortunatamente, resta l’importante figura del Direttore Generale al timone. Ma non è lui a decidere l’approdo. Eurospin, intanto, mette la freccia. Un tempo sarebbero volati gli stracci. Oggi tutto tace. 

A volte fatico a comprendere le strategie di alcune realtà importanti della GDO. Sembrano rassegnate a  difendere semplicemente  il loro perimetro. Promozioni, sconti, MDD e via discorrendo.  Tanta comunicazione ma poca sostanza. Intanto la torta (i clienti), viene divisa tra  più insegne. Con differenze qualitative, tra loro, non particolarmente significative. C’è chi pensa di allargare il business con nuovi servizi (viaggi, assicurazioni, ecc.), chi di investire nel retail media. Chi, infine, in tecnologia. Poi guardi fuori e ti accorgi che c’è chi chi si guarda in giro, sperimenta online e poi investe in nuovi formati fisici acquisisce, sbaglia e ci riprova. Vedi l’impegno. L’impressione è che stia vincendo un po’ dovunque  il “qui e ora”. Margini e fatturato, il famoso “cassetto pieno” che trionfa su strategie di consolidamento e sviluppo. Entrambe le due realtà riassumono difficoltà che sono anche di altre insegne. Sembra manchino le ambizioni di una volta, pur per motivi diversi. È così?

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