La comunicazione aziendale può mettere al centro il lavoro?

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Forse il primo è stato Giovanni Rana. Ma i collaboratori messi in campo nei suoi spot parlavano della bontà del prodotto. Solo sullo sfondo si poteva percepire una cultura del lavoro priva di contrapposizioni ben illustrata dalla recente intervista di Dario Di Vico sul Corriere Economia al figlio Gianluca, oggi al timone dell’azienda. Altre aziende, nel tempo, hanno scelto come testimonial uno o più  dipendenti in alternativa a personaggi inventati o famosi che si fanno garanti del prodotto e quindi anche del brand.

Se lo spot del  “Mulino  Bianco” puntava sulla casa e quindi su un modello di famiglia con Giovanni Rana la famiglia, intesa in senso più allargato, si è trasferita  dentro i cancelli dell’impresa riuscendo a trasmettere il clima positivo, la genuinità e la semplicità di un prodotto “made in Italy”.

Clima aziendale e successo di un’impresa viaggiano sempre insieme. Non a caso le aziende più performanti lo monitorano costantemente e ne fanno seguire piani di azione e di miglioramento continuo. Osservando il turn over sia del middle management che dei dipendenti o i tassi di assenteismo si possono capire tante cose sulla qualità del  clima di un’azienda. E spesso, valori declamati e comportamenti agiti viaggiano su piani differenti. Alcuni brand sono essi stessi motivo di orgoglio di appartenenza a prescindere. Altri, meno noti, devono lavorare di più per non vedersi sottrarre le risorse migliori. Anche per questo le politiche di retention sulle risorse chiave, il welfare aziendale, l’ascolto,  la comunicazione interna, i percorsi di crescita sono l’elemento caratterizzante delle direzioni risorse umane più performanti.

Ma tutto questo fa leva sullo “scambio”, sulla partnership, sulle ragioni che spingono impresa e lavoratore a fare un pezzo più o meno lungo di strada insieme condividendo obiettivi, valori e tempo di vita spesso sottratto alla famiglia. Quindi è normale che il lavoratore attraverso i suoi contatti, le sue relazioni e la sua sfera di conoscenze si trasformi in un veicolo pubblicitario positivo o negativo più o meno consapevole del brand presso il quale lavora.

Mai però era successo che l’azienda scegliesse essa stessa le proprie risorse umane per veicolare un’immagine di sé, della propria offerta di lavoro, della propria cultura, del  proprio agire come elemento di immagine al di là del prodotto o del servizio proposto.

Amazon, almeno in Italia, è stata sicuramente la prima a cambiare passo. Al centro ha messo le ragioni che hanno spinto un neo dipendente  a sceglierla.  Spesso sono testimonial che evidenziano problemi di età o particolari condizioni personali  che avrebbero certamente precluso  l’accesso ad altri impieghi nel mondo del lavoro. Sullo sfondo i colori e la dimensione dei magazzini, imponenti e rassicuranti.

È facile leggervi un messaggio semplice. “Da noi, se hai voglia di lavorare non conta da dove vieni o chi sei. Questo è il posto per te”. In tempi di espulsioni dal lavoro e di difficile reimpiego per alcune categorie specifiche lo trovo un messaggio positivo. Il target a cui si rivolge Amazon è molto particolare. Così come i testimonial. Persone semplici e concrete. La fetta più significativa del mercato del lavoro. Quello più povero.

Leggerlo con le lenti del lavoro qualificato, professionale o di fascia alta è un errore. In questo spot diventano protagonisti i penultimi. Quelli che rientrano nel mercato dopo esperienze negative. Quelli che studiano e lavorano. Quelli che i sogni li riservano  in altri campi e cercano solo un lavoro comunque legale e possibilmente a tempo indeterminato. Quelli per cui il lavoro è fatica, il sindacato lontano e le regole, i comportamenti e i linguaggi sono quelli dell’azienda.

Ovviamente questo ha scatenato critiche sulla presunta incoerenza del messaggio rispetto alla realtà. D’altra parte se chiedete a più dipendenti di un’azienda di descriverla sul piano del clima o della qualità del lavoro le risposte potrebbero essere comunque molto diverse. Ma il dado è tratto. L’azienda “usa” quel target, mostra l’ immagine di sé stessa che vuole veicolare e non si accontenta del passaparola dei dipendenti, dei redazionali o di interviste mirate. È un filone nuovo.

Riso Scotti lo reinterpreta su un altro piano presentando, non il suo prodotto o l’azienda, tramite i suoi dipendenti, ma facendo un’operazione di co-branding con una società (Andrea Poletti e Associati Group) che propone progetti di smart working chiavi in mano. È un altro passo in avanti. Riso Scotti non faceva smart working. Costruisce un progetto e lo utilizza in termini comunicativi  ancora prima di realizzarlo. Fa comunicazione del brand anch’essa sul lavoro. E non lo lascia ai racconti ex post né ai sindacati né ai giuslavoristi. Come avrebbero fatto  tutti.

Quindi il lavoro inteso come elemento di interesse e di promozione di un brand, ritorna, anche sul piano comunicativo, nel perimetro e nelle disponibilità dell’impresa stessa e questo mentre il lavoro inteso come qualità, necessità di aggiornamento continuo, sviluppo professionale,  e durata nel tempo  si muove  in direzione opposta molto più a carico del lavoratore. Questo  però non è materia dei pubblicitari.

 

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