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Solo su un punto sono tutti d’accordo. L’inflazione ha riportato in primo piano l’inadeguatezza dei salari reali. Su come rilanciarli almeno due tesi principali, si confrontano. La prima più continuista che lascia alla contrattazione di primo e secondo livello, quindi alle relazioni industriali, l’onere di contribuire a risolvere il problema. La seconda convinta che quel ciclo, il meglio lo abbia già dato. Non solo per  il tramonto della concertazione, ma anche per incapacità (o mancanza di volontà) delle parti sociali di rivitalizzarlo. Un modello che si è sviluppato nel secolo scorso e ha avuto la sua massima espressione  e riconoscimento nel 1993, quando, archiviata la scala mobile, si è passati, al “protocollo Ciampi”. Una strumentazione  che puntava a realizzare una politica dei redditi, centrandola su relazioni industriali moderne e costruita su confronti triangolari (Governo e parti sociali) e contratti collettivi negoziati su due livelli, nazionali e aziendali conditi con benefici contributivi e fiscali. Se vogliamo trovare una data di inizio possiamo dire che, da lì in poi, i redditi dei lavoratori italiani cominciano a non crescere più come prima.

E la stagnazione salariale, come spiegano Andrea Garnero e Roberto Mania, nel loro interessante contributo (La questione salariale – EGEA 2025) si muoverà da lì in poi parallelamente al blocco della dinamica del PIL e della produttività. Ma procediamo con ordine. È uscita da poco la fotografia dell’ISTAT che ci ricorda 13 milioni 525 mila persone che sono  state a rischio di povertà o esclusione sociale nel 2024. Il 23,1% della popolazione è dunque a bassa intensità di lavoro. Dall’altro, pur sopra l’asticella, i dati del focus sull’Italia del Rapporto mondiale sui salari 2025-26, dell’Oil, Organizzazione internazionale del lavoro (leggi qui). L’Italia è il Paese del G20 dove i salari hanno subito una perdita di potere d’acquisto dal 2008 a oggi. Negli ultimi tre anni, dopo un calo dei salari reali del 3,3% nel 2022 e del 3,2% nel 2023, nel 2024 c’è stato un aumento del 2,3%, comunque insufficiente a recuperare la perdita rispetto all’inflazione. Una fotografia realistica  di come si è via via strutturato il  nostro mercato del lavoro e che aggravano il dato italiano. Quindi, donne pagate meno degli uomini, part time involontari, lavoratori delle cooperative spurie della logistica, dipendenti delle realtà esternalizzate dalle imprese, ecc. 

Sul “che fare” si affrontano, come ho scritto, diverse “scuole di pensiero”. Maurizio Landini a nome e per conto del sindacato confederale ripropone la sua strumentazione: “Occorre aprire una vera e propria vertenza sui salari” e chiama la piazza alla mobilitazione con il mai dimenticato “Obiettivo-Lotta-Risultato”. Il Prof. Michele Tiraboschi rilancia il ruolo delle relazioni industriali e della contrattazione: “La perdita di potere d’acquisto non può essere risolta unicamente con aumenti dei minimi tabellari (nei CCNL), come confermano le stime per il 2025: considerando le tranche di aumenti previste nei prossimi mesi, la perdita cumulata di potere d’acquisto nel periodo 2019-2025 si ridurrebbe dal 7,1% al 6,6%, rimanendo tuttavia significativa. Diventa pertanto fondamentale rafforzare anche il ruolo della contrattazione aziendale e promuovere strumenti capaci di garantire retribuzioni adeguate e sostenibili. La capacità della contrattazione di adattarsi ai nuovi equilibri economici e di introdurre soluzioni innovative sarà determinante per il futuro delle relazioni industriali”.

Marco Leonardi professore di economia politica all’Università di Milano, già capo dipartimento programmazione economica presso Presidenza del Consiglio dei Ministri sostiene, al contrario,  che “nessun Paese che punta sulla contrattazione collettiva riesce a coprire in maniera adeguata tutti i lavoratori”. Leonardi non pensa solo “al 6-7% della forza lavoro rappresentata  dagli immigrati, la logistica, i delivery, la security nei locali ecc. I cosiddetti lavoratori ‘marginali’ che non sono coperti dalla contrattazione collettiva né in Italia né nel resto del mondo ma anche per tutto il resto della popolazione, i contratti collettivi non funzionano. Perché quando scadono non c’è nessun vincolo al loro rinnovo”. Leonardi sottolinea che, nel nostro Paese, non abbiamo solo un problema di salari bassi, ma anche di inadeguatezza dei salari alti.E quindi la stessa contrattazione decentrata mostra limiti evidenti.

Bruno Anastasia e Marco Leonardi aggiungono che, “nonostante i contratti coprano in Italia la quasi totalità dei lavoratori, il rinnovo degli stessi non si è dimostrato, nella media, in grado di mantenere i salari almeno in linea coi prezzi. Questo è successo anche perché il modello contrattuale appare inadeguato: da un lato, prendendo come riferimento un indice d’inflazione, l’Ipca, al netto dei prezzi dei beni energetici importati, non copre una delle voci che più grava sui bilanci familiari, e dall’altro, demandando la distribuzione dei guadagni di produttività ai contratti aziendali, offre questa possibilità solo a una minoranza di lavoratori”.

Andrea Garnero e Roberto Mania sottolineano   nel loro  lavoro: “i contratti collettivi, soprattutto in alcuni settori, si sono moltiplicati e contemporaneamente indeboliti, alimentando lo «shopping contrattuale», ovvero l’arte scegliere quello che conviene di più tra i mille contratti depositati al CNEL”. Gli stessi contratti nazionali non hanno retto alla spinta al ribasso. Le buste paga non sempre riflettono le cifre stabilite nei contratti collettivi. Senza dimenticare il vizio del sotto-inquadramento, quello di pagare a un livello inferiore rispetto alle mansioni che si svolgono. Oppure di «rosicchiare» l’orario di lavoro: far fare 20-30 minuti di straordinario non pagato ogni giorno, oppure non pagare domeniche e festivi”.

A mio parere limitarsi a proporre l’archiviazione del vecchio modello provocherebbe solo la tradizionale discesa in campo delle rispettive tifoserie con l’evidente risultato di non fare nulla fino alla prossima indagine sull’inadeguatezza dei salari. Io credo occorra  assegnare alle parti sociali il compito di  definire i criteri generali, prendersi in carico tutto il welfare collegato, i diritti fondamentali e i meccanismi di rinnovo. Tutto quello che non ha più senso spacchettare per singole categorie.

Quindi quattro contratti nazionali (industria, agricoltura, servizi e terzo settore) con un welfare contrattuale (sanitario, previdenziale, formativo) unitario, riunificando tutto ciò che ora è suddiviso per categorie. I pesi dovrebbero essere stabiliti attraverso la certificazione dell’effettiva rappresentatività.  Definita l’appartenenza a ciascuno dei quattro contratti, ogni sottocategoria, potrebbe negoziare i contenuti (salario, inquadramento, ecc.). Ogni azienda potrebbe poi scegliere se aggiungere o meno di propria iniziativa condizioni di miglior favore a livello di siti o negoziandole localmente con le organizzazioni sindacali. Welfare, modelli partecipativi e condivisioni di obiettivi o di risultati  e comunque tutto ciò che viene concesso a livello aziendale dovrebbe avere un trattamento fiscale e contributivo incentivante per le imprese che lo dovessero adottare e per il lavoratore coinvolto.  E, infine adottare una forma di tutela generale di base per  gli  esclusi da questo modello in grado di fornire all’intero sistema una base minima di riferimento. L’unica soluzione  possibile, a mio parere,  è far ritornare al centro un interesse comune e condiviso tra l’impresa e chi ci lavora. 

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