Quando il consumatore preferisce far da sé…

La Grande Distribuzione tradizionale ha stravinto la sua battaglia sul piccolo commercio. Non è un caso che oggi sia Confcommercio nella sua città simbolo, Milano,  a difendere le aperture festive mentre l’associazione principale della  GDO, Federdistribuzione,  magnanimamente, ne concede qualcuna alle richieste della politica  (e dei sindacati). Qualche manager, tra i più sensibili,  inizia a manifestare preoccupazioni per la numerosità delle nuove aperture. Altro tema di polemica nel novecento, sottratto ai piccoli esercenti e, senza dimenticare, l’infedeltà del consumatore, che, nel frattempo è passato da una o due insegne preferite a frequentarne almeno cinque o sei. I piccoli commercianti però non sono spariti. Sono ovviamente diminuiti. È rimasto chi si è saputo adattare al cambiamento richiesto. Sarà così anche per le insegne GDO con i suoi formati tradizionali. Avanzano gli specializzati sulla fascia alta dell’offerta, i category killer, i discount e iniziano a proliferare piccoli imprenditori stranieri che presidiano e accompagnano l’immigrazione soprattutto sulla fascia bassa. 

Anche I consumatori, da parte loro, cambiano abitudini. Oltre all’infedeltà di insegna sperimentano altre nicchie di opportunità e invitano  la stessa GDO a cambiare. Innanzitutto l’online.  Gli acquisti dal divano di casa.  I dati raccolti dalla ricerca del Netcomm NetRetail Focus Food, presentati durante il Netcomm Focus Food & Grocery, mostrano che i consumatori digitali italiani sono attratti soprattutto dalla convenienza e dalla facilità nell’esperienza d’acquisto online. Spese di consegna e contenimento dei costi di spedizione continuano ad essere un elemento determinante per la scelta del canale e-commerce seguiti dall’efficienza nei servizi di delivery e dalla velocità e dall’affidabilità nella consegna.

Inoltre, dalla ricerca E-commerce Flash Trends in Europe 2024 – Focus Food & Grocery, condotte da Netcomm in collaborazione con Foxintelligence by NielsenIQ, è emersa l’elevata fidelizzazione degli acquirenti nel settore alimentare: oltre il 70% degli acquisti nel 2024 è stato effettuato da clienti abituali, che continuano a preferire lo stesso canale per gli acquisti ripetuti. il mercato complessivo del Food & Grocery in Italia ammonta a 75,5 miliardi di euro nel 2024, con l’e-commerce che copre circa il 6% del totale, pari a 6,4 miliardi di euro. Nonostante una crescita media nei negozi fisici pari all’1,5%, il canale digitale continua a espandersi a un ritmo più sostenuto. Certo i numeri non sono clamorosi ma segnalano un trend con cui misurarsi visto che, a livello globale, il settore dell’e-commerce Food & Grocery ha segnato una crescita più accentuata, con un aumento del 22,8% nel 2024, raggiungendo un valore di oltre 680 miliardi di dollari. In Europa, il mercato ha raggiunto 71,5 miliardi di dollari, con una penetrazione in linea con quella globale destinata a crescere nel quinquennio 2025-2029.

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Contratti pirata: il CNEL fa chiarezza…

Pochi lo hanno sottolineato perché non è materia da suscitare interesse tra i non addetti ai lavori. Eppure il CNEL, con iniziative come questa che credo sia importante condividere,  dimostra una funzione indiscutibile. Un ente pubblico, terzo rispetto a imprese e rappresentanti dei lavoratori, pur presenti al suo interno, ma non estraneo alle dinamiche che lo animano, mette a confronto, i CCNL Confcommercio, Anpit, Cifa Confsal, Federterziario Ugl. (Federdistribuzione e Confesercenti sono praticamente simili a quello di Confcommercio) per valutarli nel merito e dare un peso al dumping contrattuale sottolineando l’urgenza che dovrebbe avere la materia della rappresentatività delle associazioni che, da entrambe le parti, siglano i contratti nazionali e rivendicano la rappresentanza di settori e lavoratori. Ricordo che oggi abbiamo realtà della GDO che applicano il CCNL Confcommercio, altre quello Federdistribuzione, altre ancora quello di Confesercenti e, infine, nella cooperazione, quello di Coop. E, giusto per non farci mancare nulla, al sud,  si sta  diffondendo quello siglato da ANPIT (e altre sigle) da parte di realtà locali significative.  

La Commissione dell’informazione del  CNEL presieduta da Michele Tiraboschi e composta dai rappresentanti delle associazioni principali ha promosso un  seminario a cui ha partecipato la professoressa Silvia Ciucciovino dell’Università di Roma Tre e del ricercatore dell’Università di Modena Giovanni Piglialarmi dove è stato  presentato un’esame comparativo applicato a quattro contratti collettivi (CCNL Confcommercio, CCNL ANPIT, CCNL CIFA Confsal CCNL Federterziario UGL). esaminando le ricadute economiche e normative per le imprese e i lavoratori. Qui la presentazione   “CCNL e competizione contrattuale nel settore terziario”.  E qui la presentazione  “Anatomia della contrattazione collettiva pirata. Spunti di riflessione sul dumping contrattuale in Italia”.

Proviamo semplicemente ad ipotizzare  se realtà come Conad, Esselunga, Eurospin, Lidl, per citare le più importanti del comparto, per difendersi da concorrenti spregiudicati decidessero di associarsi  all’ANPIT per applicarne  il relativo Contratto  passando, ad esempio al 4° livello, da una retribuzione di 1718,75 euro a 1304,55 del CCNL, livello D1. Senza contare le  maggiorazioni applicabili per il lavoro notturno (differenze del 5% fra i CCNL) per il lavoro straordinario festivo (differenza del 16%), nella maturazione di permessi retribuiti (da 104 ore annue a 32, a seconda del CCNL applicato). E i costi degli enti bilaterali per singolo inquadramento. Le  insegne leader risparmierebbero milioni  di euro sul costo del lavoro gettando alle ortiche un sistema di relazioni  industrali costruito faticosamente nei decenni passati.
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Nasce Unicoop Etruria tra speranze e preoccupazioni…

Quando penso al mondo della cooperazione mi viene sempre in mente la storia sufi degli indiani ciechi a cui viene chiesto di descrivere un elefante semplicemente toccandolo. Ovviamente ciascuno, a seconda di cosa tocca, descrive un animale diverso. La proboscide appare come un serpente, la gamba, una colonna. La coda è, infine  una frusta. Ognuno si intestardisce sulla propria descrizione e accusa gli altri di non saper presentare un insieme coerente.  La parabola mostra che la percezione di chi osserva (o di chi la vive in prima persona), pur essendo indiscutibilmente corretta,  rappresenta solo una modesta parte della realtà perché quest’ultima è ormai composta da esperienze e prospettive diverse.

Qualche decina di anni fa sarebbe stato molto più semplice. Oggi il temine “cooperazione” disegna certamente un perimetro comune di valori, una strategia che però  non riesce più ad avere una sola declinazione. Nel caso di Conad che conosco meglio, ciascuna cooperativa, pur provenendo da una matrice comune, è oggi ben altra cosa rispetto al giorno in cui Palmiro Togliatti, nel 1962, l’ha pensato  probabilmente per non lasciare campo libero ai democristiani tra i commercianti. I comportamenti agiti sul fronte del business ormai sono da leader di mercato locale e nazionale. Il tema dei costi e delle sinergie diventa ineludibile. Le Coop devono competere in un contesto molto diverso dal passato e questo vale in tutti i Paesi  dove il modello cooperativo, pur declinato localmente, si è affermato. L’essere cooperante è semmai un plus, spesso faticoso  da gestire. Non può essere però un vincolo che frena il sistema in un contesto altamente competitivo.

Bene  l’orgoglio per la maglia Indossata. C’è nelle multinazionali, nelle imprese padronali, ci mancherebbe non fosse presente, in misura maggiore,  nella cooperazione. Il punto, qui come altrove, è che ogni cooperativa, in mancanza di un collante condiviso di sistema, rischia di sentirsi più cooperativa delle altre. E quindi confondere quello che appare al proprio sguardo con l’orizzonte del sistema complessivo. Conad c’è già passata.

Il percorso di aggregazione tra Unicoop Tirreno e Coop Centro Italia deliberato dai rispettivi CDA va in questa direzione. La loro unione darà vita ad una delle più grandi cooperative di consumo in Italia con l’obiettivo di sviluppare sinergie e ottimizzare i costi. Il piano industriale prevede di costruire nei prossimi tre anni una grande cooperativa competitiva nell’Italia centrale forte di 800 mila soci. La fusione rientra nelle analisi cui è giunto lo scorso settembre il Distretto Tirrenico, come unica strada per rafforzare il brand Coop sui rispettivi territori. Unicoop Tirreno è una realtà attiva da 80 anni in Toscana, Lazio e Umbri, con 98 supermercati, 3.500 dipendenti e 510mila soci, mentre Coop Centro Italia, nata nel 1997, può contare su con oltre 270mila soci, 2.300 lavoratori e 76 punti di vendita in 7 province: Perugia, Terni, Macerata, Rieti, Viterbo, Roma, L’Aquila).

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Top Employer. È ora che i migliori facciano scuola nella GDO..

È un riconoscimento che certifica un impegno costante e quotidiano. Il Top Employer Institute  valuta  e conferma le pratiche HR eccellenti, condizione indispensabile per attrarre, coinvolgere e trattenere le migliori risorse umane.  Aggiungo che mette sotto i riflettori il lavoro delle direzioni risorse umane delle aziende. Solo cinque realtà  della GDO alimentare sono presenti. Carrefour, Lidl, Maiora, Metro e Penny. Aziende che investono sulla crescita loro capitale umano pur non rinunciando alle loro traiettorie di business. Il Top Employers Institute è l’ente certificatore delle migliori pratiche che coinvolgono la gestione e lo sviluppo delle risorse umane.

Nel 2025 sono 151 le aziende che hanno raggiunto o confermato  il titolo di “Top Employers”. Per ottenerlo occorre predisporre iniziative che puntino a migliorare l’ambiente di lavoro, a promuovere la crescita delle risorse umane garantendo benessere e inclusività al proprio interno. Da sottolineare che, tra le 151 aziende premiate, 48 hanno ottenuto anche la Certificazione Top Employers Europe 2025, riconosciuta a quelle realtà che si sono distinte in almeno 5 Paesi europei. Inoltre, 15 aziende sono state certificate Top Employers Global 2025, un traguardo riservato a chi si è affermato in diverse nazioni e continenti. Nella graduatoria italiana figurano aziende di spicco come Amazon Italia, Allianz SPA, Lamborghini, Astrazeneca, Unicredit, A2A, STMicroelectronics e DHL. Grandi nomi del panorama industriale e non solo, ma anche realtà del terziario di mercato che hanno migliorato negli anni il loro approccio alle risorse umane.

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Mercanti in Fiera a Marca 2025.

La Marca Del Distributore, per la GDO, ha ormai assunto le caratteristiche della “pietra filosofale”.  Sembra fornire un elisir di lunga vita per le insegne che la propongono e per le imprese industriali che ne condividono la partnership. C’è chi la interpreta come un successo  indiscutibile per la GDO. Chi come la “lepre” che, pur senza volerlo, stia tirando la volata ai discount. Chi rischia di  esagerare nel travestirsi troppo  da discount facendosi del male e chi, come Mauro Lusetti, presidente di ADM, nelle sue conclusioni alla conferenza di apertura di Marca 2025, la legge anche come un nodoso bastone che non è male tenere metaforicamente sul tavolo nelle trattative con l’industria di marca. Un dato però è indiscutibile. Girando per i capannoni della fiera di Bologna incontriamo un’energia imprenditoriale diffusa, caratteristica della nostra economia, che andrebbe dispersa   in mille rivoli se non fosse canalizzata dalla GDO. Piccole realtà industriali del Made in Italy, costruite intorno ad un’idea di prodotto che non varcherebbe i confini del territorio di produzione che spiccano il volo grazie ad un lavoro comune con la GDO nazionale e internazionale. Marca ne rappresenta plasticamente l’impasto riuscito. 

Ai due estremi, nel mondo,  troviamo da un lato la “No Name”  della catena canadese Loblaws, lanciata nel 1978, con un packaging anonimo nero e giallo e con la promessa di costare fino al 40% in meno dei prodotti di marca. Dall’altro sulla fascia alta Eataly che ha deciso di spendere addirittura il suo prestigioso marchio su numerosi prodotti garantendo direttamente il top di gamma della categoria. Se  si dimostrerà un azzardo o meno lo vedremo presto. In mezzo ai due estremi, tutti gli altri. Dalla fantasia dei marchi proposti dai discount fino a denominazioni studiate per suggerire ai consumatori il posizionamento premium del prodotto. Conad si presenta da leader della MDD con i suoi  6,3 miliardi di euro di fatturato, realizzati con oltre 700 imprese partner di tutta Italia. Oltre 5.300 referenze rappresentative di ben 300 categorie merceologiche, dai freschissimi, alla drogheria, fino al non food. Un vero e proprio elemento distintivo dell’identità del Consorzio.

A Bologna, i protagonisti c’erano un po’ tutti. Si aggiravano tra 9 padiglioni e 35.000 mq di esposizione in rappresentanza di oltre 1.300 aziende e 24 insegne GDO. Un’edizione da record che viaggia in parallelo con l’ottimo andamento della Marca del Distributore, in forte crescita. Gli ultimi dati Circana, registrano nei primi 11 mesi del 2024 un incremento a valore per la MDD del 2.4% a totale Omnichannel con circa 26,6 miliardi di euro di ricavi complessivi e 30 punti di quota. Aumento confermato nei volumi, che segnano un importante +3,3% (26 miliardi di euro di cui 14,2 GDO e 11,8 discount).

Resta il dubbio sul reale giro di affari. Alla domanda di Emanuele Scarci (Distribuzione Moderna) nell’anteprima milanese di  presentazione alla stampa, le risposte non sono state del tutto convincenti. Le singole insegne hanno dichiarato per il 2024: Conad 6,3 miliardi, Coop 4,5, Selex 2,3 e Despar 1. Solo queste 4 insegne totalizzano oltre 14 miliardi, senza contare Esselunga, VéGé e le altre. Cifre ben diversecdallecrilevazioni NielsenIQ. Mauro Lusetti ha ipotizzato  che potrebbero essere stati considerati, dalle singole insegne, prodotti non confezionati che non vengono rilevati da NielsenIQ. Mentre Valerio De Molli, ceo di Teha, ha detto che questa metodologia, pur parziale, è l’unico modo per rendere comparabili i dati italiani a livello europeo.

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Walmart ripensa all’Europa. E se cominciasse dal nostro Paese?

Noël Zierski, uno degli esperti della GDO mondiale che seguo con maggiore interesse ha avviato su LinkedIn una riflessione sulle possibili prospettive di Wamart. “Il rivenditore, numero 1 al mondo, è al top della sua crescita, i risultati del 3° trimestre 2024 mostrano indicatori in verde: Ricavi a +5,5% (169,6 miliardi di dollari nel trimestre) Utile netto a +8,2% E-commerce a +27% Retail media a +28% Un ROI molto alto del 15,1%! Il prezzo delle azioni è vicino ai 92 dollari, che è un massimo storico, che non si vedeva dal 1999. È aumentato del +200% in 10 anni”.

Dai legami con i ristoranti in negozio a un nuovo marchio del distributore, il retailer ha intensificato i suoi sforzi per distinguersi come destinazione gastronomica a 360°. Il formato Neighborhood Market by Walmart sta aggiungendo negozi e testando nuove sedi con offerte di generi alimentari ampliate. Questi e altri cambiamenti arrivano in un momento in cui il retailer sta intraprendendo un ambizioso piano di crescita quinquennale che include la costruzione o la conversione di oltre 150 sedi entro il 2029 e dopo aver ristrutturato un po’ meno di 700 negozi nel 2024. Per Walmart (e non solo) sono sempre più importanti le attività di complemento alle vendite tradizionali (la pubblicità, i servizi, la monetizzazione dei dati, ecc.). Tutte attività in evoluzione. E, sotto questo punto di vista, Walmart sta andando molto bene. Non solo sugli scaffali degli oltre 5200 negozi.

A Betonville  sanno benissimo che, se attaccati da discount e concorrenti, devono ampliare le loro aree di business e, la loro presenza nel mondo,  non limitarsi a difendersi nei loro negozi.  L’azienda dispone di una notevole potenza di fuoco: “Il debito netto di Walmart si aggira intorno ai 40 miliardi di dollari per un EBITDA annuo di circa 40 miliardi di dollari, il che gli lascia molto spazio per aumentare il debito”. Zierski azzarda: la tentazione di provare a sbarcare di nuovo in Europa, a Betonville potrebbe essere molto forte.  Oggi più dell’80% del business è negli States. Il resto è in Messico, America Centrale, Canada, India  e Cina. Più recentemente, ha attaccato il mercato giapponese, senza successo.

La tentazione potrebbe esserci, almeno “sulla carta”, di studiare l’opportunità di acquistare reti internazionali, al fine di alimentare la propria crescita e ridurre la propria dipendenza dai soli USA. Se non si è scoraggiata di fronte ai suoi fallimenti e se, soprattutto,  gli sono serviti da lezione, Walmart potrebbe pensare all’Europa, che resta un grande mercato, piuttosto ricco nonostante le difficoltà economiche. Le opzioni, per Zierski, sarebbero solo  due. Francia e Regno Unito. Questo perché in Germania Walmart ha già provato nel 1997 ritirandosi  nel 2006. Sul Regno Unito, ho qualche dubbio. Nel 2021 Walmart ha ceduto Asda Group Limited (“Asda”) dopo 20 anni, ai fratelli Issa e TDR Capital una delle principali società di private equity con sede nel Regno Unito, per un valore aziendale di 6,8 miliardi di sterline. Asda è un rivenditore britannico fondato nel 1949 che serve circa 19 milioni di clienti a settimana e attualmente impiega più di 146.000 persone in tutto il Regno Unito. Ha un’offerta multiformato e omnicanale, che vende i suoi prodotti attraverso una rete di 584 negozi di alimentari, 18 stazioni di servizio autonome e 33 negozi Asda Living e anche online. E ha un portafoglio immobiliare significativo. Perché cederla per poi rientrare poco tempo dopo? Leggi tutto “Walmart ripensa all’Europa. E se cominciasse dal nostro Paese?”

Altroconsumo. Una classifica parziale che però invita le insegne alla riflessione

Nella GDO ci sono classifiche per tutti i gusti. Non essendoci un valutatore terzo certificato,  ciascuno tira l’acqua al suo mulino.  C’è chi considera  l’insegna, chi ci aggiunge le centrali, chi guarda all’anno precedente, chi somma le acquisizioni, chi le sottrae  e chi scommette sull’anno che verrà. E se le cose non sono andate bene ciascuno ha la sua scusa. I fornitori, la meteorologia, il Governo  o i sindacati. I manager di provenienza  commerciale sono “ballisti” per costituzione. Per questi motivi le indagini, se commissionate,  analizzano  caratteristiche specifiche. Altre sono determinate dai numeri. Croce e delizia in un comparto dove si rischia sempre di comparare pere con mele. Nessuno guarda, ad esempio,  se qualche concorrente partecipa alla gara  “dopato” (paga o meno la giusta retribuzione ai dipendenti, il rapporto con i fornitori, ecc.). Tutte le indagini però, indipendentemente dalle loro conclusioni, ci dicono qualcosa di utile. Nessuna, va detto, ci dice come stanno veramente le cose. Per questo vanno prese per quello che valgono anche perché la business community, alle critiche, preferisce, come è ovvio, le lodi “costruttive”. E poi, gli estensori, “tengono famiglia”.

Poche danno la parola ai clienti. L’unica indagine che ne ascolta una particolare tipologia  più evoluta e  attenta ai consumi è quella proposta da Altroconsumo, un’associazione che interagisce con un’area  di oltre un milione di persone che segue le sue attività e ne condivide le campagne da qualche decennio anche attraverso una interessante rivista. Quindi comprende un profilo di consumatore particolare, esigente, attento e maturo. Uno spaccato dell’insieme. Meglio sottolinearlo in premessa per evitare le reprimende di chi si sente maltrattato o escluso. Su questa particolare popolazione  sono stati coinvolti circa 12 mila clienti attraverso un questionario online. Gli intervistati hanno avuto la possibilità di valutare fino a due insegne di cui sono clienti abituali. Questo ha determinato  quattro classifiche generali distinte:  una per supermercati e ipermercati a carattere nazionale (presenti cioè in almeno cinque regioni); una per i discount; una per le catene locali (insegne che, benché conosciute, sono meno diffuse sul territorio).  Una, infine, per i supermercati online.

Le insegne che hanno ottenuto un giudizio ottimo possono inoltre fregiarsi del   sigillo di Altroconsumo “Supermercato preferito dai consumatori” un gadget valutato positivamente da chi lo ottiene e banalizzato da chi resta a bocca asciutta. La storia della volpe e dell’uva, appunto.  È ovviamente una classifica sempre discussa e discutibile (soprattutto da chi non viene citato o arranca dietro i migliori) perché i clienti non sono tutti uguali così come giudizi e motivazioni che spingono a preferire un’insegna rispetto ad un’altra. Abitudine, convenienza, distanza, posteggio, qualità dell’offerta, promozioni, tempo e molto altro influiscono sulle preferenze. Resta comunque un indicatore interessante perché a parlare sono comunque  i clienti. Leggi tutto “Altroconsumo. Una classifica parziale che però invita le insegne alla riflessione”

Serbatoi di mano d’opera, difficoltà nei controlli e responsabilità delle imprese.

Per comprendere cosa muove la Procura di Milano nei confronti delle imprese committenti bisogna partire da  chi interagisce oggi sui piazzali della logistica interpretando i tre ruoli principali in commedia: il lavoro povero, chi lo tutela e chi lo sfrutta. Il lavoro povero è anche figlio dell’immigrazione. Decine di migliaia di uomini provenienti da luoghi diversi che dopo difficoltà di ogni genere vengono istradati, da un nuovo profilo di “caporale” che conosce l’ambiente, spesso appartiene allo stesso gruppo etnico, dentro cooperative cosiddette “spurie” che gestiscono il lavoro e, a volte, una sorta di sistemazione abitativa più o meno precaria. Caporali a cui i nuovi immigrati devono tutto o quasi che interagiscono sia con i responsabili delle cooperative e, non di meno, con le organizzazioni sindacali di base che vorrebbero tutelarne gli interessi. Le aziende che utilizzano determinati servizi logistici terziarizzati spesso si trovano di fronte questa situazione.

Queste cooperative offrono ovviamente prezzi altamente competitivi rispetto ad altre imprese che, più correttamente, applicano il CCNL della logistica e non il multi servizi, il più basso in circolazione,  e puntano ad  una gestione del personale più improntata alla selezione e alla retention delle risorse umane. Alcune di queste cooperative spurie vanno anche oltre. Nascono, muoiono e rinascono dopo aver sfruttato i lavoratori lasciando  buchi contributivi e contenziosi con l’agenzia delle entrate. A quel punto le persone che vi hanno a che fare vengono traghettate da un posto all’altro spesso inconsapevoli di ciò che è avvenuto sopra le loro teste per una questione di lingua, di necessità  o di fiducia in chi li gestisce. 

Quando questo equilibrio strumentale si spezza per qualsiasi motivo l’attività si blocca.  Nascono problemi di gestione interna alle cooperative, partono scioperi e blocchi delle merci improvvisi, interviene la magistratura. O perseguendo i malavitosi, o assolvendo i promotori dei blocchi o, infine, cercando di individuare, a mio parere, strumentalmente un legame tra committente e cooperative che spesso non c’è. 

Quando sento parlare di mancati controlli delle insegne, di fogli Excel con nominativi e turni, ricordo le enormi difficoltà con cui  mi sono dovuto misurare  a Lacchiarella dopo aver fatto costruire reti invalicabili per evitare improvvisi cambi di personale  nottetempo tra regolari e irregolari, visionato elenchi con migliaia di nominativi improbabili provenienti da Paesi dell’Africa sub sahariana impossibili da verificare  e subìto scioperi per aver cercato di bloccare il via vai di merce sottratta dai depositi. Questa volta è toccato ad Aspiag. Prima erano state coinvolte altre insegne a vario titolo.

Il punto di vista del PM Paolo Storari è quindi semplice e si riproduce in fotocopia. Per il magistrato, la responsabilità del reato è dunque condivisa comunque dal committente a cui viene comminata in partenza e a prescindere una forte sanzione. Quest’ultimo  anziché poter difendere le sue ragioni nelle sedi di giudizio deputate, è di fatto costretto a convenire in qualche modo e a correggere  in tutto o in parte una situazione di cui  non è accertata la responsabilità  seguendo le indicazione del PM perché solo così potrà continuare la sua attività. È, contemporaneamente viene sbattuto in prima pagina per subire una condanna popolare, a prescindere. La realtà però è più complessa. Ci sono, come in questo caso,  una o più cooperative che gestiscono i cosiddetti “serbatoi di manodopera” dove passano migliaia di lavoratori. I lavoratori di queste cooperative lavorano nei magazzini per numerosi committenti trai quali ci sono anche aziende della GDO. Vanno e vengono senza alcuna responsabilità dell’azienda committente né possibilità di controllo.

Nell’ultimo caso, che ha coinvolto l’azienda bolzanina, la Procura contesta un presunto reato,  alle “due agenzie del lavoro, che, secondo gli inquirenti, avrebbero omesso sistematicamente di versare contributi e oneri previdenziali dei facchini, accumulando in pochi anni debiti Inps e Agenzia delle Entrate per quasi 25 milioni di euro, e lo hanno fatto anche perché ‘la normativa in tema di appalti non contempla alcuna forma di responsabilità in capo al committente’ per ‘l’omesso versamento di ritenute fiscali e contributi previdenziali su personale somministrato’, come invece accade per le SRL o altre tipologie di impresa dove esiste la cosiddetta ‘responsabilità solidale’ del committente”. Leggi tutto “Serbatoi di mano d’opera, difficoltà nei controlli e responsabilità delle imprese.”

Sindacati USA e Amazon. Un rapporto complesso…

Il mondo Amazon è stato sempre posto sotto la lente di ingrandimento dei sindacati in ogni Paese. Al di là del fatto acclarato che le multinazionali, spesso per principio, provocano una diffidenza non sempre giustificata, l’azienda di Seattle, per la sua dimensione e per le problematiche che innesca muove interessi e attenzioni particolari. Amazon nel 2024, nel mondo, ha raggiunto 1.521.000 dipendenti tra tempo pieno e part-time. In Europa sfiora i 150.000 e in Italia arriva a 20.000 collaboratori. Anche per questo fa notizia quando in USA in particolare, o in altre parti del mondo emergono, indipendentemente dalla natura del contendere,  problematiche sindacali.

In questi giorni, agli onori della cronaca, arrivano i lavoratori del Philly Whole Foods Market nel centro di Philadelphia, uno dei negozi della catena di proprietà di Amazon, che il 27 gennaio 2025 voteranno  per decidere se aderire alla United Food and Commercial Workers International Union, secondo un avviso pubblicato il 5 dicembre dal National Labour Relations Board. Se i lavoratori scegliessero di aderire  all’UFCW, il punto vendita  di Philadelphia, diventerebbe la prima sede di Whole Foods sindacalizzata negli Stati Uniti. L’UFCW Local 1776 rappresenta i lavoratori dello stato della Pennsylvania per gli United Food and Commercial Workers. La maggior parte dei suoi membri lavora nei supermercati (il numero 1776 si riferisce all’anno in cui la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti fu redatta a Philadelphia).

Nel 2018, a pochi mesi dall’acquisizione da parte di Amazon, un gruppo di lavoratori di Whole Foods aveva inviato un’e-mail a quasi tutti i dipendenti del retailer esortandoli alla sindacalizzazione chiedendo l’istituzione di un comitato “interregionale” per affrontare le lamentele dei lavoratori nei confronti dell’azienda. I membri del personale all’epoca affermavano di non essere soddisfatti dei compensi e benefici, erano preoccupati per i licenziamenti in corso e temevano che questi problemi sarebbero peggiorati sotto la proprietà di Amazon. Non se ne è poi fatto nulla, praticamente  fino ad oggi.

In Amazon, il primo magazzino logistico è stato sindacalizzato nel 2022. Gli impiegati della sede di New York hanno votato a favore  nei 27 anni di storia del gigante dell’e-commerce. Non è stata una vittoria schiacciante, 2.654 voti contro 2.131, ma da quel momento  i circa 8.000 lavoratori del magazzino di Staten Island si sono potuti iscriversi alla prima Amazon Labour Union. Tutto è nato da Chris Smalls, un ex impiegato di Amazon licenziato in tronco a marzo del 2020 per aver organizzato una protesta contro l’assenza di misure anti-Covid nel magazzino di Staten Island. Leggi tutto “Sindacati USA e Amazon. Un rapporto complesso…”

Le difficoltà dei passaggi generazionali nelle aziende (anche) della GDO

Il tema del passaggio generazionale nelle aziende, non solo in quelle delle GDO  riguarda, nel nostro Paese, tre imprese su quattro.  Nei prossimi 20 anni, passeranno di mano, tra generazioni, circa  90 mila miliardi. Un trasferimento di ricchezza che comprenderà non solo patrimoni liquidi ma anche immobili e, soprattutto, partecipazioni in società familiari di diversa struttura e dimensione. Secondo una ricerca del Family Firm Institute nei prossimi 5 anni il ricambio generazionale riguarderà 1 azienda familiare su 5.  Duemilioni di imprese italiane nei prossimi 10 anni. Stiamo quindi parlando di un tema decisamente importante.

Per l’Italia rappresentano un asset strategico decisivo perché siamo il Paese con la più alta concentrazione di imprese familiari a livello europeo. I dati di Aidaf, l’associazione italiana familiy business, ci mostrano anche che le imprese familiari sono tra le più resilienti alla crisi. L’Osservatorio Aub (AIDAF, UniCredit, Bocconi) sostenuto anche da Borsa Italiana, Camera di Commercio di Milano MonzaBrianza Lodi, e Fondazione Angelini)    ha analizzato i dati economici di oltre 11.000 imprese familiari; i dati ne segnalano lo stato di buona salute. Dopo la pandemia sono cresciute in fatturato, redditività e in solidità.  Il tema non evidenzia soltanto un problema economico, di eredità che riguarda solo chi ne è coinvolto, ma anche storico, relazionale, culturale e quindi di legame con i territori di origine.

Imprese presenti in ogni settore, che sono state capaci di crescere grazie ad abilità distintive, flessibilità decisionale, cultura del lavoro, coinvolgimento dei collaboratori, leadership dell’imprenditore, con performance di crescita assolutamente straordinarie. Se analizziamo la personalità degli imprenditori della GDO di successo partiti dalla seconda metà del novecento in quasi tutti troviamo una leadership naturale molto forte, una capacità di osservare e focalizzarsi sui   dettagli, una rapidità decisionale, una predisposizione al rischio, una capacità comunicativa e di coinvolgimento, interna e esterna, un’etica calvinista del lavoro. Ovviamente caratteristiche presenti con pesi diversi nei soggetti presi ad esempio, a seconda del contesto economico e sociale di riferimento. Crescere e lavorare in Lombardia, in Campania o in Sicilia, non è la stessa cosa.

Caratteristiche individuali che non sono facilmente trasmissibili in un passaggio generazionale né spesso funzionali nell’educazione dei figli destinati a subentrare nel business. Delle imprese familiari coinvolte ogni anno in un passaggio generazionale, mediamente solo il 30% circa di esse sopravvive con la seconda generazione, solo il 12% con la terza, ed un esiguo 3% continua ad operare oltre la quarta generazione. Il 66% delle aziende familiari italiane ha un management composto da componenti della famiglia, contro poco più del 30% della media degli altri paesi europei. I top manager sono pochi e difficilmente godono dell’autonomia necessaria. Leggi tutto “Le difficoltà dei passaggi generazionali nelle aziende (anche) della GDO”