LIDL a Verona va a caccia di record…

L’innovazione ha molte facce. Le tre più significative, quella Tecnologica, quella ambientale e quella sociale sono destinate ad accompagnare le traiettorie commerciali delle migliori realtà della distribuzione moderna dalla logistica al cliente finale. In sintonia con il motto “In cammino verso il domani” Lidl, non solo in Italia,  sta cercando di costruire il suo percorso attraverso una filosofia precisa e comportamenti coerenti con l’obiettivo di contribuire a “preservare gli ecosistemi, garantire standard sociali nelle catene di approvvigionamento e promuovere il consumo sostenibile”. In Germania Lidl si è impegnata per una gestione sostenibile dell’acqua in agricoltura: entro febbraio 2026 il 100% del suo assortimento di frutta e verdura proveniente da nove paesi a rischio sarà certificato secondo standard idrici riconosciuti. I paesi includono Spagna, Egitto, Grecia e Italia.

Ritornando da noi, è interessante notare come,  una città di medie dimensioni come Verona si palesi come un crocevia di sperimentazioni nella GDO. Dopo Dao Conad che ha inaugurato, proprio nella città scaligera, il suo primo punto vendita senza casse dimostrando la vitalità e la flessibilità di quel mondo, la proposta di Lidl non è da meno sul tema della  sostenibilità. Apre quindi il nuovo Lidl a Villafranca di Verona: il supermercato più sostenibile mai realizzato dall’insegna in Italia le cui caratteristiche lo differenziano da tutti gli oltre 12.200 supermercati Lidl nel mondo ed è stato ideato e realizzato in Italia in stretta collaborazione con la Casa Madre. Un test che farà strada. Non solo il balcone di Giulietta, l’Arena e la Fiera. Adesso ci sono almeno due buoni motivi, per chi si occupa di GDO, per visitare la città.

Per capire la traiettoria dell’azienda tedesca occorre partire dalla sua strategia globale: “Il nostro obiettivo di responsabilità sociale d’impresa è fornire un ambiente sicuro e stimolante per i nostri dipendenti, contribuire positivamente alle comunità in cui operiamo ed essere buoni amministratori dell’ambiente”. Il nuovo Lidl di Villafranca sostituisce lo storico punto vendita  presente nella città  dal 1992. Uno dei primi punti vendita aperti nell’anno del suo arrivo in Italia. In contemporanea con Verona, Lidl apre  a Caltanissetta, Cesano Maderno (MB), Paullo (MI).

Il nuovo supermercato veronese presenta un’area vendita di oltre 1.300 mq ed è stato realizzato con grande attenzione all’ambiente e all’efficienza energetica. L’insegna ha costruito questo nuovo store a consumo di suolo zero riqualificando un’area dismessa dove sorgeva in precedenza una concessionaria di auto. L’edificio rientra in classe energetica A4, è dotato di ampie vetrate per favorire la luminosità naturale e dispone di un impianto fotovoltaico da 575.000 kWh/anno – corrispondenti al consumo di oltre 230 abitazioni. la struttura portante è costruita in legno proveniente da foreste gestite in modo sostenibile e certificate PEFC. Grazie al suo impiego è stato evitato l’utilizzo di 1.650 tonnellate di calcestruzzo. Il punto vendita dispone di un sistema di recupero dell’acqua piovana per uso irriguo che impiega cisterne sotterranee di raccolta. Tali cisterne alimentano il sistema di irrigazione dell’area verde consentendo una riduzione del 65% del prelievo da rete idrica. Anche l’acqua piovana che cade sul piazzale filtra lentamente nel terreno attraverso un apposito sistema drenante. Leggi tutto “LIDL a Verona va a caccia di record…”

Grande Distribuzione e infiltrazioni della criminalità organizzata..

Ben cinquantaquattro anni fa  Leonardo Sciascia spiegò a Giampaolo Pansa “la teoria della palma” per indicare l’espansione della mafia al Nord.  Era l’ottobre del 1970. Scrisse Pansa nel suo famoso Bestiario: “Andai a trovare Sciascia a Palermo. Tra le verità che mi offrì, una soprattutto mi colpì per la carica profetica. Lo scrittore mi domandò: “Conosce la teoria della palma?”. Ammisi di no. Lui proseguì: “Secondo una teoria geologica, per il riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all’anno. Per questo motivo, fra un certo numero di anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono”.

Gli chiesi: “Che cosa c’entrano le palme con la mafia?”. Sciascia sorrise: “Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l’Italia del nord. Tra un po’ di anni la vedremo trionfare in posti che oggi sembrano al riparo da qualsiasi rischio. E anche al nord la mafia avrà gli stessi connotati che oggi ha nel sud. Qui da noi il mafioso si è mimetizzato dentro i gangli del potere. Una volta in Sicilia c’erano due Stati, adesso non ci sono più. Quello della mafia è entrato dentro l’altro. Un sistema dentro il sistema”.

L’accusa ripiombata in questi giorni, suona come una sentenza di Cassazione. E per chi opera onestamente nel settore della Grande Distribuzione credo sia  un pugno nello stomaco: «Tutti i supermercati dell’hinterland milanese sono in mano alla ‘Ndrangheta, idem i locali di divertimento dove vanno i vip». Lo ha detto il Procuratore di Napoli Nicola Gratteri intervenendo a Palermo al convegno “Le rotte e le logiche del traffico internazionale di stupefacenti e le evoluzioni della criminalità organizzata transnazionale” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura, dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, con il Programma Falcone Borsellino del Ministero degli Affari Esteri.

Ben dieci anni fa, a Firenze, a margine di un convegno sull’usura, l’allora Procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Gratteri sottolineava:  “La ‘ndrangheta vuol comprare ciò che è in vendita da Roma in su, lo vediamo nel campo della grande distribuzione commerciale e della gastronomia”.  Con la  denuncia di questi giorni ha rilanciato, confermando come la malavita organizzata  è riuscita a infiltrarsi profondamente nel tessuto economico del nord Italia. Evidenziando però un “controllo” quasi totale sui supermercati situati nell’hinterland  di Milano, senza precisare fatti e persone, può  scatenare una cultura del sospetto generale che colpisce trasversalmente il settore e l’insieme delle insegne con gli imprenditori per bene che vi operano. 

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Auchan. Che succede in Russia?

È chiaro che alcune multinazionali  hanno sbagliato i conti scommettendo sulla durata limitata del conflitto scatenato dalla Russia, con l’invasione dell’Ucraina. D’altra parte l’esodo delle aziende, che ne è seguito, dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022, sembra sia  costato alle società straniere più di 107 miliardi di dollari in svalutazioni e perdite di entrate, come ha dimostrato un’analisi Reuters dei documenti e delle dichiarazioni aziendali. Chi è rimasto in Russia lo ha fatto nella speranza di una rapida vittoria di Putin. Non ha messo in conto  che un modello di globalizzazione era al tramonto e quella guerra ne rappresentava un forte segnale a cui ne sarebbero seguiti altri. Difficile, ieri come oggi, fare previsioni geopolitiche attendibili.

Auchan,  è in Russia dal 2002, ed è il terzo distributore  dopo Magnit e X5 Retail, ha ancora 30.000 dipendenti e 230 punti vendita tra ipermercati  e supermercati con i brand Auchan City, Auchan Supermarché e ATAK. E cosa di non poco conto in un conflitto militare, è attivo anche dall’altra parte della barricata,  in Ucraina, dal 2008 con circa 7.000 dipendenti e 43 punti vendita tra ipermercati e superstore. Auchan, a parte  l’Italia, che ha lasciato nel 2019, è una realtà importante a livello mondiale. Non solo nella GDO. È presente in 14 Paesi e in 3 continenti con un fatturato 2023 di 32,9 miliardi pur con una perdita di 379 milioni di euro.  Una grande azienda padronale solida economicamente pur con tutti i difetti tipici di queste realtà in termini di complessità decisionale, gestione delle cordate familiari e selezione del management.

La situazione in Russia si va però complicando. Le nazioni occidentali hanno congelato circa 300 miliardi di dollari delle riserve auree e valutarie della Banca di Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. La Germania ha nazionalizzato lo stabilimento tedesco di Gazprom, ribattezzandolo Sefe, e ha posto la raffineria Schwedt di Rosneft sotto amministrazione fiduciaria tedesca. La Russia ha promesso di reagire contro le proposte dell’UE di ridistribuire miliardi di euro di interessi maturati sui suoi beni congelati, avvertendo di conseguenze catastrofiche e affermando che qualsiasi tentativo di impossessarsi dei suoi capitali o interessi sarà ritenuto “banditismo”. Anche le banche occidentali sono preoccupate per le controversie legali che un’eventuale confisca potrebbe generare (vedi il caso della tegola giudiziaria in Russia per Unicredit. Il Tribunale arbitrale di San Pietroburgo e della regione di Leningrado ha posto sotto sequestro conti e proprietà della banca italiana per un valore di quasi 463 milioni).

Come ha giustamente sottolineato Luca Picotti su Startmag  uscire dalla Russia oggi non è solo  “una questione di scelta. È molto più complesso: ci sono equilibri tra ordinamenti giuridici, asset, conti e investimenti da tutelare, autorizzazioni da attendere, rischi di nazionalizzazioni e via dicendo. A volte è scelta, altre è geo-diritto. Non è tutto riducibile all’opportunità politica”. L’agenzia di stampa statale russa RIA ha calcolato che l’Occidente rischierebbe di perdere beni e investimenti per un valore di almeno 288 miliardi di dollari se Mosca dovesse reagire. Le nazioni UE detengono 223,3 miliardi di dollari di asset, di cui 98,3 miliardi di dollari erano formalmente detenuti da Cipro, 50,1 miliardi di dollari dai Paesi Bassi e 17,3 miliardi di dollari dalla Germania. Le aziende che ancora operano o fanno affari in Russia includono oltre ad Auchan, Mondelez International, PepsiCo, Nestlé, Unilever, Reckitt e British American Tobacco. Altri, tra cui Intesa Sanpaolo, si trovano ad affrontare ostacoli burocratici mentre cercano di andarsene. Leggi tutto “Auchan. Che succede in Russia?”

Federdistribuzione e il futuro del lavoro…

Parlare di futuro, presentare scenari e tendenze fa parte dell’attività di un’associazione. Federdistribuzione ha imposto una levataccia a molti per poter presentare a Roma ai suoi soci, nella sede del CNEL, i risultati di alcune ricerche commissionate dalla federazione stessa. Qualcuno, forse  ingenuamente, pensava che venisse presentata anche la strategia e i capisaldi della famosa “distintività” pretesa dalla Distribuzione Moderna, che giustifichi la presenza di un CCNL in concorrenza con altri. Così non è stato.

D’altra parte, il titolo dell’iniziativa era ambizioso: “Il lavoro nel settore Retail 2030. La sfida del lavoro sostenibile per i lavoratori e imprese”. L’impressione, leggendo il comunicato  che, al contrario,  ci fosse  voglia di parlare d’altro non avendo ancora nulla da raccontare di nuovo  sul tema della centralità di un CCNL appena firmato che avrebbe bisogno di una profonda rivisitazione.  In questi casi le presentazioni di contesto  aiutano. Sui dati, c’è poco da aggiungere. Uno  studio di PWC fotografa il settore distributivo che conta oltre 440 mila occupati, con un trend in crescita del +7% tra il 2018 e il 2022 mentre l’incidenza del part-time è del 44%; l’occupazione femminile raggiunge il 63%, superiore alla media nazionale del 42%. Non è chiaro quanto part time  involontario è femminile  e quale percentuale ricopre rispetto al  44% del totale del part time. 

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Il commercio cinese in Italia. Il caso Aumai

La recente ordinanza di custodia cautelare emessa dalla procura di Monza nei confronti di cinque persone di nazionalità cinese nell’ambito di un’inchiesta per frode fiscale in cui è coinvolta la catena di supermercati Aumai Shopping, attiva proprio  nel Nord Italia, mi dà lo spunto per riprendere e approfondire quella realtà. Sull’indagine, anche in questo caso bisognerà attendere la fine del percorso giudiziario per evitare  di emettere “sentenze” mediatiche. Credo sia però interessante capire le traiettorie di questa azienda e il suo proprietario, vero apripista del commercio cinese in Italia.

La Cina è da anni una potenza economica e uno dei principali partner commerciali per l’Europa e per l’Italia, in particolare. E questo nonostante le cronache sui prodotti contraffatti vedano a volte protagonisti negozi, rivenditori, distributori o produttori di origine cinese. Nella gara alla convenienza di insegna del no food non vanno mai sottovalutati. Per ora ancora cauti sul nostro mercato. Non ricordo l’anno ma ricordo ancora oggi la faccia dei colleghi  tedeschi, e non solo, quando si presentò un potenziale acquirente del negozio Standa di via Paolo Sarpi a Milano in piena Chinatown. Aveva un sacchetto in plastica di un supermercato concorrente zeppo di contanti. Essendo cresciuto non troppo distante da quella via, mi colpì più la reazione stupita dei colleghi del fatto in sé. In quegli anni la comunità cinese ancora molto chiusa in sé stessa  e guardata con sospetto dal resto della città, non usava ancora banche e computer. Trattava qualsiasi cosa in contanti. Ovviamente non se ne fece nulla.

Solo nel 2013, sfrattata Oviesse che era subentrata a Standa, i due piani furono venduti  a un imprenditore cinese molto noto nel quartiere che ne rivoluzionò la destinazione d’uso. Bisognerà aspettare il 2017 con la famosa offerta  da 7,3 miliardi di euro per l’acquisizione di Esselunga per assistere ad un tentativo in grande stile di ingresso nel nostro mercato. Una proposta importante, quella avanzata dallo Yida Investment Group per acquisire l’azienda  fondata da Bernando Caprotti, che era scomparso da poco, il 30 settembre del 2016.  La cifra messa sul piatto da mister Yida Zhang era del 25% più alta rispetto a quella confezionata l’anno precedente  dai fondi internazionali Blackstone Cvc che avevano valutato Esselunga tra i 4 e i 6 miliardi a seconda dell’inclusione o meno dell’attività immobiliare da rilevare insieme alla gestione operativa. Non se ne fece nulla. 

Oggi, mentre l’immagine pubblica della comunità  cinese resta  in parte caratterizzata ancora dalla loro  separatezza e chiusura, per noi, acquistare beni e servizi dagli esercenti cinesi è divenuta un’abitudine sempre più comune. Molto più accentuata rispetto a quella di acquistare nei negozi etnici. In realtà l’espansione delle attività cinesi permette oggi di trovare, anche nelle nostre città, delle eccellenze made in China. A Milano, Roma, Torino e in tanti altri centri urbani si sono diffuse attività gestite da  cinesi (bar e caffè, edicole, negozi di parrucchiere, ristorantini che offrono specialità locali o una variegata cucina multietnica, piccoli negozi di quartiere che vendono merce di vario genere agli abitanti della zona). Spesso con dipendenti italiani.

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Esselunga. Appalti e tensioni con i sindacati di base…

Capita, non solo nelle relazioni sindacali, di dover riflettere sulla differenza tra decisioni che nel breve risolvono un problema apparentemente irrisolvibile in altro modo ma, contemporaneamente, rischiano di complicarlo nel lungo periodo.  È la differenza tra tattica e strategia. Quando si parla di appalti, terziarizzazioni di attività e impatti sull’organizzazione, sia nel caso  di affidamenti esterni che di ripresa in carico spesso si sottovalutano le conseguenze sull’azienda, sulle persone e sui soggetti collettivi coinvolti.

Per le aziende il punto dirimente è rappresentato dal proprio modello organizzativo e quindi dal vantaggio o dallo svantaggio di gestire internamente  o meno una determinata attività nell’immediato e nel lungo periodo. Per le persone coinvolte, rappresenta la quantità e la qualità del lavoro e quindi il senso stesso del loro impegno   e per i sindacati esterni determina il ruolo, la credibilità e  il peso associativo. Tre punti di vista molto diversi tra di loro. Ogni intesa sottoscritta sul tema tende a modificare il contesto (in meglio o in peggio) per ognuno dei tre soggetti coinvolti. Comprendere questo aspetto e gestirlo  è fondamentale.  Altrimenti il problema è solo rimandato.

Nel caso di Esselunga a Biandrate, a Pioltello o nella sua complessa rete territoriale, l’aver “internalizzato”  alcune attività,  prima gestite da terzi o averle giustamente passata a partner più affidabili, ha chiuso una fase di tensione ma ha contemporaneamente creato aspettative sul lungo periodo a sindacati e lavoratori  di difficile gestione. C’è da dire, in premessa, che Esselunga ha sempre avuto ottimi Direttori Risorse Umane in grado di affrontare situazioni di tensione con le organizzazioni sindacali. Il tipo di attacchi a cui oggi è sottoposta l’azienda da formazioni sindacali estreme e la loro frequenza  farebbe pensare che questa capacità di gestione sia venuta  meno.

Aggiungo che, almeno a parole, sembra sempre che tutti i soggetti in campo  abbiano interesse a far emergere situazioni radicate nel tempo   per riportarle ad un livello di maggiore trasparenza gestionale. Vale per le aziende che vogliono superare situazioni passate, vale per i sindacati confederali che hanno un interesse ad andare oltre  impostazioni che non li hanno  visti protagonisti. Non vale, però, per alcuni sindacati di base, persone o gruppi che, nelle fasi che hanno preceduto la normalizzazione, possono aver ottenuto vantaggi nella gestione di orari e attività, piccoli e grandi favori personali, riconoscimenti economici  (a volte) anche sottobanco.  Non sempre i vertici aziendali conoscono o approvano tutto ciò che avviene nei “piani bassi” nell’organizzazione. E spesso alcune situazioni incancreniscono fino a essere percepiti come “diritti acquisiti” o abitudini consolidate da chi ne gode i benefici. Elementi che, in presenza di cambi di gestione o di organizzazione, vengono inevitabilmente in superficie e rimessi in discussione.

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Meglio i prezzi bassi o le promozioni nella GDO? Dipende dal cliente…

Mi è capitato di leggere recentemente un studio (pubblicato da Oxford University Press per conto del Journal of Consumer Research)  sulle preferenze dei consumatori in materia di strategie di prezzo dei retailer proposto da Chris Hydock, ex Georgetown University, oggi assistant professor di marketing a Toulane in Louisiana e al Politecnico della contea di San Luis Obispo (California) dove si indaga sulle ragioni che portano una parte dei consumatori a preferire i rivenditori Hi-Lo  rispetto ad altri consumatori che sembrano preferire i rivenditori EDLP.

In estrema sintesi e per chi non è del comparto la strategia High Low  consiste nel proporre offerte e promozioni in maniera più o meno continuativa a prodotti con un prezzo di partenza più alto. Quella conosciuta come Everyday Low Prices o EDLP (in italiano “politica dei prezzi bassi tutti i giorni”) è una strategia dei prezzi basata sull’offrire sempre ai consumatori dei prezzi bassi.

Non è un argomento che mi appassiona più di tanto, soprattutto perché conosco manager commerciali che stimo schierati su entrambe le barricate. E siccome i manager commerciali ad ogni livello pensano di avere sempre ragione, li lascio sfogare tra di loro. La tesi che oggi, credo,  sia prevalente è che l’industria di marca per convenienza privilegerebbe  le promozioni anziché abbassare i listini. Mario Gasbarrino ha sottolineato recentemente: “i soldi veri li hanno i produttori di Marca, che decidono di spenderli come vogliono”. “Il cliente” chiosa Gasbarrino “dimostrerebbe, dove e quando ne ha la possibilità, di gradire la trasparenza e quindi l’EDLP”. L’impressione è che, al contrario del cliente,  il mondo del retail si stia spostando verso l’Hi-Low.

Ovviamente entrambe le strategie presentano vantaggi e svantaggi visto il numero di  sostenitori della prima e della seconda.  L’interessante  conclusione a cui arriva lo studio USA e che la differenza, lato cliente, dipenderebbe, in gran parte,  dal fatto che i consumatori non sono tutti uguali. Lo studio  ha evidenziato una differenza nel modo in cui i consumatori si avvicinano alle opzioni di scelta. Alcuni si concentrano sui vantaggi qualitativi dei prodotti (differenziazione verticale): le loro scelte sono guidate dal livello di qualità ottenuto rispetto al prezzo pagato. Altri consumatori si concentrano sui vantaggi gustativi dei prodotti (differenziazione orizzontale): le loro scelte sono guidate dall’acquisizione di gusti personali a prezzi favorevoli. Leggi tutto “Meglio i prezzi bassi o le promozioni nella GDO? Dipende dal cliente…”

La Grande Distribuzione tra Robin Hood e gli sceriffi di Nottingham.

Robin Hood in realtà, lo sanno tutti,  non è mai esistito. Nemmeno  lo sceriffo di Nottingham che però, nella vicenda di cui è protagonista ne combina di tutti i colori. Nella saga,  alla fine viene perdonato da Re Riccardo nonostante la sua indubbia cattiveria nei confronti del popolo di Nottingham e di Robin Hood.  Quando in Federdistribuzione  sono rimasti con il cerino in mano qualcuno ha reagito cercando di rifiutare il ruolo del “cattivo” e respingendo, appunto l’idea, che l’eroe delle ballate inglesi del XII secolo venisse  interpretato in esclusiva da un’insegna tedesca.

Il contesto però era chiaro. I sindacati di categoria, ormai esausti dopo un tira e molla durato almeno quattro anni premevano per chiudere dopo la firma con  Confcommercio,  l’opinione pubblica e i media erano chiaramente schierati a favore della conclusione del negoziato e dulcis in fundo, più di un’insegna  aveva fatto filtrare in ogni direzione, sindacati compresi, la volontà di chiudere la partita. Pochi hanno capito l’inutile autogol mentre il film era già ai titoli di coda.

Più che prendersela con Robin Hood ci sarebbe  da interrogarsi su chi ha avuto la brillante idea del “rilancio” dell’ultimo minuto che, oltre a spiazzare alcune insegne, ha danneggiato inutilmente l’immagine di Federdistribuzione. Regalando così a Lidl, per la ragionevolezza della sortita e non per altro, l’attenzione dei media che, al contrario, avrebbe potuto essere condivisa. E quella sortita ha avuto addirittura più effetto mediatico della recente    decisione dell’azienda tedesca di anticipare in un’unica soluzione già nel mese di maggio 2024, l’una tantum che avrebbe dovuto coprire il passato ma che, chi ha gestito il negoziato, ha tignosamente voluto prevederne l’erogazione in due parti di cui una a luglio e una nel 2025.

Due negoziati (Confcommercio e Federdistribuzione) trascinati stancamente  nel tempo per carenza di leadership  nei rispettivi campi non potevano non concludersi prima o poi. Il vero peccato è di aver scelto entrambi di privilegiare la firma in sé alla ricerca  di una volontà di ripartenza comune. Quelle firme chiudevano un lungo periodo tra pandemia e inflazione e avrebbero meritato, a mio parere,  tutt’altra coreografia. Personalmente ho salutato comunque come un fatto positivo quel risultato. E lo confermo. Quindi volterei pagina evitando di soffermarmi all’elenco dei buoni e dei cattivi. 

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Milano guarda al futuro con Foody, l’hub agroalimentare più moderno d’Europa…

Il 21 giugno 2016 Beppe Sala è diventato sindaco di Milano succedendo a Giuliano Pisapia. Dal 2013 era stato commissario unico di Expo 2015 e amministratore delegato di Expo 2015 S.p.A dal 2010 al 2016. Beppe Sala ha spesso ricordato che “il primo dossier nel quale mi sono imbattuto quando sono entrato in Comune è stato quello sulla riqualificazione dell’Ortomercato”. Sogemi, dal 2005 circa ha visto 8 progetti di riqualificazione. Nessuno ha funzionato. Lo stesso processo decisionale alla base del progetto che si sta finalmente realizzando è durato circa tre anni.

Cesare Ferrero è tra i pochi che ci hanno sempre creduto. Fino al suo arrivo, tra inchieste per infiltrazioni dell’’ndrangheta, scandali vari e qualche arresto l’idea prevalente era che l’Ortomercato fosse una battaglia persa.  Sinonimo solo di capannoni in declino,  sfruttamento e illegalità. Il giornalista Paolo Berizzi ha fatto dei reportage su  lavoro nero, caporalato selvaggio e ricorso alle “braccia” degli immigrati irregolari che facevano emergere scenari inquietanti sulle attività “parallele” della struttura: “risse, turni di lavoro massacranti e sottopagati, lavoro nero senza garanzie e tutele”. Caporalato e lavoro nero erano però anche  la conseguenza delle disastrose condizioni strutturali e gestionali in cui si trovava la struttura.

Della Sogemi nessuno se ne era mai occupato con l’idea di affrontare e risolvere il problema. Sala sapeva benissimo a cosa stava andando incontro.  Mollare tutto o rilanciare. La scelta di Cesare Ferrero nasce da qui. Ex country manager di Bnp Paribas Real Estate Italia e altri prestigiosi incarichi con aziende di primo piano e con un passato da Professore di Finanza e Real Estate presso l’Università Bocconi. Adesso può finalmente tirare il fiato. Il profilo del nuovo ortomercato è molto “milanese”. Sobrio, essenziale, concreto. Resta il nome: Foody. L’unica concessione un po’ da “fighetto” voluta dal Presidente e sopportata da Beppe Sala.

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La Grande Distribuzione e i rapporti con la Politica e le Istituzioni a livello locale…

Nel film Quo Vado del 2016 il buon Liuzzi, un cacciatore pugliese ha bisogno della licenza di caccia. Va  in Comune portando con sé un piccolo omaggio (una quaglia da cucinare) per il funzionario pubblico interpretato magistralmente da Checco Zalone. Sta per consegnare la quaglia quando ha un ripensamento: “…Checco, ma non è che è corruzione?” “Uh la psicosi…Liuzzi” replica Checco  e prontamente risponde: “Corruzione è se tu NON HAI diritto alla licenza di caccia e vieni da me che sono il pubblico ufficiale e dici, senti ti do la quaglia se mi dai la licenza e noi non abbiamo fatto questo accordo. O no? “…Ma allora, non è che è concussione, insinua il povero Liuzzi? “Mhhh, Liuzzi.  Concussione è se tu HAI diritto alla licenza di caccia ma io ti dico no, mi devi dare la quaglia. Ti ho fatto per caso questa imposizione? No.  E quindi dammi la quaglia.

Non poteva essere spiegato meglio il confine del rapporto a volte trasparente a volte meno con la pubblica amministrazione. Soprattutto quando le esigenze di rapidità di un’impresa entrano in conflitto con la burocrazia ad ogni livello. L’ex sindaco di Lodi del PD, Simone Uggetti, finito in carcere nel 2016 con l’accusa di turbativa d’asta e assolto in via definitiva dopo oltre sette anni e quattro processi, commenta con l’Adnkronos l’arresto del governatore della Liguria Giovanni Toti: “Usiamo gli strumenti della giustizia per fare giustizia, non per fare pubblicità”. Una vicenda che all’ex primo cittadino suscita “amarezza per una sorta di ripetizione di un film di dubbio gusto”, confessa. Precisa ovviamente di non avere alcuna intenzione di entrare nel merito delle accuse mosse a Toti, perché “non ho gli strumenti né il titolo per farlo”. Vale per Uggetti e vale per il sottoscritto.

Vorrei però soffermarmi su un aspetto con il quale, chiunque ha avuto a che fare con lo sviluppo di un’insegna della GDO sul territorio, si è trovato, prima o poi a dovere fare i conti. È questo al di là delle vicende che ciclicamente spingono questa o quella insegna a risponderne. A volte nelle aule di tribunale.

Ricordo una lettera al Corriere di Bernardo Caprotti del settembre del 2013 dove l’ex patron sottolineava  “Noi siamo un’azienda  multiprovinciale che neppure riesce ad insediarsi a Genova o a Modena, per non dire di Roma ove io poco, ma i nostri urbanisti si sono recati forse 2.000 volte in dodici anni nel tentativo di superare ostacoli di ogni genere… …Per realizzare un punto vendita occorrono mediamente da otto a quattordici anni. Ecco la pallida risposta di un’azienda che di problemi ne ha troppi, che si avventura ogni giorno in una giungla di norme, regole, controlli, ingiunzioni, termini, divieti che cambiano continuamente col cambiare delle leggi, dei funzionari, dei potenti”… Leggi tutto “La Grande Distribuzione e i rapporti con la Politica e le Istituzioni a livello locale…”