Welfare aziendale e welfare contrattuale: quali prospettive.

Il welfare aziendale piace molto ai media. Ci fa tanto assomigliare alle grandi imprese di altri Paesi. Ci fa assomigliare a quelle realtà dove la dimensione aziendale, il sistema contrattuale e fiscale consente alle aziende di investire sul questa forma di salario indiretto che produce retention, clima positivo e integra l’intervento pubblico. In Italia rischia di essere un percorso sterile. Per quanto le aziende possano investire su questo filone la dimensione delle aziende, la distribuzione sul territorio di strutture pubbliche adeguate, i limiti dell’intervento pubblico presente e soprattutto futuro, in termini di assistenza e previdenza rendono difficile un approccio che fa perno sul singolo imprenditore. Per questo occorre puntare decisamente sul welfare di derivazione contrattuale. Consente economie di scala, opportunità che coprono grandi e piccole imprese, controllo sul piano della qualità dell’offerta. È strano come osservatori attenti si lascino sfuggire questa dimensione che già oggi coinvolge  circa cinque milioni di persone nei diversi settori merceologici. Capisco che oggi, tutto ciò che comprende tra i promotori le organizzazioni di rappresentanza, non è percepito come positivo e propositivo ma questo è. Fondi contrattuali come EST, QUAS, FASDAC solo nel settore del terziario rispondono alle esigenze di natura sanitaria di oltre un milione e mezzo di lavoratori dipendenti. Forse non fa notizia come la LuxOttica di Del Vecchio ma certamente risponde ad un problema sentito. Non nasce oggi ma nasce in anni dove la scelta tra salario diretto e salario accessorio non era facilissima da fare e dove, anche le organizzazioni sindacali dei dipendenti e dei dirigenti hanno convenuto con la Confcommercio scelte innovative. È strano che, proprio oggi, quando Confindustria si pone giustamente, e tra mille critiche, di seguire lo stesso percorso, si voglia sottacere i risultati già ottenuti nel terziario. Certo ci sono problemi di governance, di approcci burocratici da superare e di tenuta in prospettiva di alcuni di questi fondi. Ma ci sono problemi di strategia che potrebbero orientare le parti socie, a cominciare da Confindustria, Confcommercio e le associazioni degli artigiani a guardare avanti magari ipotizzando convergenze utili a costruire masse critiche simili a quelle presenti in alcuni Paesi europei. Ma una cosa è certa; questa è la strada da percorrere in Italia. Inseguire le pur lodevoli iniziative di singoli imprenditori non porta da nessuna parte. Occorre far crescere una cultura nuova che favorisca la creazione di fondi privati importanti che sappiano dialogare anche con il pubblico portando risparmi, razionalizzazioni ed efficienza nel l’erogazione dei servizi senza togliere alcun spazio agli interventi delle assicurazioni sul piano individuale. Comprendere fino in fondo i vantaggi che comporterebbe un consolidamento di una politica seria a sostegno della previdenza complementare. Per questo, credo, occorrerebbe dedicare maggiore attenzione a ciò che le parti sociali stanno facendo, individuarne pure limiti ed errori, ma evitando di gettare il bambino con l’acqua sporca. Progetti del genere modificano culture radicate, creano forme di collaborazione tra le parti, danno nuove prospettive e ruolo ai corpi intermedi. C’è molto da fare ma la strada è quella. Le scorciatoie, seppur benemerite, non portano da nessuna parte.

Declinare crescendo?

È vero. A volte quando osservi i comportamenti nei CDA di alcuni sindacalisti negli  enti bilaterali ti viene il sospetto che vivano fuori dal tempo. Lontani dalla realtà. Avendo fatto il DHR per tanti anni mi rendo conto che la capacità di comprendere i problemi concreti delle imprese, la rapidità necessaria a risolverli e  l’attenzione ad affrontare tutto ciò che non è noto e scontato sono caratteristiche sempre meno presenti. Anche il linguaggio è vecchio e di difficile comprensione per i non addetti, soprattutto se sono di altri Paesi. La stessa comunicazione spesso propone una caricatura della realtà, i toni sono quasi sempre esagerati e poco credibili e offrono soluzioni semplici ma quasi mai realizzabili nei modi e nei tempi proposti ai destinatari. I comportamenti incoerenti. Ad esempio tutte le deroghe in pejus consentite per i nuovi assunti (lavoro domenicale, turni, disagi vari) hanno creato un confine tra generazioni che non è più  stato colmato. Le stesse piattaforme contrattuali, i tempi di rinnovo e la distanza tra obiettivi e risultati spiegano bene la difficoltà nel costruire strategie e consapevolezze nuove tra i lavoratori. L’idea che del sindacato si può farne a meno è presente in molte aziende soprattutto là dove le imprese cercano di gestire in modo autonomo il rapporto con i propri collaboratori. Di fronte a chiavi di lettura molto tradizionali si consolida sempre più la voglia di fare a meno del loro contributo. Gli incontri si trasformano in liturgie della parola, i colleghi dirigenti delle altre direzioni (vendite, acquisti, logistica, ecc.) guardano noi DHR come professionisti della chiacchera e nell’impresa si consolida l’idea della irrilevanza e dell’inutilità del confronto con i sindacati. E spesso anche noi quando ci sediamo di fronte a loro partiamo prevenuti con la convinzione che stiamo solo perdendo tempo. In azienda, in molte realtà, si va senza di loro. Nel bene e nel male. Di Vico fa bene a porre il problema. Siamo forse già in una fase post sindacale. Personalmente non credo sia una buona cosa. E questo per varie ragioni. Non ci sono solo le aziende che propongono forme di welfare aziendale o che si occupano positivamente dei propri collaboratori. In Italia ci sono oltre quattro milioni di imprese. Proviamo a pensare come potrebbe essere una realtà senza contrattazione nazionale, senza equilibrio tra diritti e doveri, dove non esistono regole e dove se la cava il più furbo o solo chi è disposto a tutto pur di lavorare. Il sindacato è necessario in una società complessa come la nostra. Certo c’è chi ne puó fare a meno sia individualmente che collettivamente ma non è cosí per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Secondo me anche per le imprese è utile. Pensiamo solo al dumping contrattuale.  Detto questo possiamo discutere di quale sindacato avrebbero bisogno i lavoratori e le imprese oggi. Io ho le mie idee. Penso ad un sindacato che sa collaborare con l’impresa in modo nuovo. Che comprende e forma i suoi esponenti a capire il nuovo e ad affrontarlo senza paura. Intransigente sui principi ma aperto alle novità. Pronto a sperimentare soluzioni innovative e conscio che la stagione dell’obiettivo-lotta-risultato è finita. Oggi la stagione è condivisione-convergenza-risultato. Ma questa è solo una mia opinione. Al sindacato spettano le mosse che vorrà compiere e decidere le traiettorie conseguenti. Io, a differenza di Di Vico registro segnali nuovi. Nelle categorie dell’industria della CISL e in alcune aree del nord ma anche provenienti dalla conferenza organizzativa della CGIL vedo proporre riflessioni significative sia in direzione di un superamento della situazione di concorrenza tra sigle confederali sia nel merito. i rinnovi contrattuali la governance degli organismi bilaterali, il welfare contrattuale e gli accordi sulla rappresentanza possono costituire un passaggio importante. Speriamo venga colto da tutti.

Conferenza organizzativa CGIL: interessanti spunti di riflessione

Le conferenze organizzative sono un momento importante per le organizzazioni di rappresentanza. Lo sono ancora di più quando avvengono in momenti particolari nella vita del Paese. Nella relazione di Baseotto della CGIL ho trovato alcuni spunti interessanti sui quali mi sembra utile ritornare. Innanzitutto il linguaggio utilizzato l’ho trovato sufficientemente pacato. Poco spazio alla retorica, nessuna caricatura o semplificazione della realtà, puntuale presentazione delle proprie e legittime posizioni. Anche quelle meno condivisibili. Nel merito individuo alcuni temi su cui soffermarmi. Sulla rappresentanza condivido la tesi. Non abbiamo bisogno di una legge sul sindacato. Sarebbe un’inutile provocazione. Abbiamo bisogno di una buona legge sulla rappresentanza che traduca il confronto in atto tra organizzazioni sindacali e datoriali e che misuri la reale rappresentatività di tutti. Anche delle associazioni datoriali. Il secondo tema riguarda la riforma della contrattazione. L’enfasi che alcuni stanno mettendo sul tema è quella giusta? Il rischio che un decentramento non governato dal CCNL porti ad un “fai da te” che inevitabilmente apre a situazioni di dumping contrattuale è alto e quindi meglio sarebbe ridurre anche drasticamente il numero  dei Contratti Nazionali e definire con chiarezza le materie affidabili a livelli territoriali o aziendali. E questa è una posizione assolutamente condivisibile. In terzo luogo il tema dell’unità posto senza retorica e senza illusioni particolari. È interesse del Paese che il sindacalismo confederale ritrovi una strada unitaria, riformista e propositiva. Non si esce dalla crisi e non si affronta un contesto complesso e globalizzato con battaglie identitarie che hanno le loro radici in un passato che non c’è più. Abbiamo tutti bisogno di un Paese unito, diverso più collaborativo nelle sue componenti, aperto al mondo e ai problemi che il mondo stesso ci pone. Le organizzazioni di rappresentanza non sono formazioni residuali di un mondo che va scomparendo ma articolazioni importanti del tessuto sociale, economico e politico che devono contribuire a ridisegnare. Un altro tema sul quale non c’è stata reticenza ma proposta è quello della bilateralità e dei suoi strumenti discendenti dai rispettivi CCNL. Va sottolineato che, rispetto ad alcuni interventi del passato, non c’è nessun pregiudizio di fondo sul tema. Anzi. C’è però la determinazione di improntare il sistema alla trasparenza, all’efficacia e alla effettiva utilità dei servizi offerti ai lavoratori (e aggiungo io anche alle imprese). È una presa di posizione importante che va colta e resa concreta attraverso meccanismi di governance convincenti e diffusi nei territori. Infine la territorialità. Una grande organizzazione esiste se è radicata nel territorio.e questo vale per tutte le organizzazioni di rappresentanza. Anche per quelle datoriali. La reputazione, la riconoscibilità, l’iniziativa deve essere nel territorio. E soprattuto deve essere a rete riconoscendo a tutti i punti la stessa dignità di proposta e di iniziativa. In conclusione il tema della trasparenza su stipendi e pensioni, che mi sembra quello più colto dai media. Vale quanto già detto qui in passato. Separare il grano dal loglio senza se e senza ma. E anche su questo punto mi sembra molto netta la posizione espressa. Una relazione importante, quindi, utile per aprire un confronto a tutto campo. Speriamo trovi la convergenza necessaria con le altre organizzazioni e si trasformi in materia di confronto vero con il Governo e con le altre parti sociali.

È solo di Marchionne il successo?

Non c’è quotidiano che non sottolinei i successi del CEO FCA. Anche chi ha dovuto compiere una conversione di 360 gradi passando da critiche feroci e pregiudiziali al sostegno incondizionato. Ha certamente dimostrato di essere un ottimo manager e i risultati ottenuti sono evidenti. Per quanto mi riguarda c’è un però. La sua non è una vittoria solitaria. Ed è incomprensibile che, proprio lui, non capisca che nel momento del trionfo è sempre buona cosa dividere gli onori con chi lo ha reso possibile. Certo Renzi e il Governo sono stati alleati indispensabili e questo va loro riconosciuto. Ma non è abbastanza. Nella solitaria lotta contro la FIOM di Landini Marchionne ha trovato altri interlocutori sindacali cche hanno scommesso su di lui e sulle sue promesse rischiando la loro reputazione e, a volte, la loro incolumità. FIM, UILM e Fismic hanno sottoscritto e poi difeso (non subìto) gli accordi sottoscritti nelle assemblee e nei referendum accettando di passare agli occhi di media poco attenti come succubi di Marchionne, sindacati gialli e via discorrendo. Si sono dipinte all’esterno e sulla stampa le fabbriche come opifici dell’800, piegate e umiliate da un padrone delle ferriere dove solo la pistola alla tempia a ciascun lavoratore ha permesso lo scempio dei diritti e instaurato una nuovo concetto di schiavitù. Mi rendo conto che per molti sindacalisti, soprattutto quelli con cui condivido l’età Marchionne è un’anomalia evidente. Temo anche per molti dirigenti aziendali che si sono visti mettere in discussione e spazzare via in pochi istanti carriera e reddito. Ma Marchionne è un prodotto specifico di questa epoca, svelto, globale e opportunista. Inaccettabile per chi pensa di poter dettare tempi, modalità e contenuti delle relazioni industriali come fossimo nel secolo scorso. Marchionne aveva una strategia, una filosofia e un comportamento difficile da accettare e da condividere. Non ero presente al tavolo in cui si sono svelati i passi da compiere e quindi mi limito a osservare da fuori. Al sindacato non restava che accettare la sfida o scommettere sul fallimento e non sedersi nemmeno. C’è chi ha fatto la prima scelta e chi la seconda. Beh, Marchionne sbaglia a non condividere questo risultato con chi gli ha creduto e ci ha messo la faccia. Soprattutto la FIM CISL che ha il maggior numero di iscritti in azienda. È questo per due ragioni. Innanzitutto perché ammettere che esistono uno o più sindacati che nella collaborazione e nella conseguente sottoscrizione di intese hanno rilanciato un ruolo fondamentale  per il futuro dell’impresa e dei lavoratori  è semplicemente la verità. Nessuno può vincere da solo. In secondo luogo perché è interesse del Paese che cresca la consapevolezza e lo spazio per un sindacato riformista e collaborativo che sa difendere gli interessi dei suoi rappresentati in modo efficace se pur diverso dal passato. Nel mondo globalizzato il lavoro in un Paese si difende anche creando alleanza nella filiera nella quale l’azienda è inserita fuori da logiche classiste. Altri si dedicheranno, legittimamente, alla costruzione di sindacati che continuano a trovare nel conflitto e nella contrapposizione la loro ragion d’essere. Ma non legittimare i primi è un errore che un manager del livello di Marchionne non dovrebbe commettere.

Collaborare è meglio di partecipare…..

Quando si parla di partecipazione dei lavoratori nell’impresa riaffiora la solita discussione sul modello tedesco. Anche Susanna Camusso lo riprende nell’ultima intervista alla Stampa indicandone anche due temi su cui indirizzare la discussione: investimenti e organizzazione. Cioè due temi dove non ci sarà mai, in Italia, una disponibilità vera delle imprese. Si potrà parlare di comunicazione preventiva, di collaborazione finalizzata ad affrontare il mercato ma, fino a quando la cultura sindacale non avrà decisamente imboccato la strada della condivisione dei valori e della cultura delle imprese non ci saranno passi avanti. E Susanna Camusso lo sa bene. Quindi il discorso sulla partecipazione tedesca o italiana resta ancora nel campo della propaganda. La vera sfida dovrebbe essere quella di prendere atto che una stagione si è chiusa e contribuire a ridisegnare nuovi confini (piú ridotti) per l’attività sindacale. Certo è difficile per chi ha vissuto l’epopea degli anni 60 ma sarà inevitabile. L’unico modello di partecipazione che si è affermato negli anni da noi, il professor Baglioni lo avrebbe chiamato di “partecipazione concessiva”. Un modello che non mette in discussione le scelte aziendali ma le accompagna cercando di attenuarne i possibili effetti negativi sui propri rappresentati. Oggi, sulla carta, è possibile occuparsi di tutto e quindi il rischio è che non si conti nulla su niente. Certo si può sempre lasciar fare le imprese restando in panchina senza condividere alcunché. Però un sindacato che non si confronta, non discute e non sottoscrive accordi non serve a nessuno. Per questo piú che parlare di partecipazione (tedesca o italiana) io parlerei di collaborazione allo sviluppo delle imprese e del lavoro. Si sta aprendo un dibattito interessante nella Cisl, nelle sue categorie e in alcune importanti strutture sul modello di sindacato dei prossimi anni. Forse è il caso di partire da lì. Non c’è una soluzione e ci sono enormi diffidenze da superare anche in campo imprenditoriale. Una cosa però è certa: il taylorismo ha imboccato il viale del tramonto e si sta portando con sé la vecchia cultura novecentesca che ha permeato le relazioni sindacali, i modelli contrattuali  e il lavoro sia sul piano della qualità che della quantità. Lasciare che la globalizzazione e il mercato ridisegnino il nuovo perimetro è un errore. E non sarã né un accordo tra le parti sulla rappresentanza né un accordo sui livelli contrattuali a cambiare la direzione di marcia che ha preso il Governo. Così come i rapporti di forza, sicuramente asimmetrici, che oggi spingono le imprese verso modelli ben diversi da quelli auspicati da chi crede nell’equilibrio e nel confronto. Non c’è molto tempo perché nei prossimi mesi si determinerà la direzione di marcia, Per le organizzazioni di rappresentanza (datoriali e dei lavoratori) si apre una fase importante. L’importante è non sprecarla.

Manager sarà lei!

Se pensiamo al recente dibattito sulla “buona scuola” o quello sulla sanità italiana la parola manager, presso parte dell’opinione pubblica ha un accezione certamente negativa. Chi rivendica maggiore managerialità nel settore pubblico spesso viene spinto a dover scegliere tra efficienza ed efficacia, tra cultura aziendale, intesa come cultura del costo come priorità, e cultura del servizio, quasi come questi mondi fossero sempre e comunque inconciliabili. Gaber si inserirebbe in questa disputa ricordandoci forse che l’efficienza è di destra mentre l’efficacia è certamente di sinistra. È una discussione che segnala un modo di pensare abbastanza radicato e diffuso nel nostro Paese. Non tanto e non solo nel settore pubblico. La scarsa presenza manageriale nelle piccole e medie imprese rappresenta un altro segnale evidente. Il nostro sembra essere, per certi versi, un Paese di imprenditori e lavoratori autonomi che vogliono o che cercano di fare da sé e che individuano come potenziali concorrenti nella divisione del reddito disponibile, pensionati, lavoratori pubblici e dipendenti (manager, impiegati e operai) delle grandi aziende, soprattutto del nord. Salvo eccezioni circoscritte i dati sembrano confermare questa situazione. Questa peculiarità ha contraddistinto la storia economica del nostro Paese ne ha evidenziato i suoi limiti ma ne anche rappresentato la sua forza. Mi ricordo negli anni ’70 una battuta di un imprenditore che, fino a quel momento aveva resistito ad assumere un manager esperto di marketing che si visto accogliere con questa frase: “Si ricordi che la nostra azienda è diventata importante senza il marketing, vorrei continuasse ad esserlo, nonostante il marketing”. Personalmente credo che, fino all’avvento della globalizzazione, questa peculiarità poteva resistere e mantenere un suo tratto distintivo. Non se lo può più permettere in un’epoca come quella che si è aperta. E questo vale sia nel settore pubblico che non ha più risorse da sprecare ne da investire che nella piccola e media impresa che, per crescere e misurarsi con il mondo, ha bisogno di cultura, capacità e competenze che sono connaturate più alla figura del manager che del piccolo imprenditore tradizionale. L’azienda nella filiera nella quale è inserita sta cambiando. Deve saper dialogare con il mondo e integrarsi nel territorio di cui è espressione. Deve valorizzare capacità e competenze dei propri collaboratori siano essi manager o altro, deve porsi diversamente con fornitori e clienti. Deve saper sviluppare partnership adeguate alle sfide che ha di fronte. Deve saper interpretare un ruolo imprenditoriale diverso dal passato. Meno autonomo e individualista più collaborativo e intraprendente. Deve essere lui stesso in qualche modo un manager e saper interagire con manager preparati che possono portargli visioni e punti di osservazioni del mondo e del business più aperti. Così come nel pubblico dove la cultura manageriale è indispensabile per gestire e razionalizzare le risorse economiche e umane a disposizione. Ma anche i manager, però, devono cambiare. Lavorare in una piccola impresa non è come lavorare o interagire con colleghi in una multinazionale. La dimensione produce una cultura diversa, dove la sostanza, la rapidità e la capacità di risposta ai problemi è più di tipo imprenditoriale. È l’esempio personale, la conoscenza concreta del problema, la capacità di proporre soluzioni innovative ma praticabili e di sapersi assumere le proprie responsabilità che fanno premio sullo status o sul proprio percorso professionale. L’esperienza e la conoscenza di un problema non sono sufficienti se non utilizzate per convincere e coinvolgere. In questo sta la qualità di un manager: sapersi confrontare con la realtà, offrire soluzioni praticabili e creare il clima interno adatto alle sfide da affrontare. E, ultimo, ma non ultimo, la capacità di gestire il proprio capo che, in questo caso non è un manager a sua volta in carriera ma è il proprietario dell’azienda. Nel pubblico, ovviamente, le cose sono diverse. Non c’è l’imprenditore, il business e il mercato. C’è però una cultura che deve affermarsi e crescere. Quella del bene collettivo, dell’etica del lavoro e della centralità del cittadino. Anche su questo un manager non si improvvisa. Servono anni, formazione, valutazione e strutture che possano aiutare la creazione di una classe di manager diversa, aperta e desiderosa di portare le risorse umane di cui ha la responsabilità alla realizzazione degli obiettivi a loro assegnati. Serve una nuova cultura del merito e dello sviluppo delle risorse che nel pubblico è ancora lontana dall’essere immaginata, decisa e praticata. Deve avere nel proprio DNA una capacità di collaborazione positiva tra le diverse componenti in campo e un approccio costruttivo con le organizzazioni sindacali senza esserne succube. Nel caso delle piccole e medie imprese un ruolo importante potranno esercitarlo le organizzazioni datoriali e manageriali con iniziative specifiche formative, di comunicazione e di proposta. Nel settore pubblico è forse necessario un salto generazionale e culturale anche dei manager e un diverso ruolo tutto da costruire. È solo così che il termine “manager” potrà assumere, per tutti, una valenza positiva e riprendere quell’importanza che deve avere in una società moderna, complessa e globalizzata come la nostra.

Caporalato, proclami e soluzioni

un fenomeno radicato che può contare su connivenze di ogni tipo non si estirpa in quindici giorni. E chi ha responsabilità farebbe bene a non lanciare messaggi superficiali che rischiano di essere recepiti come tali dal territorio e da chi dovrebbe far seguire fatti alle parole. Lo sfruttamento dei lavoratori agricoli nel sud, migranti o meno, non nasce oggi. Oggi, semmai, si mostra in tutta la sua crudezza e impedisce di voltare altrove lo sguardo. È una delle facce più feroci del lavoro nero che, in molte realtà del sud, è ancora la modalità prevalente di accesso al lavoro. Durante la selezione di addetti per un’azienda della grande distribuzione in diverse realtà del sud, quindi in un settore lontano dall’agricoltura, mi è capitato spesso di sentirmi chiedere se la retribuzione proposta in fase di assunzione fosse “con o senza assicurazione” cioè con o senza i contributi. E alla mia reazione di sorpresa  mi veniva spiegato che era assolutamente normale  sentirsi proporre assunzioni in nero. Figuriamoci dove non esiste un minimo di società civile, dove l’indignazione è un lusso che non tutti possono permettersi, i controlli sono frammentari o inesistenti, il contesto è socialmente degradato e infine dove i soprusi e la presenza malavitosa sono assolutamente normali. In più parliamo di lavoratori migranti, spesso senza permesso di soggiorno e quindi ancora più esposti al ricatto e ai soprusi. Per questi motivi non c’è una soluzione semplice. Occorre agire su più piani. Innanzitutto sul territorio non è vero che c’è il nulla. Ci sono le istituzioni sia a livello locale che regionale, i sindacati e le associazioni datoriali che ben conoscono la realtà, le reticenze e le connivenze presenti, con le quali va costruito un possibile piano di intervento misurandole su proposte e coerenze. In secondo luogo va coinvolta tutta la filiera (non solo la produzione) nella quale il prodotto raccolto trova il suo sbocco di mercato fino al consumatore finale. E ciascuno deve essere in grado di garantire che il passaggio di cui è responsabile (a cominciare dal prezzo finale del prodotto) sia certificato e coerente con l’intero processo, se condiviso. Poi i controlli che dovranno essere incisivi con sanzioni e pene adeguate e prevedere premi per chi denuncia e aiuta a smantellare queste reti. Ultimo ma non ultimo la trasparenza nel collocamento, la tipologia contrattuale più idonea, gli eventuali sgravi contributivi finalizzati, l’ammontare della retribuzione e la certezza che finisca nelle tasche del lavoratore. Infine occorre considerare che il problema dell’alloggio e dei trasporti nelle campagne non va sottovalutato perché anche su questo i caporali costruiscono il loro potere assoluto. Non si deve però partire da zero. Nel settore delle costruzioni si è affrontato un tema analogo in termini di utilizzo dei lavoratori anche immigrati e, pur con una serie di limiti e reticenze, la situazione è certamente migliore anche grazie alla presenza della cassa edile. L’importante è non illudere nessuno che la soluzione sia semplice e a portata di mano. Sarà una partita lunga e complessa ma utile a dimostrare anche la volontà di sviluppo e di riscatto del mezzogiorno.

Gestione risorse umane e Jobs Act: quali sono i veri problemi delle imprese?

purtroppo siamo presi troppo dai numeri. Successo e fallimento del Jobs Act sembrano dipendere dalla quantità di assunzioni a tempo indeterminato (o a tutele crescenti) che si produrranno che, indipendentemente da tutto, restano un falso problema. Nonostante tutti concordino (a parole) che l’occupazione dipenda dalla ripresa economica l’interesse resta fisso sui numeri. Parliamoci chiaro. Alle imprese questa competizione non interessa. Prima, durante e dopo questo provvedimento alle aziende interessava e interessa che vengano affrontati alcuni problemi di contesto e specifiche ma sostanziali modifiche legati alla gestione conncreta delle risorse umane. Innanzitutto la forbice tra costo del lavoro e retribuzione netta. Così com’è oggi non è più sostenibile nel rapporto tra azienda e collaboratore. Inoltre c’è la necessità che una parte consistente della retribuzione dovrebbe essere legata all’andamento dell’azienda e del mercato con i relativi sgravi fiscali. E su questi due temi le aziende non possono che registrare un sostanziale rinvio negativo legato alla discussione sui livelli contrattuali, alle proposte di riforma e via discorrendo che dovranno trovare risposte probabilmente  in un accordo interconfederale con l’avallo del Governo per quanto riguarda l’entità degli sgravi fiscali. Infine gli ostacoli gestionali. Per le imprese è fondamentale limitare la rigidità del rapporto di lavoro in entrata e in uscita, avere un tempo di valutazione delle risorse inserite più congruo rispetto ai periodi di prova previsti nei CCNL e, infine, la possibilità di risolvere i rapporti di lavoro che non funzionano in modo meno oneroso e, perché no, meno trumatico. Il successo del Jobs Act come strumento utile per le imprese si misura su queste problematiche. A nessuna impresa interessa assumere senza una corrispondenza con una necessità precisa così come a nessuna azienda interessa licenziare collaboratori sui quali si è investito. Nelle aziende il clima è tutto. Se è positivo i risultati arrivano se è negativo, no. E il clima non si costruisce né sui rapporti di forza né sulla subalternità fine a se stessa. Si costruisce e si mantiene se gli obiettivi e le regole del gioco sono chiari e condivisi. Per questo trovo di difficile comprensione il valutare il Jobs Act dal numero di assunzioni a tempo indeterminato che produce o dai costi che inevitabilmente determina. Se un’azienda ha bisogno di incrementare l’organico è perché scorge una prospettiva di crescita e di sviluppo. E questo resta l’unico modo per assicurare una prospettiva certa anche al collaboratore.

I corpi intermedi oltre le caricature

ci risiamo. Adesso tutte le responsabilità e i ritardi di questo Paese sarebbero da addebitare al Sindacato. Il Presidente di Confindustria, ma non solo lui, ritorna su un vecchio luogo comune. Il Sindacato, tutto il Sindacato senza alcuna distinzione non sarebbe in grado di cambiare e di muoversi alla velocità imposta dal contesto. E, questa volta, lo afferma un imprenditore che ha fatto del dialogo e del confronto con le parti sociali un suo tratto distintivo nella gestione delle sue aziende. Perché dirlo ma, soprattutto, perché dirlo ora quando il confronto sul modello contrattuale e sulla rappresentanza sta ritornando al centro del dibattito. Squinzi non parla a caso e il luogo da cui ha lanciato questo messaggio è estremamente significativo. Personalmente credo che uno dei meriti fondamentali di Squinzi sia quello di aver archiviato definitivamente la stagione degli accordi separati. Fin dall’inizio del suo mandato il messaggio è sempre stato chiaro: Confindustria tratta con il sindacato confederale e non con parte di esso quindi o evolve in chiave unitaria tutta l’interlocuzione o non ci potrà essere alcuna interlocuzione. Molti hanno letto, sbagliando, questa posizione come uno schiaffo alla CISL e una forte apertura di credito nei confronti della CGIL di Susanna Camusso alle prese con l’opposizione interna della FIOM di Landini. Un’opposizione interna più mediatica e chiacchierona che concreta in grado, però, di provocare la reazione della Fiat e l’uscita da Confindustria della stessa. E questo per Squinzi era ed è un problema vero. E quindi una CGIL in grado di ritornare a firmare accordi e ad esercitare il suo ruolo nel sistema di relazioni industriali a livello nazionale avrebbe comportato un rinnovato ruolo di Confindustria sia sul fronte interno che esterno. E questo risultato è stato sicuramente raggiunto. Poi però è arrivato Renzi con la sua carica di insofferenza nei confronti di tutti i corpi intermedi anch’egli  indisponibile a percorrere una strada di accordi separati con i sindacati. E questo non tanto perché condivideva la scelta del Presidente di Confindustria di spingere il Sindacato verso una posizione unitaria e costruttiva ma per poterlo trasformare in un avversario superabile, lento nelle decisioni e facile da accusare di conservatorismo e di essere uno dei freni alla crescita e allo sviluppo del Paese. Due strategie diverse che in comune avevano solo la messa in soffitta la stagione degli accordi separati. Più concreta e orientata a ricostruire un contesto utile quella del Presidente di Confindustria, più finalizzata alla rottura di equilibri consolidati e quindi anche del rapporto tra organizzazioni datoriali e sindacali quella di Renzi. La strategia del Presidente di Confindustria, condivisa anche dalle altre organizzazioni datoriali, ha sostanzialmente funzionato, la CGIL è tornata al centro della scena, ha firmato anch’essa l’accordo sulla rappresentanza e, nel Terziario, l’importante CCNL che nelle due tornate precedenti era stato firmato solo da CISL e Uil di categoria mettendo in un angolo Landini e la sua strategia politica di opposizione sociale. Oggi nessuno ipotizza il ritorno alla stagione degli accordi separati. Ovviamente il Presidente di Confindustria non era e non è mosso dalla volontà di limitarsi a ricostruire il sindacato unitario, ci mancherebbe. Il suo obiettivo era di ricostruire una apparente simmetria nella relazione dentro la quale poter perseguire i propri obiettivi. Anche perché i rapporti di forza oggi sono indiscutibilmente a favore delle imprese. Rappresentanza e rappresentatività di chi sottoscrive gli accordi, procedure di raffreddamento del conflitto, regole di approvazione dei contratti, decentramento di parte dei contenuti della contrattazione sono gli obiettivi nei confronti del sindacato. E questi obiettivi sono realizzabili o attraverso un’intesa che in questo momento si presenta difficile o attraverso una legge. Da qui i toni (quasi di sfida) dal palco della festa  azionale dell’unità.  E da qui il messaggio di sostegno al Governo sul fisco. È una mossa forte per restare in gioco. Al sindacato manda a dire, sbrighiamoci altrimenti se ne occuperà la politica con tutti i rischi conseguenti e al Governo che l’appoggio di Confindustria è fuori discussione ma è condizionato dai risultati concreti che si otterranno sul fisco e non dai proclami. Di fronte non tanto a questa sortita ma a ciò che questa sortita significa il sindacato deve rispondere non già scendendo sul piano della legittima polemica ma trovando le risposte e le strade per ricostruire un serio cammino unitario su proposte praticabili. Tutti i corpi intermedi sono ad un punto critico del loro percorso. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” era un vecchio slogan della CISL. Sono passati piú di vent’anni. Questo è il punto vero. Ci sono segnali incoraggianti. Dai sindacati dell’industria della CISL, da alcune regioni del Nord dove cresce la consapevolezza che occorre fare un deciso passo avanti. In questi anni la deriva identitaria ha impedito l’affermarsi di una nuova cultura condivisa e praticabile fuori dai propri confini organizzativi. Ma il sindacato, tutto il sindacato come gli altri corpi intermedi hanno una vitalità e una capacità rigeneratrice spesso sottovalutata da chi non li frequenta da vicino. E questa vitalità presente soprattutto nei territori è destinata a produrre esigenze di cambiamento e di innovazione. Io credo che, quando la polvere della polemica si abbasserà e lascerà il campo alle proposte e al negoziato lì occorrerà essere presenti con idee e strategie praticabili. Questo è quello che conta.

Il jobs act tra luci e ombre.

ancora una volta i numeri rischiano di trasformarsi nel giudizio di Dio. Lo scontro tra favorevoli e detrattori è ormai al calor bianco. Gli interventi si sprecano. Il Jobs act genera assunzIoni o sono gli sgravi fiscali che spingono le aziende a scegliere il contratto a tutele crescenti? È corretto mettere a disposizione una massa di sgravi così rilevanti alle imprese senza che queste risorse generino assunzioni aggiuntive? La sospensione dell’art. 18 era proprio necessaria? Dall’altra parte diversi esponenti del Governo e dei partiti di maggioranza con dichiarazioni ottimiste e rassicuranti che, ogni mese, ci raccontano la loro versione. in mezzo la credibilità del nostro Paese. Il Jobs act ha un indubbio valore simbolico che va ben oltre i suoi aspetti concreti. Questo dovrebbe essere chiaro a tutti. È, per certi versi, come la legge Fornero. Sono atti che si trasformano in  elementi fondamentali a sostegno della nostra credibilità internazionale. Che ci piaccia o meno. Ed è da qui che bisogna partire per formulare giudizi obiettivi, altrimenti si trasforma in uno scontro tra  ragionieri con il pallottoliere. Ovviamente il Governo esagera ed enfatizza i risultati e non considera i giudizi di merito che, spesso, manifestano buone ragioni. E questo irrita fortemente, chi, pur condividendo una strategia riformista seria, non ha condiviso l’impostazione del provvedimento. Non possiamo non considerare che il Jobs act viene dopo la legge Biagi ma non me rappresenta l’evoluzione. Per certi versi è un passo indietro. Nella Biagi c’era la chiara consapevolezza che il lavoro era cambiato e che sarebbe cambiato ancora di piú e che il problema principale fosse creare opportunità di lavoro. Il confine tra lavoro dipendente e lavoro autonomo sta perdendo di significato e non sarà certo il contratto a tutele crescenti a invertire la tendenza. Nel Jobs act c’è un’idea del lavoro più tradizionale. Forse più “confindustriale” e meno terziaria proprio mentre l’economia si sta terzarizzando sempre di più. Però era anche l’unica strada praticabile per il PD (prima della diaspora interna) impegnato fino a poco tempo fa in una critica serrata della legge voluta dal centro destra in un periodo di forti divisioni sindacali. C’era voglia di voltare pagina sperando in un diverso atteggiamento della sinistra PD e della CGIL. Non è un caso che tutti i tentativi di disponibilità al dialogo portati avanti  dalla CISL sono stati fatti cadere. Adesso non si può tornare indietro facilmente anche perché l’idea che la tipologia del lavoro classico a tempo indeterminato è l’unica da perseguire e tutto il resto è precarietà è sicuramente prevalente nel Paese e nelle forze politiche. È prevalente ma, purtroppo, è sbagliata e impraticabile. Il 60% del PIL è prodotto dal settore terziario che, per sua natura ha bisogno di flessibilità del lavoro e di tipologie differenti. L’industria, che piaccia o meno, continuerà a produrre dove è piú conveniente quindi non offrirà grandi sbocchi occupazionali nel Paese e, infine, la ripresa, se ci sarà, sarà jobless. Il mercato del lavoro per i giovani è ormai globale e, comunque, le carriere saranno costituite da un patchwork di attività che dovranno essere assemblate in modo completamente diverso da quelle delle generazioni precedenti con tutti i problemi di welfare da gestire individualmente e contrattualmente anche perché il welfare pubblico sarà ine inevitabilmente  ridimensionato. Per questo occorrerebbe piú coraggio e più visione del futuro sia da parte delle organizzazioni datoriali che sindacali. Il lavoro che cambia non può essere solo argomento da convegni. Deve ritornare ad essere materia di riflessione e di proposta. Però una cosa deve essere chiara. Il punto di partenza deve tenere conto del contesto nazionale e internazionale nel quale siamo inseriti, gli obblighi e la credibilità che dobbiamo mantenere e possibilmente accrescere e, infine, il contenuto delle proposte che devono essere utili ad accompagnare il processo di integrazione e di cambiamento, anche culturale, che abbiamo di fronte.