Il paradosso dei metalmeccanici

Mentre la Politica si interroga sul migliore sistema elettorale possibile i corpi intermedi si ripropongono, da diversi punti di vista, all’attenzione del Paese.

Confindustria ha detto la sua nella sua ultima assemblea rimettendo al centro del dibattito l’idea di un “Patto di scopo” come contributo importante alla soluzione dei problemi del Paese a cui seguiranno le proposte di altre organizzazioni datoriali a cominciare da Confcommercio che domani affronterà la sua assemblea annuale.

Sul fronte sindacale, va in scena, oggi, il congresso dei metalmeccanici della CISL. Anche su questo versante ci sono segnali di una rinnovata volontà di riposizionamento strategico dopo la firma dei grandi contratti che hanno dimostrato una vitalità interessante, soprattutto nel comparto industriale.

Il congresso della FEMCA CISL ha confermato la volontà di questa organizzazione di continuare a rappresentare un importante punto di riferimento nel panorama sindacale. È un comparto che, unitariamente, ha sempre avuto una vocazione riformista e ha saputo sempre trovare pragmaticamente tutto ciò che si è reso necessario per governare l’innovazione, i cambiamenti organizzativi e culturali che hanno attraversato il settore.

I suoi dirigenti in tutte e tre le organizzazioni sono sempre stati personaggi sobri, in grande sintonia con i propri rappresentati, poco disponibili a strappi e avventure. Da sempre contrappeso politico e sindacale alla esuberanza dei metalmeccanici. Fondamentale il loro ruolo nelle rispettive organizzazioni confederali.

È però indubbio che, al di là dei propri recinti organizzativi, qualcosa si sta muovendo. In tutte e tre le confederazioni. Difficile prevedere se e dove approderanno le scelte che, dopo la firma dei contratti, hanno ripreso a segnalare crepe tra la CGIL e le altre organizzazioni.

Un dato però è certo. Il congresso che si apre oggi è da seguire con interesse. Non per l’esito che è ovviamente scontato e che si concluderà con l’elezione di Marco Bentivogli come leader indiscusso della categoria ma per capire se il sindacato che verrà delineato dallo stesso Bentivogli saprà guardare oltre la categoria ponendosi come punto di riferimento per un rinnovamento sindacale di cui ne ha bisogno il Paese.

E non lo dico pensando alla sola strategia della CISL che è oggi evidentemente abbastanza difficile da decifrare come alternativa ad una CGIL che, al contrario, sembra essere in ben altra situazione ma pensando alla novità rappresentata da un sindacato che tanto ha dato (nel bene e nel male) nella costruzione del modello precedente e che oggi è in grado di contribuire in modo altrettanto importante a delineare le nuove sfide, i contenuti e le forme organizzative necessarie a realizzarli.

Dalla FIM CISL oggi ci si aspetta molto. Il loro rinnovo contrattuale, la tenuta delle intese unitarie, i tempi legati all’innovazione e ai nuovi livelli contrattuali hanno trovato un nuovo punto di riferimento sia nel sindacato sia nella rispettiva controparte datoriale. E non era facile prevederlo.

La volontà di cambiare quando si manifesta proprio laddove il cambiamento è ancora più necessario ha molte più possibilità di tradursi in fatti concreti rispetto a dove le parole servono solo a mascherare un istinto gattopardesco e di conservazione della propria poltrona. Per questo a noi spettatori non resta che il compito di augurare a Marco Bentivogli e ai suoi metalmeccanici un grande in bocca al lupo per la loro assemblea.

Abbiamo bisogno tutti che sia un momento vero, profondo e sentito di cambiamento perché è destinato a produrre conseguenze un po’ su tutto il sistema. L’asticella va alzata per ciascuno di noi. Oggi più che mai. Per questo il congresso della FIM CISL è diverso dagli altri.

Nel panorama generale a loro è assegnato il ruolo della “goccia che fa traboccare il vaso”, un atto a volte incomprensibile e inaspettato ma nel quale, è sempre nascosto ogni vero cambiamento.

Come si può chiedere un aumento di stipendio?

Nel 2010 la casa editrice Einaudi ha pubblicato uno scritto di Georges Perec, definito, qualche anno prima, dalla critica francese «il racconto esilarante di una corsa ad ostacoli, di comici rimbalzi e appuntamenti mancati».

Il titolo: “L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento” recentemente rilanciato da Fabio Savelli sulla Nuvola del Lavoro del Corriere. Con una ironia pungente Perec, scrittore molto interessante purtroppo scomparso giovanissimo, pone un tema rilevante.

Oggi, è ancora sufficiente “prendere il coraggio a due mani, alzarsi dalla scrivania e andare dal proprio capo con una richiesta di aumento retributivo” così come è stato per buona parte del 900?

Assolutamente no.

Il risultato sarebbe quasi sicuramente un garbato quanto netto rifiuto con tutto il seguito di rancori e frustrazioni inevitabili.

Nel mio lavoro di DIrettore Risorse Umane ho avuto la possibilità di esercitare entrambi i ruoli. ho richiesto riconoscimenti economici (non sempre con successo) e, per funzione aziendale, ho dovuto ascoltare le richieste di colleghi e collaboratori. Dalla mia esperienza ho tratto alcune riflessioni che vorrei condividere.

Le persone, anche se hanno raggiunto un certo livello di integrazione in azienda, faticano a parlare di sé, del proprio stipendio, delle proprie aspirazioni professionali o dei propri interessi. A volte si lamentano con i colleghi e attendono che, prima o poi, le Direzioni Risorse Umane o il proprio capo, si ricordino di loro.

Le aziende, in genere, hanno una loro politica retributiva annuale nella quale occorre sapersi inserire positivamente e al momento giusto. Le aziende più strutturate propongono un incontro di valutazione e sviluppo almeno una volta all’anno ed è un momento importante, formale, da non sottovalutare.

Saper rappresentare le proprie esigenze, formative e professionali o chiedere un adeguamento retributivo fa parte del set di competenze necessarie nel mondo del lavoro di oggi. Per farlo occorre possedere buone capacità negoziali, intraprendenza, conoscenza del contesto, giusta ambizione, determinazione. Ma anche saper gestire una possibile sconfitta, reagire positivamente e rapidamente, trarne insegnamenti utili. Tutte capacità che si possono apprendere senza particolari problemi.

Per questo non è affatto un momento da banalizzare. Va preparato nei minimi particolari. Come se si dovesse incontrare, da candidato per una nuova posizione di lavoro, un head hunter professionista.

L’interlocutore aziendale che ci si troverà davanti, in genere, non è uno sprovveduto. Conosce le politiche retributive dell’azienda, l’organizzazione nel suo insieme, i tempi, le eventuali modalità di erogazione, la valutazione vera sul contributo e sul peso specifico del richiedente.

Per queste ragioni la richiesta di incontro deve essere innescata da una ragione professionale oggettiva. Almeno nelle intenzioni. Un attività seguita che dimostra una maggiore copertura del ruolo, un contributo importante al lavoro del team, un progetto andato a buon fine.

Scelto il motivo, l’incontro dovrà essere richiesto in modo formale. Non si può discutere di sé in coda ad una riunione o in presenza di altri! L’ordine del giorno dovrà essere preannunciato e motivato dall’esigenza di potersi confrontare con chi è preposto, per ruolo, a farlo. Meglio, se possibile, concordare anche il tempo a disposizione.

La prima parte del confronto dovrà essere dedicata alla presentazione di sé, delle proprie aspettative professionali, del proprio contributo ai progetti e ai risultati aziendali. In sostanza occorre dedicare una parte del tempo a sottolineare l’importanza del proprio investimento personale nell’azienda e dei risultati realizzati come conferma della propria crescita.

Questa fase non deve essere un monologo né contemplare rivendicazioni passate o lamentele inutili ma neppure richieste precise. Deve semplicemente sollecitare un dialogo e, possibilmente, una condivisione dell’interlocutore sui fatti.

Attenzione! Solo se questa fase sarà sviluppata correttamente e completamente si potrà passare alla fase successiva: quella delle richieste specifiche. Chiarita l’asimmetria nei comportamenti tra impegno personale e riconoscimento dello stesso occorre dimostrarsi aperti a soluzioni differenti, distribuite nel tempo, sia sul piano quantitativo che qualitativo lasciando all’interlocutore aziendale la possibilità di riflettere e, eventualmente, di controbattere con argomentazioni nel merito delle problematiche poste.

Questa è la fase dove la conoscenza del contesto, la capacità negoziale e la determinazione possono giocare un ruolo decisivo. Da entrambe le parti. A questo punto le carte saranno tutte sul tavolo.

L’interlocutore aziendale può decidere di avanzare una soluzione di compromesso, proporre di valutare la richiesta all’interno di future politiche retributive e di sviluppo o rispondere negativamente. Il richiedente avrà, innanzitutto, chiara la valutazione che l’azienda (o il proprio capo) ha di lui quindi la convenienza o meno ad investirci passione ed energia, in futuro. O cercare un altra sfida sul mercato.

Nello stesso tempo, l’azienda, forse per la prima volta, si sarà potuta fare un’idea diversa del collaboratore, del suo approccio da professionista e delle sue capacità. Qui sta il vero salto di qualità. Far percepire ai responsabili aziendali (capo o DHR) la presenza di un collaboratore professionale, attento ai propri interessi e disponibile a rimettersi in discussione. Ma anche esigente e, perché no, dotato di una giusta ambizione. Il mercato del lavoro richiede sempre più soggetti con queste caratteristiche.

Crescere in azienda significa anche saper giocare le proprie carte e sapersi far valere. Per questo un colloquio serio e argomentato, se preparato e gestito bene, sarà stato comunque positivo e utile. Soprattutto per consolidare e sviluppare la propria capacità di interagire con interlocutori interni o esterni all’azienda a tutela dei propri interessi economici e professionali.

ILVA tra tatticismi e strategie..

Sulla vicenda ILVA, trovo francamente inopportuno mettere sul tavolo degli accusati il sindacato come fa Goffredo Buccini sul Corriere di oggi (http://Bit.ly/2rr5WW9).

In questa fase del negoziato i diversi soggetti in campo si stanno solo mettendo in posizione. Nessuno (credo) vuole fare saltare il banco ma ciascun protagonista può essere un interlocutore credibile solo se assume una posizione di partenza chiara da cui muoversi in una logica negoziale complessa.

Lo stesso vale per Alitalia dove i sindacati confederali, pur usciti a pezzi dal referendum, rappresentano gli unici interlocutori possibili. Veramente qualcuno può pensare che l’esasperazione degli esclusi, se non governata e gestita, sia un segno di lungimiranza delle relazioni sindacali?

Qualsiasi negoziato vero prevede passaggi obbligati. Goffredo Buccini propone un approccio valutativo asimmetrico in quanto il sindacato sarebbe oggi poco credibile perché responsabile (pur non non in via esclusiva) di non aver capito per tempo né il declino né il mostro ambientale che si andava creando in quel di Taranto. Addirittura di averlo condiviso.

E, in forza di questo, dovrebbe limitarsi, in via preliminare, ad accettare qualsivoglia interlocutore per il solo fatto che si sia seduto al tavolo.

Poco importa se, in una vicenda negoziale, su alcuni aspetti molto simile, quella di Fincantieri, il Governo Francese stia surrogando addirittura il ruolo dei sindacati, cercando di capire se gli impegni sono onorabili, le intenzioni verificabili concretamente e se, questo accordo, è propedeutico ad un futuro trasferimento di know how in Cina o è in grado di garantire comunque un futuro alla cantieristica in terra di Francia.

Da noi questo aspetto di garanzia e di verifica della correttezza della strategia è interamente sulle spalle dei sindacati. Governo e istituzioni sembrano non voler esercitare questo importante ruolo da protagonista.

Almeno questo non traspare dalle dichiarazioni ufficiali. Il messaggio sembra essere: “C’è stata un asta, c’è un vincitore, il piano sembra credibile (comunque senza alternative) quindi cercate un accordo e fateci sapere quanto ci costerà. E, se qualche cosa dovesse andare storto, sappiate che la responsabilità sarà interamente vostra”.

Personalmente credo che ognuno dovrebbe fare la propria parte. Il passato, purtroppo, non conta nulla, oggi. Né ha senso lo scaricabarile sulle responsabilità. Se l’ILVA può avere un futuro vero (e l’interesse delle cordate in campo sembrerebbe dimostrarlo) Il Governo non deve solo verificare se la strategia risponde all’interesse del Paese ma dovrebbe essere il garante autorevole degli impegni sottoscritti.

Piano industriale, produzioni e siti, risanamento ambientale credibile e modello di governance non sono argomenti secondari del confronto e quindi presuppongono un tempo adeguato sia in sede tecnica che politica. Poi c’è il tema drammatico degli esuberi e della loro gestione. Ed è su questo che sarebbe sbagliato ragionare esclusivamente in termini di ammortizzatori sociali in una logica assistenziale.

Dichiarare che nessun lavoratore verrà lasciato per strada come ha fatto il Governo non è sufficiente. Addirittura può essere controproducente in questa fase. Il problema c’è, chiunque è in grado di comprenderlo.

Lo sforzo che dovrà essere messo in piedi per realizzare questo obiettivo in aree disagiate come quelle in questione è enorme. Va pensato, progettato e costruito insieme. E deve prevedere, nell’accordo che si raggiungerà, tempi, modalità, interventi, responsabilità precise ed esigibili. Delle istituzioni, delle comunità locali, dell’azienda e degli stessi sindacati.

Ed è l’unico modo per evitare pesanti conseguenze sociali nei territori coinvolti. Ed è per queste ragioni che il confronto deve avvenire nei tempi e nei modi necessari.

Ed è proprio per la complessità della situazione, per i pesanti risvolti che questa vicenda può produrre (se non gestita) che occorre sostenere tutti i soggetti impegnati nel negoziato. per come ci si è arrivati, per il contesto politico, territoriale e sociale, per gli interlocutori in campo la vicenda ILVA può veramente essere un terreno vero di sperimentazione innovativa sulla governance, sulle relazioni industriali e sulla gestione delle conseguenze attraverso un piano sociale di grande qualità.

L’importante è non iniziare delegittimando i soggetti in campo. Sarebbe un errore inutile e imperdonabile.

ILVA! Il futuro, gli esuberi e le soluzioni da condividere

È vero che negli ultimi vent’anni le ristrutturazioni aziendali hanno sempre comportato tagli ed esuberi. È sempre stato così e verrebbe da concludere che aziende come Alitalia o ILVA non possano sfuggire, più di tanto, a queste logiche.

Peraltro i media, oggi, insistono sulla ineluttabilità delle conseguenze occupazionali. L’alto numero degli esuberi viene presentato come inevitabile da entrambe le cordate interessate all’acquisto dell’ILVA e questo non può non provocare la reazione preoccupata delle comunità locali coinvolte e quindi dei sindacati.

Certo il negoziato con i rappresentanti dei lavoratori potrà ridurne il numero e gli ammortizzatori individuati potranno distribuirne gli effetti sociali nel tempo. Un punto però resta ineludibile.

Migliaia di persone dovranno rimettersi in gioco indipendentemente dalla loro età, dalla loro professionalità e dalla possibilità o meno di reimpiegarsi sul territorio. Un negoziato tradizionale, in genere, dopo aver trovato una sintesi sul numero degli esuberi si occupa quasi esclusivamente di chi resta. Spesso tralasciando la gestione di quanto concordato.

Credo che, questa volta, per la situazione occupazionale dei luoghi coinvolti, per la storia di quelle realtà produttive, per la particolare tipologia di lavoratori lo sforzo per individuare soluzioni praticabili dovrebbe essere molto più complesso.

Partiamo dai fatti. Il Ministro Calenda oggi avverte: “Non ci saranno rilanci”, quindi il perimetro delle possibili soluzioni è quello individuato con l’asta. Entrambe le cordate non sono posticce. Comprendono un giusto mix che dimostra un interesse reale al mercato potenziale. Quindi al prodotto.

L’obiettivo, almeno per il sindacato e le comunità coinvolte, non è l’accordo. Questo è solo il mezzo. L’obiettivo è dare un futuro al lavoro e all’impresa. Ai sindacati e all’azienda stabilire se questa intesa deve essere nel solco delle ristrutturazioni gestite fino ad ieri o la prima di segno nuovo.

In questo caso occorrerebbero tre caratteristiche (irrinunciabili). Innanzitutto il livello di coinvolgimento e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori dalla fase dei sacrifici occupazionali (certi) al rilancio da costruire, insieme.

Nessun via libera senza condizioni. Il percorso deve essere condiviso. Sia nella strumentazione che nel governo delle fasi. Come e fino a che punto sarà compito delle parti stabilirlo. In secondo luogo le garanzie sul futuro dei siti dovrebbero essere almeno pari a quelle concordate dal Governo francese con Fincantieri.

E su questo punto il coinvolgimento e l’impegno del nostro Esecutivo sarà fondamentale. In terzo luogo la gestione degli esuberi. Non è solo un problema di numeri. Occorre che la cordata vincente, il Governo, i territori coinvolti costruiscano un percorso condiviso che ha come obiettivo non la CIGS in sé ma il ricollocamento di tutti gli esuberi.

Come? Innanzitutto coinvolgendo tutto l’indotto. In tutti gli accordi di fornitura o subfornitura dovrebbe essere introdotta l’attenzione necessaria al tema. L’azienda si deve impegnare ad incentivare chi, nel territorio, assume i propri esuberi o direttamente o indirettamente.

Occorre uno sforzo formativo eccezionale la cui regia andrebbe assegnata all’ANPAL ma che dovrebbe coinvolgere tutti coloro che sono in grado di portare soluzioni concrete. Così come le associazioni imprenditoriali locali dovrebbero favorire questi percorsi di ricollocamento, condividendoli e proponendoli ai loro associati.

Lo stesso Governo dovrebbe “pretendere” una maggiore assunzione di responsabilità della cordata vincente sulla scorta, ad esempio, delle proposte che Tommaso Nannicini ha recentemente esposto. Per queste ragioni la vicenda ILVA, ma non solo, non andrebbe vista solo da un punto di osservazione tradizionale. Occorre interrompere un circolo vizioso e individuarne uno virtuoso. Pur nelle difficoltà di una svolta dolorosa e necessaria.

Credo che su questo temi come la “corresponsabilità” o, rubando l’idea al Presidente di Confindustria Boccia, di un “Patto di scopo” centrale e territoriale potrebbe costituire un nuovo inizio di un percorso che cerca di cambiare le tradizionali regole del gioco, innovandole e sperimentandole.

Managers and companies: discontinuity, vision for the future and new skills by Stella Sassi


In the past, it was easier. Companies who felt the need to acquire a new manager with certain skills asked their HR manager to fill out a job description, a precise profile of the position, and after a meeting with the trusted Head Hunter they would have a shortlist of candidates to choose from.

The market was basically transparent, managers were generally referenced and it was not difficult to get all the information needed to complete a fairly accurate picture.

Organizations were ready for inclusion because old or new managers responded to fairly compatible logic. A general manager, a sales manager, or a human resources manager had to occupy a position with well-defined boundaries both in terms of skills and competences.

They even sought candidates who would recognize themselves in the values ​​of that specific company. Even for the manager it was fairly clear. Skills and skills required by the offered position, professional path, and projects. The investment was on the long run and therefore the selection phase was very important and no mistakes had to be made.

At some point, everything has changed: more and more plain organigrams, internal employees replaced by interns with no prospect, temporary managers, downsizing of intermediate managerial levels, no chances for professional growth or career inside the company, broken promises and professional deskilling. Few (competent?) decided and many followed the instruction, regardless of the professional level.

The long season of the crisis has dictated its rules. On the market, at that point, it could be found everything and more, both in terms of quantity and quantity of resources available, and often in terms of offer by the professionals. But it is precisely the crisis that led to the need to change, to look up, to think of a different future.

In other words, to call into question both managers and companies. The goals have become increasingly difficult to define and complex to achieve, the market has become increasingly competitive and the competition more aggressive.

The new requirements are dictated by an increasingly “unfaithful” client, who do not care about slow interlocutors, and by a huge amount of data available increasingly difficult to analyze.

And so, the “traditional” answers are increasingly questioned: many companies struggle to be responsive, new organizational models are emerging in order to allow greater effectiveness and adaptability to the context, by creating value, satisfying the customer and creating true value in the company, they become the new focus also for the Human Resources Departments.

It is increasingly required to know how to move through uncertainty and ambiguity and to know how to lead, integrate, engage teams towards ambitious and increasingly challenging goals. From 2000 onwards, it has radically changed how to generate value for many businesses and for people.

The crisis of Taylorism and traditional hierarchies made of traditional organizational charts, procedures, roles, functions and careers set a new starting point: discontinuity. And this discontinuity brings with it two “new” characteristics for managers that need to be revisited: entrepreneurship and leadership.

Entrepreneurship understood as risk sharing, absence of pre-defined guarantees and professional and personal qualities similar to those required to an entrepreneur. Leadership as a capability to engage, guide and motivate coworkers even on unfamiliar situations. In addition, the manager must also build his own “personal brand” by adapting it to new business cultures.

It changes the way in which the enterprise decides and organizes with a view to producing value. Managers need to be useful to the company they work for, to themselves (career, but also the intrinsic meaning of work) and even to the socio-economic context that recognizes the function. It increases the responsibility for the manager and the companies towards all stakeholders and thus towards the overall social system.

This is also required to develop a vision of the world, the context and the society in which the company operates and interacts. From now on, new skills emerge, skills that managers will no longer be able to do without.

First and foremost, there is a need to have, more and more, the ability to build in a short time and in the context of Smart Organizations capable of responding to requests and contingencies of external change, which means for a manager, skills of ” Execution agility “(understood as the ability to accomplish its strategies faster than competition) and” Responsivity “(understood as ability to respond, even changing in style, to changes in context or market).

Secondly, there is the need for an open and dialectical mind able to interpret the complexity of the context and make it feasible, but also have the empathic ability to persuade others (within and outside the company) to be followed in the path identified. There is the need to develop a smart cooperation.

Third, it is required the ability to integrate cultural, contextual, gender and age differences to broaden the vision to elaborated which means interculturality and diversity.
They become equally important, the speed of learning, and the curiosity. So, the management of disruptive innovations (innovations that radically redefine the role of the enterprise’s ecosystem, the concept of value for the customer and the business models of the companies themselves) that developed exponentially on the market by taking oxygen to other solutions and feeding new and connected areas of growth.

Finally, there are two not less important skills: competitive intelligence, that is the ability to monitor competitors and instinct to close, which means to decide, choose and take responsibility for choices. Even when they prove to be wrong.

This is for sure a very interesting work for who trains managers and for the most innovative Human Resources Departments. But there are also many opportunities to reflect for managers and businesses. It is not possible to compete in global supply chains and new markets, as well as it is not possible take advantage of opportunities and business unless managers release energy, passion, creativity, and will accept new challenges.

But all this is possible by investing on resources, on young people, on relationships with universities, and on who can support businesses to create this discontinuity with the past. Otherwise, it is important to note the old rule so dear to Anglo-Saxon school managers, that when the speed of the external context is clearly higher than the speed of the internal organizational context, the end is inevitably begun. This is true for both managers and enterprises.

Voucher: come farsi del male da soli…

Fortunatamente le mises delle signore al G7 occupano abbondantemente gli spazi sui media attutendo le dichiarazioni da fine del mondo che sottolineano come, sui voucher, si stia consumando una tragedia nazionale.

Addirittura Il nostro Governo, impegnato a Taormina a contribuire ad individuare mediazioni su temi da cui dipendono i destini del mondo rischia di cadere sull’argomento. Ennio Flaiano ci confermerebbe che, da noi, la situazione resta grave ma continua a non essere seria.

I fatti
1) I vecchi voucher coprivano lo 0,23% del totale del costo del lavoro. Quindi un mezzo legale nella regolamentazione del lavoro occasionale.
2) Un singolo committente poteva pagare una persona per max 2000 euro, che diventano 3000 nel caso che qualcuno fosse in mobilità o in cassa integrazione.
3) Un lavoratore, mettendo insieme più committenze, poteva arrivare ad una remunerazione di 7000 euro.
4) Sul totale dei beneficiari, oltre 1 milione di questi non riceveva più di 500 euro all’anno. Più della metà di loro era composta da persone già occupate (37%), e che integravano il proprio reddito coi voucher, da pensionati o indennizzati in altro modo (26%).
5) Su un totale di un milione e trecentomila lavoratori pagati coi voucher, il 70% di questi era dato da persone per le quali i voucher rappresentavano un’integrazione al reddito.
6) Tutti gli studi hanno evidenziato che dietro alla crescita dei voucher non c’è stato un calo dei posti di lavori. Addirittura nel turismo e ne servizi, dove si era sviluppato maggiormente il fenomeno dei voucher, l’occupazione subordinata era cresciuta.
7) Ci sono stati abusi? Si. Però nessuno era contrario né a individuarli né a trovare la modalità per eliminarli.

Questi i fatti che porterebbero un Parlamento in un Paese normale ad individuare soluzioni adeguate, creare strumenti idonei e controlli efficaci. Da noi no. Occorre drammatizzare.

Presidi davanti alle Prefetture, parole d’ordine che ci fanno assomigliare ad un Paese sudamericano sull’orlo di un colpo di stato, Parlamento in subbuglio, Governo ad un passo dalla crisi. Non sull’evasione fiscale, non sull’iniquità della legge Fornero, non sulla piaga del lavoro nero. Sui nuovi voucher.

Che cosa è successo e di chi sono le responsabilità della situazione? La CGIL aveva raccolto tre milioni di firme per indire un referendum che richiedeva anche l’abolizione dei voucher. Era ed è un suo diritto farlo. Il Governo avrebbe dovuto fissare la data e lasciare che il Paese decidesse.

Considerazioni di carattere politico hanno spinto il Governo stesso a abolire l’oggetto della contesa e a promettere un nuovo strumento idoneo a rispondere al vuoto normativo che si sarebbe inevitabilmente creato.

Tutto questo in un Paese normale non avrebbe avuto alcuna conseguenza drammatica. La CGIL avrebbe confermato il suo dissenso, il Parlamento però sarebbe stato in grado di approvare una nuova legge in grado di rispondere alle esigenze di alcuni settori economici e, contemporaneamente, di evitare abusi e fraintendimenti di utilizzo. Con buona pace della CGIL che rappresenta una parte importante ma non l’intero Paese. Questo, dicevo, in un Paese normale.

Quindi non da noi. I cespugli alla sinistra del PD, gli scissionisti e parte della sinistra interna al Partito di maggioranza non aspettavano altro. E così siamo arrivati al dramma.

Una legge è necessaria, probabilmente la si farà nel peggiore dei modi costringendo il Governo a porre la fiducia sull’argomento. Lo spettacolo però è andato in scena.

Tutti hanno così recitato la loro parte in commedia. Siamo ai titoli di coda. Ecco. Fino a quando un  Paese normale può reggere tutto questo?

 

Confindustria e la ricerca della pietra filosofale…

Enrico Marro, avanza, nel suo interessante articolo sul Corriere       ( http://Bit.ly/2r5gMBb ) dubbi e perplessità sulla possibilità che Confindustria sia in condizione di sottoscrivere un accordo importante con le tre confederazioni sindacali.

Personalmente sono convinto che, per la prima volta, le perplessità siano tutte nell’altro campo. E cioè che CGIL, CISL e UIL si trovino di fronte, loro, e non Confindustria, alla difficoltà di sottoscrivere un accordo sui massimi sistemi ma sostanzialmente privo di contenuti concreti e equilibrati.

Eppure la strada sembrava in discesa. Dall’assemblea dei giovani industriali di Capri in poi dove l’indubbio fascino prodotto dal “Patto di Fabbrica” all’interno della cornice della “corresponsabilità” sembrava da un lato dare continuità alla volontà nata con Squinzi di contribuire a favorire  un quadro unitario nel sindacato e quindi confermare, a Confindustria, la leadership in tema di lavoro, di primazia sulla rappresentanza e sui conseguenti modelli contrattuali.

A quelle affermazioni, però, non è seguito nulla di concreto. Anzi. I contratti del comparto industriale si sono rinnovati rapidamente pur senza una governance unitaria, le altre confederazioni datoriali hanno firmato i loro accordi quadro e, sulle diverse tematiche che hanno implicazioni giuslavoristiche (Contratti, Jobs Act, punti di crisi, industry 4.0, Voucher, ecc.), Confindustria, al contrario,  non è sembrata mai in partita.

Personalmente non credo che questa sostanziale assenza possa essere spiegata addebitandola alle pur importanti “distrazioni” che influiscono sull’associazione degli industriali a cominciare dai problemi del loro quotidiano.

È la crisi di un mondo che non è più in grado di proporsi come punto di riferimento per tutti sul piano della nuova cultura del lavoro, del rapporto con i sindacati e dei suoi inevitabili cambiamenti.

Non lo è per la piccola e media impresa industriale dove il sindacato fatica a incidere, non lo è per gli altri settori economici sempre più autosufficienti, e rischia di non esserlo più neppure per la grande impresa manifatturiera che cerca di affrontare le sfide della globalizzazione cercando dentro di sé una coesione che prescinde dai modelli classici della rappresentanza.

In questa situazione molto complessa, alcune categorie industriali (metalmeccanici e chimici, ad esempio) hanno trovato convergenze interessanti in controtendenza. E le stanno sperimentando insieme alle rispettive associazioni datoriali.

La CGIL, da parte sua, sta cercando nuove risposte proponendo di concentrare diritti e tutele più sulla singola persona che sul luogo di lavoro, convinta, in questo modo, di contrastare l’emergere di una precarietà 4.0 che rischia, se non governata, di costituire la cifra vera di una parte del nuovo mondo del lavoro.

Esempi questi che dimostrano che un modello classico e governato come in passato è ormai andato in crisi. Spingere come fa Confindustria solo per una diversa “perimetrazione” della sua giurisdizione contrattuale allargando artificialmente al terziario innovativo la sua dimensione rappresentativa è un errore. Per le imprese ma anche per il sindacato.

Aggiungere contratti a contratti sullo stesso perimetro serve solo a chi li firma. Meno alle imprese e ai lavoratori. Ed è, in fondo, un segno di grande debolezza. Diverso sarebbe proporre un percorso innovativo, nelle singole categorie, che possa portare ad un significativo passo in avanti sulla condivisione delle problematiche in azienda. Quindi sul terreno vero del coinvolgimento e della partecipazione sull’inquadramento, sul welfare e sugli obiettivi di business.

Un contratto dei servizi innovativi di marca confindustriale non interesserebbe necessariamente tutte le aziende che operano già nel terziario e che applicano altri contratti nazionali ma rischia di introdurre una potenziale spaccatura laddove i due settori saranno costretti a convivere, magari nella stessa azienda indebolendo, di fatto, il ruolo delle parti e rallentando inevitabilmente il processo di decentramento contrattuale.

Nel terziario innovativo gestito da Confcommercio la contrattazione aziendale è praticamente inesistente. L’attuale modello prevede un’applicazione esclusiva dei minimi tabellari e una sostanziale libertà di movimento delle aziende stesse. Inoltre ogni tentativo di “invasione di campo” potrebbe provocare inevitabili forme di dumping con effetti tutt’altro che facili da governare.

Con la recente lettera ai sindacati il Presidente Boccia ha riaperto il tavolo. Nella recente assemblea confindustriale, però, non ha speso neanche una parola sull’argomento. Nei prossimi giorni vedremo se il silenzio era propedeutico ad una svolta vera o segnalava un impasse insuperabile. Personalmente mi auguro che si arrivi ad un accordo perché una Confindustria in panchina non fa bene al Paese. L’importante è che sia un accordo che possa essere considerato un vero punto di riferimento per l’evoluzione del sistema.

Confindustria. Il rischio di sprecare un’altra occasione

Il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia doveva, nella loro assemblea annuale, riproporre il ruolo di guida della sua associazione dopo il referendum, ritornare in campo dopo mesi di assenza propositiva e rilanciare le aspettative che aveva creato al momento della sua nomina.

Contemporaneamente doveva anche dimostrare di aver ripreso una sostanziale autonomia di azione dal Governo dopo l’esperienza non certo particolarmente felice che ha portato Confindustria ad identificarsi con il Premier Renzi, più che a stimolarne l’iniziativa, travalicando così il compito di una grande organizzazione datoriale. 

La presenza e l’intervento del Ministro Calenda, l’avvicendamento di Renzi con Gentiloni, hanno consentito certamente al Presidente Boccia di smarcarsi dal Governo ma non sono riusciti a rimettere al centro della scena Confindustria che,  inevitabilmente, stenta a riposizionarsi non per sue responsabilità ma per la minore centralità della manifattura nazionale, delle sue logiche e delle sua capacità di competere nella globalizzazione. Soprattutto della sua difficoltà a identificarsi e farsi identificare con il Paese.

Quello che nel 900 ne ha rappresentato il suo punto di forza e di condizionamento nei confronti dell’intera comunità nazionale oggi non è più sufficiente a renderla centrale, autonoma e propositiva in nome e per conto di tutto il fronte imprenditoriale.

E questo limite è emerso in tutta la sua evidenza nella relazione oscurata inevitabilmente dal Ministro Calenda che, oltre ad essere, più di un invitato politico a questa kermesse ha dimostrato di saper proporre una visione che va ben oltre gli sgravi contributivi per i giovani o il patto di fabbrica che rischia comunque di non decollare perché continua a non avere un’anima convincente per i sindacati confederali.

Bene il “Patto di Scopo” se sarà raccolto dagli altri interlocutori a cui è stato proposto. Ottima la proposta di ridare centralità ai giovani su cui è certamente importante investire. Limitarsi però a proporre uno sgravio contributivo non è però più sufficiente.

Il fallimento degli sgravi previsti sulle assunzioni dal Governo Renzi è ancora lì che pesa come un macigno. Il punto è che l’industria non assume. È probabilmente non assumerà.

Per la crisi, per l’incertezza a lanciare progetti e investimenti, perché la ripresa economica, in quel settore, non prevede una ripresa dell’occupazione. Quindi chiedere sgravi una tantum non può bastare.

Occorre mettere in campo nuove idee che impegnino in prima persona le imprese con la scuola, attraverso l’alternanza e l’apprendistato e che ne favoriscano il coinvolgimento a livello territoriale.

La vera domanda che è rimasta senza risposte è: cosa sono disposte a fare le imprese, sul serio, per i giovani? Non limitandosi a chiedere la riduzione dei costi di ingresso. Non è più sufficiente. Mancano impegni veri. In prima persona.

Poi esiste un serio problema di cuneo fiscale che va affrontato ma, come ha sostenuto lo stesso Boccia, vale per tutti. Altrimenti per le imprese in tutti i settori, i costi e il fisco continueranno a mettere solo solo piombo nelle ali.

Infine il “Patto di fabbrica”. Continua ad essere un oggetto misterioso. Soprattutto dopo la firma dei contratti nazionali nel settore industriale. La scelta delle federazioni datoriali di scommettere sulla contrattazione aziendale rischia di rendere superfluo il timbro confindustriale.

O meglio ne alza il costo e i contenuti per l’accordo con le confederazioni che non credo, vogliano riservarsi un semplice ruolo di notai.

Il tema centrale è il livello di “corresponsabilità” su cui la presidenza Boccia vuole impegnare se stessa e le imprese associate e fino a che punto una intuizione strategica (importante) ha senso giocarla in coda ai rinnovi contrattuali e non in premessa ai futuri.

E, infine, fino a che punto questo patto proposto, di natura evidentemente neo corporativa, non collida con una esigenza opposta, propugnata ad esempio dalla CGIL, di individualizzazione delle tutele (o dei diritti) e di superamento (in parte) del luogo di lavoro come elemento esclusivo e di confine negoziale riportando inevitabilmente al centro un ruolo, nuovo e da ripensare, del territorio e delle rispettive associazioni.

È chiaro che non è facile entrare in partita nei supplementari, avere una visione di gioco unitaria, saperla proporre ad una squadra ricca di grandi nomi (forse un po’ decaduti) ma anche di gente concreta e vogliosa di fare che si è riconosciuta in Boccia per le sue qualità di imprenditore, per la dimensione della sua impresa e per la necessità di affrancarsi da un mondo e da una cultura che ha fatto il suo tempo. Adesso il neo presidente di Confindustria deve però portare qualche risultato concreto.

Essersi identificato con troppa enfasi con il Governo Renzi, lo scivolone sull’IVA e la perdita di primazia sulle materie del lavoro necessitano un colpo d’ala per cercare di rientrare in gioco e non seguire così il declino inarrestabile che sembra aver colpito anche tutte le altre Associazioni industriali nel resto d’Europa.

Obbligare i disoccupati a cercare lavoro?

È una riflessione interessante quella che, Francesco Giubileo, propone sul bollettino ADAPT a proposito della possibilità di rendere o meno obbligatoria, da parte del disoccupato, laricerca o l’accettazione di un lavoro e le sue possibili conseguenze negative.

Mi ricordo, negli anni 80, in tempi di collocamento pubblico obbligatorio le scorrettezze e le furbizie di un piccolo gruppo di lavoratori, sull’insieme dei licenziati da una grande azienda a Partecipazione Statale che, avevano ottenuto la precedenza sulle assunzioni nelle aziende private dell’area milanese.

Fu un disastro gestionale che portò a preferire, da parte di tutti i soggetti in campo, la loro permanenza in CIGS per molti anni piuttosto che provare a ricollocarli contro la loro volontà.

Questo però danneggiò inevitabilmente tutti i lavoratori di quell’azienda che vennero discriminati e bollati come indesiderabili sulla scorta dei comportamenti di una modesta parte di loro.

L’equazione disoccupato=fallito o potenzialmente indesiderabile, quindi da scartare a prescindere è, a mio parere, molto più pericolosa della obbligatorietà a rimettersi in gioco che personalmente auspico più ai livelli medio bassi.

Soprattutto in Italia dove l’avviamento al lavoro è frutto quasi esclusivo del “passa parola” e il tessuto produttivo tende a distribuire gli esuberi delle imprese medio grandi in quelle di più piccole dimensioni.

Il ricollocamento di una persona che ha perso il lavoro non è purtroppo reso possibile solo da un mantenimento o da un aggiornamento delle competenze. Il rischio, in questo caso, è che si osservi il problema solo dal versante dell’individuo e da quello della strumentazione da mettere in atto per ridurre la durata della transizione.

Non dal versante delle imprese. Quindi la qualità della proposta al neo disoccupato, la sua retribuzione in rapporto a quella precedente, la formazione necessaria. Questo non è, purtroppo, sufficiente. E qui sta la prima grande differenza tra il nostro Paese e il resto del continente.

In un colloquio di lavoro l’integrabilità di una persona nell’organizzazione aziendale, la sua motivazione e la sua capacità/volontà di rimettersi in gioco contano molto di più delle sue competenze tecnico professionali che spesso vengono date per scontate o lasciate al giudizio del successivo periodo di prova.

Il ricollocamento, per funzionare, abbisogna di una simmetria nel mercato, di un coinvolgimento di tutti i soggetti in campo altrimenti si trasformerà in un altro buco nell’acqua. Perché le aziende, spontaneamente, non pescheranno in questi nuovi contenitori.

Un altro tema riguarda l’obbligatorietà legata alla professionalità. Già oggi, al netto di ciò che bolle in pentola, un Dirigente aziendale intermedio sa che, perso il lavoro, avrà bisogno di circa 6/7 mesi per ricollocarsi e non necessariamente ritroverà un lavoro con lo stesso inquadramento né la stessa tipologia contrattuale. La futura  retribuzione, addirittura potrà prevedere oscillazioni estremamente sensibili. 

Questo vale per molte figure manageriali ma anche per diverse professionalità specialistiche previste nei contratti nazionali. Rimettersi in gioco a certi livelli medio alti non è tanto un problema legato al nuovo inquadramento o alla nuova retribuzione offerta ma, semmai, alla coerenza del percorso, alla possibilità di acquisire nuova professionalità. Quindi alla necessità di accettare o meno qualche inevitabile passo indietro in attesa di rilanciarsi, magari  più avanti. In questi casi i possibili buchi del CV vanno riempiti rapidamente e con un adeguato livello di coerenza. In questi casi  l’obbligatorietà è sostanzialmente inutile.

Personalmente trovo possa essere diverso su figure di basso livello dove, sia le differenze retributive che la qualità dell’offerta, sono maggiormente compatibili con percorsi formativi spendibili in poco tempo e quindi con transizioni più rapide. E dove la concorrenza del lavoro nero rischia di rendere il fruitore di indennità più esposto alla tentazione di restare in perenne attesa. Soprattutto laddove l’offerta è carente.

In questo caso, l’obbligatorietà del percorso può funzionare. Continuo a pensare, però, che il problema non sia stato ancora inquadrato correttamente né a livello concettuale né a livello istituzionale.

Il coinvolgimento diretto delle aziende non può che avvenire solo nel territorio di competenza. Questo è corretto ma non basta. Deve essere in qualche modo concorrenziale con il “passa parola” attuale altrimenti non ha alcun senso. Infine deve essere talmente efficace ed efficiente da mettere a disposizione delle imprese persone motivate, formate e nei tempi necessari alle imprese stesse.

Passare da un modello pubblico ad uno privato è stato vissuto dalle imprese come un atto liberatorio. Il percorso inverso, seppure rivisto e corretto in chiave moderna, è molto più complesso. Di questo dobbiamo esserne consapevoli.

Milano e la sindrome dell’Expo…

Dario Di Vico (estremamente acuto e mai banale come sempre) stimola una interessante riflessione sulle qualità della città di Torino. (http://bit.ly/2rc9Qow). D’altra parte il salone del libro appena concluso è lì a dimostrarle.

Torino è una città che sta cercando di riproporsi e di cambiare pelle. Sempre più terziaria, ben amministrata, lontana dagli scandali. Reagisce composta se sfidata sul suo modello, sui suoi valori, sulla sua capacità di immaginare il futuro.

E cerca di farlo coinvolgendo anche i suoi cittadini. In modo trasversale ma senza snaturarsi. Quando ha deciso di cambiare non si è rivolta all’usato sicuro rappresentato dal pur ottimo Piero Fassino né ha inseguito gli agitatori di paura. Ha saputo costruire, pur nel filone della nuova offerta politica, un suo candidato adatto al tipo di cambiamento scelto.

È come avesse trovato una sua modalità di approccio per essere globale nel suo proporsi ma anche locale, attenta ad evitare fughe in avanti. Le elites di Torino si riconoscono tra di loro, collaborano, pensano, convergono sobriamente su progetti e proposte, sanno, innanzitutto, di essere di quella città.

Milano, no. Il grande risultato dell’Expo sembra averle dato alla testa. Pretendiamo di essere l’ombelico del mondo senza però riuscire a costruire una identità vera, profonda, condivisa.

Le elites restano distratte e divise, trascinate nei progetti. Non promotrici. Human Technopole, ricordiamocelo sempre, non nasce a Milano. Le istituzioni culturali continuano a non dialogare tra loro così come le elites economiche. Assolombarda è in crisi, la Fiera, pure.

Resta Banca Intesa, la Camera di Commercio, l’azione importante delle associazioni del volontariato. Continua però a mancare un’anima. Un disegno vero.

Sembra che l’Expo abbia prodotto un effetto collaterale, una sorta di diritto divino a sentirsi primi e unici a prescindere e a fagocitare tutto ciò che è possibile generando un senso di antipatia e non ad essere riconosciuti come un vero punto di riferimento,  portatori di una sfida da condividere. Milano rischia la megalomania.

Un ex sindaco, Pisapia, vuole (addirittura) rifondare la sinistra. L’attuale sindaco, in carica da meno di un anno, indicato (spero non da se stesso) come futuro Presidente del Consiglio.

Sull’Agenzia del farmaco sembra che nessuno si accorga che Francia e Germania si stanno già accordando su Strasburgo così come sulle Olimpiadi del 2028 dove il messaggio sembra essere più finalizzato allo scontro politico in corso con i pentastellati che a un disegno di alto profilo.

Il grido di battaglia sembra essere:”Milan e pœu pú”. Milano che, quindi, basta a se stessa. Tutto il contrario di ciò che ci vorrebbe. Una città che, proprio mentre si sta trasformando, deve ritornare ad essere accogliente per i suoi cittadini ma anche per chi arriva, al centro come in periferia, che sa costruire ponti con altre culture e con altri mondi ma offre con generosità, a chi ha intorno, occasioni e strumenti per crescere insieme.

Che non fagocita ma promuove. Per questo, da milanese, non posso che essere contento dalla lezione di stile che ci viene da Torino e dal salone del libro.

È un segnale che ci indica una diversa direzione di marcia su cui riflettere. Speriamo sia colto da tutti.