Perché sceglierei Mauro Moretti

Premetto che non ho alcuna voce in capitolo. O meglio. Pago le tasse e quindi la vicenda Alitalia mi riguarda direttamente visto che sarò chiamato, seppur indirettamente, a contribuire una volta trovata una possibile via di uscita.

Anche in questo caso, a mio parere, vale il consiglio dell’amico Becchetti che suggerisce di “votare con il portafoglio”. Personalmente è quello che vorrei fare.

Alitalia, così come l’abbiamo conosciuta, è morta. C’è una remota possibilità di rimettere in piedi un’azienda diversa ma utile al Paese? Se si, sei mesi di prestito non bastano. Però sono sufficienti per costruire un progetto serio, condiviso attraverso il quale confrontarsi con partner internazionali.

Oggi non è possibile così come non lo può essere con questo management vecchio o catapultato all’ultimo momento per gestirne l’agonia. Ma anche con un sindacato di categoria la cui credibilità è vicina allo zero.

Per ripartire da zero i messaggi devono essere chiari. Ai soci, ai lavoratori e al Paese. Soprattutto ai possibili investitori. Ci vuole un segnale di discontinuità molto forte. Mauro Moretti è, a mio modesto parere, la persona giusta.

Sa come si negozia con il sindacato, sa come affrontare i lavoratori soprattutto quelli che difendono privilegi improponibili, sa come affrontare i concorrenti. Soprattutto conosce il mondo dei trasporti e le possibili sinergie con Trenitalia.

Da quello che si legge il dissenso tra il segretario del PD Renzi e il ministro Calenda non sembra essere tattico. Il primo crede in un futuro di Alitalia come azienda. Il secondo, no.

Il primo sa che i sacrifici che devono essere chiesti sono molto pesanti e che per i sindacati non sarà facile seguirlo. Però ritiene che valga la pena giocare fino in fondo la partita. Anche per l’immagine del nostro Paese.

Il secondo, di scuola confindustriale, pensa che la partita sia già persa e quindi si preoccupa di gestirne i costi per il Paese per le possibili conseguenze economiche e sociali.

La scelta del commissario, credo, risentirà di queste posizioni. Renzi deve necessariamente riprendere in mano l’agenda politica e le priorità del Paese.

Di fronte ha Grillo che propone sostanzialmente che tutto resti com’è senza indicare chi dovrà pagarne il conto, l’attuale governo e i sindacati confederali che, senza un vero cambio di passo, possono solo balbettare.

Serve una svolta e serve chi può simboleggiarla. Altrimenti è meglio starne fuori. Nessuna partnership internazionale sarà possibile senza un forte committment politico.

Un eventuale nuovo progetto complesso travalica necessariamente i tempi di questo governo al contrario delle rassicurazioni ai lavoratori, ai clienti e agli investitori che devono essere immediate.

Certo non è un manager, seppur di qualità, che può, da solo, invertire la rotta di un’azienda ormai senz’anima e forse rassegnata ad un inevitabile destino.

Mi viene però in soccorso un vecchio proverbio arabo che recita: “tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Forse è ancora il caso di provarci.

Politica e rappresentanza sindacale, due mondi profondamente diversi.

L’idea che i pentastellati possano lanciare un’OPA sul sindacato è tanto suggestiva quanto irrrealistica. E questo per una serie di ragioni oggettive.

Innanzitutto il nesso tra i successi dei grillini in politica e quelli che potrebbero ottenere nel mondo del lavoro, non regge. Sono due mondi che hanno, al di là delle suggestioni mediatiche, pochi punti di contatto. Basti pensare che sono rarissimi i dirigenti di un campo che riescono a imporsi nell’altro.

Ma c’è ben altro. Non tanto e non solo perché nel mondo del lavoro privato c’è un terzo incomodo, l’impresa (anche attraverso le sue associazioni), che non ha nessuna convenienza a privarsi del ruolo di un interlocutore che resta fondamentale, seppur fortemente ridimensionato rispetto al passato.

Lo dimostrano i contratti rinnovati in tutti i settori grazie (anche) alla lungimiranza delle aziende, e delle loro associazioni, che, proprio per contribuire ad evitare una rischiosa deriva populista, non hanno esitato a sottoscrivere cifre e testi impegnativi in momenti di crisi.

Lo dimostrano gli accordi firmati nelle singole imprese e le centinaia di intese che i sindacati definiscono nel loro linguaggio “difensivi” che di fatto consentono alle imprese di ristrutturarsi, riorganizzarsi e ridurre i costi. E ai lavoratori di mantenere, in tutto o in parte, i posti di lavoro. Un terzo incomodo che si è rivelato fondamentale quando non ha fornito sponde al cosiddetto sindacalismo di base in competizione perenne con quello confederale.

Un’altra dimostrazione viene, da un altro versante, dalla stessa vicenda FCA dove, la FIOM, pur essendo quasi riuscita a disintermediarsi da sola e dopo aver perso, non uno, ma una serie di referendum, può riproporsi e cercare di rientrare in campo. Come se nulla fosse successo.

Ha ragione Guglielmo Loy della UIL, sconfitte ed errori nel sindacato hanno un peso e una influenza molto diversa rispetto alla politica. Così come il rapporto con la propria base di riferimento.

Se dovessimo osservare la realtà con gli occhi di un Giorgio Cremaschi è indubbio che osserveremmo che  il sindacato confederale raccoglie gravi sconfitte dalla svolta dell’EUR del 1978 ad oggi. Fortunatamente non è così. Senza il sindacato, dobbiamo avere la serietà di ammetterlo, i lavoratori oggi starebbero molto peggio. Non rispetto agli anni 50, ma rispetto a venti anni fa. E non è detto che le imprese starebbero molto meglio. Vedi il nero o il dumping contrattuale in alcuni settori.

E questo nonostante moltissimi lavoratori siano già oggi in grado di difendersi da soli. Ma restano comunque una esigua minoranza. Tutto bene, quindi? No, affatto.

Partiamo da Alitalia. Se fosse stata un’azienda percepita veramente come privata dalla politica e dagli stessi lavoratori le cose sarebbero andate molto diversamente. È vero, come sostiene Dario Di Vico sul Corriere, che i sindacati confederali hanno subito una dura sconfitta.

A mio parere per una dose eccessiva di arroganza ma anche di ingenuità. Lo stesso era appena successo all’outlet di Serravalle. La differenza è che nel caso di Serravalle i sindacalisti sono riusciti a scaricare la colpa sulla paura dei lavoratori, all’Alitalia sulla rabbia e il disorientamento. Mai ammettendo i propri errori o quelli delle rispettive categorie che anziché orientare i lavoratori ne seguono da tempo gli umori di una  parte degli attivisti.

De Masi. Le tesi contenute nel suo ultimo libro sono in gran parte provocazioni intellettuali. C’è di tutto e di più. Nulla del contenuto può essere messo a terra. Fanno il verso ad un altro sociologo, Renato Curcio, meno letto ma altrettanto arguto e provocatorio. Appassionano perché ripropongono, in chiave moderna, l’eterna lotta di Davide contro Golia. Se i grillini vogliono adottarne i contenuti, facciano pure. Non andranno, però, da nessuna parte.

Infine l’unico tema che condivido nell’analisi proposta da Dario Di Vico. La debolezza della leadership confederale. A mio parere molto più marcata in CISL e UIL dove lealtà e fedeltà sono, negli anni, diventati sinonimi con tutti i guasti che questo ha comportato e comporta sulla ricchezza del dibattito interno e sulla crescita di nuovi gruppi dirigenti.

Nonostante questo ci sono interessanti segnali di ripresa di iniziativa che lo stesso Di Vico, molto attento a ciò che si muove nel sociale, sottolinea con grande precisione. Come votano alle elezioni  i lavoratori o gli imprenditori, piccoli o grandi che siano, è cosa diversa da come si comportano nelle relazioni sindacali o nel tutelare i propri diritti. Era già successo in Lombardia con la Lega. Prima ancora con la DC e il PCI. Tutti (e sottolineo tutti) hanno provato a mettere la “mordacchia” al sindacato. Bruno Manghi ha ragione: tempo perso.

Il vero rischio è la marginalizzazione dai processi veri di cambiamento e innovazione. Poi che in un’azienda pubblica, parapubblica, o vissuta come tale, la politica (di ogni colore, purtroppo) strumentalizzi i risultati del referendum è solo la dimostrazione del degrado che ha raggiunto.

Fossi un dipendente di Alitalia avrei più paura di questo per il mio futuro che delle dichiarazioni estemporanee di qualche sindacalista.

Un Primo maggio insieme? Perché no!

Questa ci mancava. In occasione del primo maggio, festa del lavoro, la FIM CISL, a Muccia, in provincia di Macerata, quindi nel cratere del terremoto, premierà quelle aziende che mettono al centro della loro azione il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, che promuovono una cultura dell’economia, della partecipazione e del benessere dei loro dipendenti, e che danno un contributo al miglioramento della società.

Non è l’unico riconoscimento ma, indubbiamente, è molto diverso da altri importanti appuntamenti come, ad esempio,  “Best place to Work” che premia le imprese che rispettano alcuni specifici parametri internazionali oppure lo stesso Premio eccellenza di Manageritalia e Confcommercio che premia, ogni due anni, i migliori manager e le aziende del terziario più innovativi, insieme.

Motivazioni, data scelta e valutatori sono un elemento caratterizzante. In genere i sindacati cercano buone ragioni per non parlare positivamente dell’aziende. È una cultura che viene da lontano. Così come per la stragrande maggioranza delle aziende il sindacato è visto solo come un procacciatore di problemi. Spesso campati per aria.

Dare un senso nuovo, non antagonista ma partecipativo è un atto di intelligenza ma anche di innovazione. A Roma c’è il concertone, che pur frequentatissimo, ha snaturato da anni la sua funzione originaria trasformandosi in un brand di un evento in sé, lontano dal sindacato.

In alcune parti del Paese ci sono poi aziende occupate o con gravi vertenze aperte che sottolineano il permanere di un clima di contrapposizione di interessi evidente ma, sotto traccia e poco visibili, ci sono anche migliaia di imprese dove il confronto, il rispetto e il dialogo tra imprenditori e lavoratori c’è ed è importante e costruttivo. La vulgata comune, purtroppo, non registra tutto questo.

Per questo la FIM fa bene a dichiarare la sua volontà di essere protagonista di un percorso nuovo, diverso, positivo. Qualche mese fa, sollevando non poche perplessità in alcuni ambienti, avevo condivido la proposta di creare di uno strumento tipo “trip advisor” per le imprese (ma anche per i sindacati). Uno strumento di valutazione semplice, efficace, trasparente. Le aziende sane non avrebbero nulla da temere e, le altre, ampi spazi di miglioramento.

Oggi i giovani in cerca di lavoro sono spesso attratti solo dalla notorietà del marchio delle aziende stesse. Non da cosa, né da come, si lavora concretamente. Ma neanche se sono luoghi di apprendimento vero,  e se si può crescere professionalmente in modo sano. Non guardano l’azienda per il suo valore sociale che porta nel territorio in cui opera, per l’occupazione che crea, per la formazione che offre, per il suo clima interno. Rischiano di essere  attratti esclusivamente dalla capacità che quella data azienda ha di parlare di sé. Ovviamente la mancanza di offerta di lavoro rischia di rendere, poi, molte di queste riflessioni superflue.

È evidente che per molti il problema non si pone neppure. Si lavora dove si può e alle condizioni proposte. Però nel processo di maturazione professionale e personale è importante sviluppare un senso critico. Occorre potersi dotare di una visione oggettiva e responsabile del contesto in cui si opera.

Per questo è importante lavorare insieme, aziende e lavoratori, per superare la concezione che ci siano solo mondi diversi, divisi da un cancello di ingresso. Il mondo delle imprese ha bisogno di condivisione e di collaborazione per affrontare il futuro.

Di creatività, intelligenza e proattività e quindi di senso critico e libertà di pensiero. Le aziende migliori del terziario sono già lì. Luoghi di lavoro innovativi, welfare interessante, responsabilità sociale, ruoli gerarchici rimessi in discussione da millenials che dal lavoro cercano soddisfazioni diverse dalle generazioni precedenti, tipologie di rapporti che mettono al centro il rispetto, le opportunità di crescita professionale e la qualità della vita più che garanzie ormai inesigibili.

Essere vicini e protagonisti in questo mondo che cambia è difficile per chi ne accompagna, da fuori, l’evoluzione. Però riconoscere il cambiamento, premiarlo e valorizzarlo non può essere solo un elemento di discussione nei convegni. Bisogna rendersene conto ogni giorno.

Mi ricordo lo scandalo che fece la prima volta che alcune imprese e le loro associazioni furono invitate a festeggiare insieme ai sindacati, la festa del lavoro. Per i fautori della tradizione di entrambe le parti, era una cosa da evitare assolutamente. Tutti presi a guardare il dito che indicava la luna… Però il mondo, fortunatamente, sta cambiando.

E tutto questo può spingere imprese, istituzioni e persone ad essere più responsabili. Ma questo non può avvenire in un contesto di continuo scontro di interessi contrapposti. C’è chi se ne accorge, e si attrezza, e chi resta purtroppo prigioniero della cultura del passato.

Alitalia, quando un’azienda muore…

Nella mio percorso professionale mi sono sempre trovato a gestire le risorse umane di aziende in crisi di identità. Alcune perché acquisite da gruppi esteri desiderosi di riorientarle, altre perché erano arrivate a fine corsa.

Il mio compito era sostanzialmente quello di tagliare tutto ciò che era possibile tagliare, riorganizzare, formare le persone a nuovi compiti e funzioni, investire sui giovani e mantenere un clima accettabile evitando conflitti con i sindacati in situazioni dove amministratori delegati e colleghi duravano mediamente un paio di anni.

Ogni azienda ha una sua cultura profonda e radicata a cui, ad ogni cambiamento di top manager, se ne sovrappone un’altra. Quella sottostante, però, resta. In genere è figlia dei successi del passato. Cova sotto la cenere. Non è necessariamente legata all’età dei dipendenti. È nell’aria, nei muri, negli sguardi e nei modi di fare.

Dall’addetto alla reception fino al manager che sta per essere messo da parte, misura, giudica, comprende o condanna chiunque cerchi di portare cambiamenti significativi.

Spinge, come in un eterno gioco dell’oca, a tornare sempre al via. Ad ogni avvicendamento di top manager viene riposta “alla bella e meglio” laddove non risulti evidente così tutti possono fingere di indossare la maglietta nuova.

E spesso, la nuova cultura, non esiste o non ha la forza per insediarsi per limiti temporali, per inconsistenza o per mancanza di risultati. È solo il portato di chi, appena arrivato, gioca le sue carte perseguendo, a volte, i suoi interessi personali.

E questo alimenta le convinzioni negative più profonde. Questa lotta tra culture termina quando l’azienda continua ad avvitarsi sul suo business, cambiando manager in continuazione e non investendo più sulle persone. Perde la sua ragion d’essere, la sua anima. Subentra un cinismo profondo, una devitalizzazione, una rassegnazione.

L’azienda è una comunità determinata dal clima che vi si respira, dai valori che trasmette, dai riti e dalle liturgie che la contraddistinguono. È la comunicazione giornaliera dei rispettivi responsabili, quella voglia di fare e di essere orgogliosi di appartenere ad una piccola e grande squadra di contare indipendentemente dal ruolo o dallo stipendio percepito. Di poter dire in estate, al vicino di ombrellone: “io lavoro alla Standa, oppure all’Alfa Romeo, al Monte dei Paschi, oppure all’Alitalia” e essere certo di percepire nell’interlocutore un senso di malcelata invidia.

Quando questo non c’è più, quando l’appartenenza pesa, diventa ingombrante, quasi fastidiosa qualcosa si rompe definitivamente. E non saranno gli appelli di tre ministri o di due sindacalisti confederali o la mancanza di alternative a far passare quella sensazione di fine dei giochi, di solitudine e di abbandono. Anzi.

Ed è a questo punto che il referendum richiesto diventa altra cosa. Ed è per questo che parlare a sproposito di democrazia diretta non serve a nulla. Ad una platea disorientata, rabbiosa, schiantata, composta da furbi e fessi, da opportunisti e imbroglioni ma anche da tante persone per bene non puoi pretendere di apparecchiare la tavola come se il passato non contasse nulla, richiedere educazione, partecipazione, discernimento e scelte consapevoli.

Bentivogli sul Foglio parla di esperienze vissute. Potrei citare anch’io quante votazioni assembleari ho rimesso in discussione il giorno dopo con gli stessi sindacalisti in anni di onorata carriera, oppure quanti, una volta votato in un modo, hanno sconfessato il loro voto pochi istanti dopo.

Sono assolutamente convinto che subito dopo la votazione richiesta dal console Pilato molti sostenitori di Barabba si fossero già pentiti. Ma, in fondo, il loro voto, pur irrazionale, ha dato una direzione di marcia diversa alla storia. Credo che all’Alitalia, fatte le dovute proporzioni, sia successo lo stesso.

L’azienda, per come l’abbiamo conosciuta, era, ed è, già morta. Chi ha proposto il referendum lo sapeva benissimo. Forse per questo lo ha fatto. Nel caso dell’Unidal (Motta e Alemagna) dal primo piano con 2800 licenziamenti respinto sdegnosamente si passò ai 4000 e poi alla chiusura qualche anno dopo. Succede così quando la corda si spezza.

In Alitalia solo una politica mediocre o i demagoghi di turno possono assicurare che fra qualche anno ci sarà un’azienda più bella è più forte di prima.

Ci sarà solo, come per chi ha lavorato alla Standa, all’Alfa Romeo o a MPS, un ricordo di ciò che fu una grande azienda e di chi, consapevolmente o meno, ha lavorato per distruggerla.

Poi ci saranno altre aziende nell’alimentare, nella Grande Distribuzione, nell’industria automobilistica e, sarà così, nel trasporto aereo che, scegliendo di fiore in fiore, si avvantaggeranno di questo o di quell’asset ancora valido e redditizio di quelle imprese che seppero imporsi nel passato.

Ma questo è un altro film.

Alitalia e dintorni, il fascino indesiderato del NO

C’è una grande differenza tra condividere un progetto, un’idea, una decisione o respingerla. Nel primo caso ci si assume in prima persona la responsabilità delle conseguenze. Nel secondo caso, no.

Bocciare una proposta consente di unificare tutti gli stati d’animo negativi. Di qualunque tipo. Da corpo ad ogni sorta di alibi. Produce la sensazione apparente che tutto possa restare come sempre anche se non sarà comunque così.

La logica NIMBY(acronimo inglese per Not In My Back Yard, letteralmente “Non nel mio cortile”) nasce così. Il NO, privo di proposta alternativa praticabile si limita a scaricare su altri gli effetti. Sui vicini, sui colleghi, sui cittadini, sui contribuenti, sulle successive generazioni.

Il NO ha un suo fascino. Mostra, a chi preferisce stare alla finestra, la voglia di resistere, la volontà di non piegarsi al più forte, la volontà di tutelare il “qui e ora”. Chi pronuncia o sostiene il NO passa, quasi sempre, per essere un paladino del più debole.

Gli anchormen e i media in generale privilegiano chi dice NO. Chi dice SI è, al contrario, banale, scontato, subalterno. Ne sanno qualcosa i sindacalisti che difendono i compromessi possibili con gli accordi aziendali, cosiddetti difensivi, che però salvano migliaia di posti di lavoro.

C’è sempre chi pensa di spostare l’asticella in su. O chi invita a votare NO ad un referendum. Nel film “La classe operaia va in Paradiso” del 1971 il grande Gian Maria Volontè interpreta magistralmente l’operaio che si fa coinvolgere dal giovane studente estremista e perde il posto di lavoro restando solo con i suoi problemi.

All’Alitalia i campioni del “abbiamo già dato” in questi giorni sfilano come prime donne sui giornali. Personaggi come Riccardo Canestrari dell’ANPAC o Francesco Staccioli di USB presentano con nonchalance il conto che dovranno pagare i contribuenti italiani per dare senso e sostanza ad un grave quanto inutile NO. Non accennano minimamente alle conseguenze di medio e lungo termine per i lavoratori di Alitalia. Né a ciò che pagheranno i contribuenti. Non è affar loro.

I sindacati confederali si sono incastrati (o fatti incastrare) in un meccanismo che non c’entra nulla con la democrazia. È una finzione di democrazia scaricare un decisione senza alternative.

Per chi straparla, dopo, di mancanza di rappresentatività dei confederali ricordo che Pierre Carniti raccontava spesso che Napoleone sosteneva che “tutto puoi chiedere ai tuoi soldati tranne che sedersi sulla punta delle baionette”.

Hanno affrontato un negoziato in una situazione di grave emergenza, in una categoria corporativa e aziendalista di vecchio stampo senza nemmeno riuscire a costruire un rapporto vero con i rispettivi iscritti (che sono la maggioranza) limitandosi a sottoscrivere, con grande senso di responsabilità, un’ipotesi di accordo con un azionista poco credibile, un management raffazzonato, i creditori alle porte e con un Governo in evidenti difficoltà a sostenere il negoziato tra vicoli europei e risorse oggettivamente scarse. Sparare contro di loro è come sparare sulla Croce Rossa. Hanno fatto l’impossibile e di questo gliene va dato atto.

Adesso vedremo se sapranno tenere il punto o cercheranno di accodarsi alla logica del “penultimatum” tanto in voga nei settori parapubblici o ritenuti ancora tali dove la Politica mette, a proposito, ma anche a sproposito, troppo spesso il becco.

In altre situazioni i “benaltristi” e i cosiddetti “finestraioli” sono rimasti a bocca asciutta. Alla FIAT, senza la FIM e la UILM, Pomigliano forse avrebbe seguito la sorte di Termini Imerese. Oggi è facile scriverlo.

Allora, media e intellettuali pronosticavano la fine di Marchionne e della FIAT, discettando sulla subalternità dei due sindacati estromessi manu militari dai salotti televisivi e dalla possibilità di informare correttamente. Il NO faceva audience, come oggi. Non però tra gli operai napoletani, soprattutto tra quelli che, dalla CIGS, speravano di rientrare in azienda. Incredibile.

Su questo punto ci viene in soccorso, la trasmissione otto e mezzo, dove Marco Bentivogli della FIM ha affrontato con la forza di chi ha dovuto dimostrare di aver ragione, un titolato rappresentante del NO a tutti i costi: Giorgio Cremaschi.

Non poteva che finire 4-0. Il fascino del NO e del benaltrismo a tutti i costi si è schiantato davanti alla cruda realtà che irrita gli amici del NO a tutti i costi. Alitalia rappresenta, ed è qui la sua vera pericolosità, una sorta di vaso di Pandora.

Da una parte l’aggressività dei populisti vecchi e nuovi che non hanno niente da perdere perché all’opposizione. Dall’altra l’arte difficile di governare tra un passato di un’azienda tutto da dimenticare e un futuro da costruire giorno per giorno.

In mezzo un vulcano che rischia di esplodere e di incendiare così l’intera prateria. Per questo va tenuto con forza il punto. Se l’accordo non ha alternative si proceda senza tentennamenti nominando un commissario all’altezza del compito.

Pensare di risolvere un problema di questa gravità con possibili ripercussioni sociali imprevedibili fidandosi della buona volontà dei diretti interessati, ormai disorientati e rabbiosi con tutti, è stato un errore. Non ne va commesso un altro ancora più grave. Accettare la logica insita nel risultato di quel voto e cioè che un NO basta e avanza e che, adesso, il problema è dell’azienda e del Governo.

Il problema è, al contrario, di tutti noi.

Alitalia, un referendum inopportuno ha prodotto un risultato inacettabile

Purtroppo quello che si temeva è avvenuto. I lavoratori di Alitalia, chiamati a pronunciarsi sull’ipotesi di accordo siglata anche dai tre segretari generali confederali di CGIL, CISL e UIL l’hanno nettamente respinta.

Inutili gli appelli prima del voto, inutili i richiami a come evitare un destino altrimenti inevitabile. Adesso inizierà un dannoso quanto pericoloso scaricabarile sulle responsabilità.

Indubbiamente l’azienda era ed è poco credibile e il piano, per quello che è filtrato sui giornali, non conteneva nulla che facesse ipotizzare una svolta vera, visibile e comprensibile a tutti. Ma proprio per questo motivo la gravità della situazione era evidente.

Il sindacato confederale è stato costretto a mettere in campo tutta la sua credibilità assumendosi un rischio altissimo di fronte alla scarsa credibilità degli azionisti per come si sono mossi fino all’annuncio del piano ma anche dello stesso management in parte rinnovato frettolosamente.

Ho già scritto che è stato un azzardo tenere il referendum. Un accordo pesante sul piano individuale ma indispensabile su quello collettivo e per la stessa prospettiva dell’azienda non doveva essere sottoposto a referendum sul quale, e lo si sapeva, avrebbero pesato l’esperienza negativa del passato, la rabbia e il disorientamento dei lavoratori. Soprattutto in una realtà come Alitalia.

Occorreva scegliere un’altra strada. Magari prevedendo alla fine del percorso un’adesione individuale. Chi pensava che questo fosse un “penultimatum” e non un vero e proprio “prendere o lasciare” si dovrà assumere, adesso, le proprie responsabilità. Soprattutto chi ci ha speculato pesantemente.

Non è un caso che dove il sindacato è più forte e credibile (non necessariamente più numeroso) in termini di rapporto con i lavoratori, i contratti vengono rinnovati e i referendum indetti, anche se in una logica fortemente difensiva, esprimono sempre una volontà costruttiva da parte dei lavoratori. Metalmeccanici, Chimici e Alimentaristi, ad esempio, ne sono la prova evidente.

C’è una consapevolezza diversa rispetto a categorie dove la concorrenza tra sigle è scaduta al punto da trascinare tutti in un gorgo fatto di diffidenza, scavalcamenti e iniziative sindacali mediocri.

Oppure laddove il sindacato confederale ha dovuto condividere il rapporto con i lavoratori insieme ad altre sigle autonome o associazioni professionali spinte solo a tutelare i propri interessi e il proprio spazio di agibilità.

E non basta ritrovare una parvenza di unità in alcune occasioni, seppure particolarmente gravi. Il rapporto con i lavoratori, in questi casi o è scarso o, addirittura inesistente.

Adesso l’unica via praticabile sembra essere il commissariamento anche perché il piano DEVE comunque andare avanti. Probabilmente occorre far passare il tempo sufficiente affinché sia chiaro a tutti che non ci sarà né un nuovo accordo, né la nazionalizzazione dell’Alitalia.

Ci sarà una realtà che inevitabilmente può arrivare fino al fallimento e un’altra che forse potrà nascere alle condizioni previste dal mercato e dalle partnership finanziarie e strategiche che potranno essere individuate.

Purtroppo ricordo il cosiddetto piano Ravalico che prevedeva, alla fine degli anni ’70, 2800 licenziamenti all’Unidal (ex Motta e Alemagna) il cui respingimento portò, poco dopo, il numero di licenziati ad oltre quattromila. Per i sindacati si apre certamente una fase difficile ma senza alternative.

Devono recuperare un rapporto con i propri iscritti aprendo una vera e propria battaglia politica contro i fautori del disastro. E devono sostenere fino in fondo ciò che hanno firmato. Cosa assolutamente necessaria per la loro credibilità presente e futura. Cosa che deve fare anche l’azienda.

Preoccupa sentire personaggi come Francesco Staccioli dell’Usb dire: “Ma come si fa a pensare che una compagnia che trasporta 24 milioni di persone con 120 aerei possa essere messa in liquidazione?” Dovrebbero essere mandati avanti quelli come lui, e i sostenitori del NO,  adesso.

Al Governo spetta il mantenimento dei patti che hanno reso possibile l’accordo, pur se respinto. Il Paese deve essere messo di fronte alla irresponsabilità di chi ha speculato politicamente sulla pelle dei lavoratori e deve essere preparato alle possibili reazioni.

Il negoziato Alitalia è terminato. Adesso occorre lavorare, con chi ha sottoscritto l’intesa, per costruire la nuova Alitalia. D’altra parte la società è già costata agli italiani più di sette miliardi di euro in quarant’anni.

Tutto questo però pone, ancora una volta, il tema della titolarità e della rappresentatività di chi sottoscrive gli accordi, della esigibilità , della validazione degli accordi stessi e del superamento di vecchie liturgie che non funzionano in settori dove il supposto ruolo integrativo o sostitutivo dello Stato o la scarsa credibilità dell’azienda e dei sindacati di categoria hanno scavato un solco profondo di credibilità e di rappresentatività reale.

Alitalia tra referendum e accordi sottoscritti

In molte situazioni sono una prova di democrazia e partecipazione. Prevederli e codificarne l’iter formale è un atto doveroso. Soprattutto per supportare e validare gli strumenti negoziali tradizionali.

Le votazioni assembleari hanno fatto il loro tempo e quindi consolidare un potente strumento di partecipazione come il referendum è certamente una scelta decisiva.

Si trasforma, però, in un boomerang quando non consente una scelta vera e, soprattutto, quando gli esiti e gli effetti chiamano pesantemente in causa altri a cui nessuno ha chiesto nulla.

Aver affidato ai soli lavoratori dell’Alitalia la decisione di salvare o meno l’azienda nella quale lavorano sono stati, secondo me, un azzardo e un errore. Alitalia non è mai stata un’azienda normale.

E la sua specificità ha sempre comportato un conto da pagare per i cittadini italiani che non hanno mai avuto, sul tema, voce in capitolo nonostante ci si dimentichi spesso che “non esistono soldi pubblici, ma solo soldi dei contribuenti”.

A votare, però, sono stati chiamati solo i suoi dipendenti. Si è sempre fatto così, è vero. Però in un caso come questo resto convinto che non sia corretto. Innanzitutto perché, indipendentemente dall’esito del referendum, gli effetti di quella votazione verranno comunque pagati da tutti.

In altri termini è come se in una grande azienda, soggetta ad una crisi profonda, venissero chiamati a votare solo coloro che sono stati inseriti in una procedura di licenziamento collettivo e non l’insieme dei lavoratori. Oppure se, sulle banche venete o su MPS fossero stati chiamati solo i dipendenti a decidere. L’esito sarebbe scontato. Così come rischia di esserlo in questo referendum.

In secondo luogo perché non esistono alternative al piano. Governo, azionisti, banche e parti sociali si sono confrontati, hanno definito i contenuti e verificato che non esistono ulteriori margini. Inoltre il Presidente del Consiglio, i ministri incaricati e i massimi rappresentanti del sindacato confederale italiano hanno annunciato che non ci sono alternative né piani B a disposizione.

Perché quindi chiedere ai lavoratori coinvolti un giudizio assolutamente inutile? Soprattutto in mancanza di un poco scontato plebiscito a favore. E con il rischio di gravi strumentalizzazioni da parte di chi vuole far fallire comunque l’azienda o di chi vorrebbe prococatoriamete proporne il ritorno allo Stato.

Un rito, in questo caso, pericoloso, fuori dal tempo e quindi un errore grave. Un’altra cosa avrebbe potuto essere un confronto tra i sindacati e i rispettivi iscritti con lo scopo di spiegare i contenuti dell’intesa e la sua irrevocabilità.

Che fare in questi casi?

Credo che chi sottoscrive un’intesa senza alternative se ne dovrebbe assumere la totale responsabilità. Nei confronti del Paese e dei lavoratori. Il compromesso raggiunto al tavolo negoziale, pur “difensivo”, può presentare sicuramente luci e ombre ma anche la convinzione dei sottoscrittori che è il massimo possibile in condizioni date.

Al sindacato, alle associazioni datoriali, alla politica è chiesta, in questi casi, una assunzione di responsabilità profonda quando di mezzo ci sono il posto di lavoro, la vita delle persone, il loro reddito e la continuità di una attività economica importante. Non la semplice firma su di un pezzo di carta.

Il referendum ha senso quando in votazione va un atto preciso e dettagliato. Circoscritto al contesto. Sul voto non dovrebbero mai pesare una storia di insuccessi, purtroppo, infinita, un declino vissuto come inarrestabile, la credibilità di chi, senza mai rimetterci nulla né pagare alcunché, ha proposto piani industriali inconsistenti, ristrutturazioni continue e socialmente dolorose.

Ma neanche chi propone, come i sindacati autonomi, scorciatoie spericolate facendosi scudo della rabbia e del disorientamento dei lavoratori. Tra pochi giorni avremo l’esito di questa decisione azzardata e dovremo consapevolmente gestirne le conseguenze.

Speriamo che chi è stato chiamato ad assumersi le proprie responsabilità individuali con il voto lo faccia, almeno questa volta anche per tutti noi.

La FIOM in FCA: prove di avvicinamento?

Credo sia utile seguire il dibattito che la FIOM ha messo a disposizione in rete sulla assemblea di Napoli dal titolo “Ci siamo: la FIOM in FCA”.

Dopo la firma unitaria del CCNL di categoria, dalla volontà di rientro in FCA di Landini, dalla sua capacità di trovare un punto di incontro con le altre organizzazioni e, infine, dalla disponibilità stessa di FIM e UILM a superare le vecchie divisioni passa una parte importante del futuro, e quindi della natura, dello stesso sindacalismo confederale e della capacità di nuovi protagonisti di segnarne l’evoluzione.

Appuntamento importante al quale ha partecipato, e anche questo non è un segnale da sottovalutare, il segretario generale della CGIL Susanna Camusso. Sono Intervenuti nel dibattito sindacalisti e delegati della FIOM CGIL e hanno raccontato quello che è il loro punto di vista sulla vita di tutti i giorni e, a loro giudizio, le preoccupazioni dei lavoratori.

C’è una visione marcatamente negativa su quasi tutto, questo è vero, però, a partire dalle parole di Landini: “forti del CCNL unitario ora dobbiamo aprire discussione con FIM e UILM anche per FCA-CNH”, sembra esserci la volontà di rientrare in gioco.

D’altra parte sarebbe forse troppo aspettarsi almeno qualche ammissione di corresponsabilità sul passato in un confronto pubblico, ma il dibattito interno segnala indubbiamente una consapevolezza nuova. Anche perché, le identità e le visioni del futuro delle rispettive organizzazioni, sembrerebbero aver imboccato strade profondamente diverse.

Per la FIM, credo, tre temi su tutti. Partecipazione dei lavoratori alla vita dell’impresa attraverso il sindacato come strategia di fondo, l’innovazione tecnologica e organizzativa come sfida da cogliere e non da combattere, contrattazione e welfare come strumenti per sostenere il lavoro, la professionalità e il reddito dei lavoratori.

Anche la UILM credo viaggi sostanzialmente su questa lunghezza d’onda forse con una maggiore sensibilità al salario derivato dal contratto nazionale e una maggiore cautela sulle potenzialità positive dell’innovazione tecnologica.

Per la FIOM, però, il discorso resta più complesso. C’è la “carta dei diritti” ma c’è anche la permanente abitudine a volersi sovrapporre all’intera CGIL percfiocàrecuncruolo “politico” e c’è, infine una visione del futuro e dell’innovazione, a mio parere, ancora molto arretrata e passiva. La firma unitaria del CCNL è, però, un fatto rilevante e indiscutibile. Landini in prima persona si è speso superando difficoltà e resistenze.

Aver contribuito in modo decisivo a chiudere il cerchio anche con Federmeccanica consente alla FIOM di giocare alla pari su tutte le partite aperte. E su questo c’è, credo, la disponibilità dell’associazione datoriale che ha avuto la lungimiranza di scommettere su di un esito positivo del negoziato e che, quindi, si conferma in un ruolo trainante e non certo gregario al completamento del percorso innovativo contenuto nei testi del CCNL.

Ma FCA resta un’altra cosa. C’è un ulteriore soggetto, l’azienda, ben più ostico è affatto disponibile la cui strategia sembra essere quella di continuare ad intestarsi i meriti del cambiamento senza condividerli apertamente anche con chi li ha resi possibile.

Una sorta di “disintermediazione tattica” pro domo sua. Però è da qui che può passare il vero salto di qualità dell’intero sistema. Possibile se l’azienda deciderà di scommettere non solo sul suo capitale umano ma anche sugli interlocutori sindacali che lo rappresentano consentendo, così, una saldatura positiva e lungimirante con i contenuti del CCNL appena firmato.

Anche per questo un rientro della FIOM è auspicabile e, per certi versi, imprescindibile nonostante il difficile dibattito interno che, per il momento, sembrerebbe riconfermare una visione essenzialmente negativa.

Non credo, però, che i delegati di FIM e UILM si possano riconoscere in queste posizioni. E neanche l’azienda.

Ma, su questo, verrà in soccorso la realtà e, forse, la survey messa in programma dalla stessa FIOM che potrà fornire elementi utili sul presente e sul futuro non attardandosi sul passato.

Anche le traiettorie che hanno preceduto il rinnovo dell’ultimo CCNL sembrava non avrebbero mai potuto incrociarsi e così non è stato. Quindi un po’ di ottimismo è fondamentale.

L’intero sindacalismo confederale ha bisogno che, in un comparto così importante, si affermi una cultura diversa, possibilmente unitaria se vuole guardare al futuro.

D’altra parte i tre sindacati di categoria, pur partendo da posizioni molto diverse, hanno saputo trovare la sintesi necessaria al momento giusto sul contratto nazionale grazie anche all’autorevolezza dei rispettivi segretari generali. Io credo che lavoreranno per cercare di trovarla anche in FCA.

La realtà e la propaganda…

Premetto di aver rappresentato per oltre dieci anni, come Direttore Risorse Umane, la mia azienda (di allora) in Federdistribuzione. Penso di conoscerne i limiti ma anche l’impegno e la notevole professionalità.

Li ho spesso criticati apertamente quando hanno scelto di voler far da soli sul tema del lavoro ma continuo a considerare, molti di loro, amici e colleghi e continuo ad osservarne con grande attenzione la loro azione a tutela delle aziende della Grande Distribuzione.

Sul tema delle aperture festive hanno ragione a tenere il punto. Soprattutto oggi che i consumi sono fermi. Sarebbe stato meglio governare a monte il problema fissando dei paletti condivisi come ha proposto a suo tempo Confcommercio? Probabilmente si. Oggi però c’è una legge in Parlamento che definisce un numero di chiusure annuali accettabile sulla quale credo si possa convenire ma il tema resta aperto.

Alcuni esercizi commerciali hanno la loro ragion d’essere proprio se funzionano a ciclo continuo. Recentemente ho partecipato (come osservatore) ad un negoziato che aveva come obiettivo il lancio di una start up con oltre quattrocento dipendenti (con le tre organizzazioni sindacali di categoria) che concordava in due le festività di chiusura annuali per i prossimi tre anni. Senza alcun clamore mediatico.

Oscar Giannino propone una differenza interessante tra libertà di aprire e obbligo di aprire che condivido. Ci sono zone o attività dove non ha senso forzare e altre dov’è indispensabile.

Il sindacato di categoria ha sempre avuto, sul tema, un atteggiamento ambiguo e ondivago. Prima decisamente contrario, poi favorevole ma solo per i nuovi assunti. Refrattario per anni alle rotazioni di tutto il personale perché questo metteva in discussione i diritti acquisiti da una specifica generazione, ha costretto molte aziende a forzare quasi esclusivamente sui più giovani.

E questa divisione tra i lavoratori vecchi e nuovi ha contribuito a mettere fuori gioco il sindacato stesso la cui debolezza, in termini di mobilitazione della categoria, è ormai evidente.

Annamaria Furlan, segretaria generale della CISL, in questi giorni ha detto tutto e il suo contrario. E anche questo non ha giovato. Ha criticato l’outlet nella sua ragion d’essere, poi ha ridotto il tiro sull’apertura Pasquale in sé e, infine si è lamentata della mancanza di dialogo tra la proprietà dell’outlet e il sindacato locale. Il tutto, probabilmente, per coprire l’ondivaga politica della categoria sulla materia.

Ovviamente il decreto “salva Italia” ha determinato una fuga in avanti soprattutto perché ha spinto la stragrande maggioranza delle aziende del settore, in crisi sui margini, a forzare sulle aperture anche laddove non erano strettamente necessarie.

A questo è seguita una fase più riflessiva con aperture e chiusure meglio regolate. O con accordi interessanti come quello di Esselunga che esonera dalle prestazioni festive chi ha figli sotto i tre anni. Questa è la strada.

Altri accordi, soprattutto, per quanto riguarda gli outlet o i grandi centri commerciali potrebbero riguardare forme di welfare specifico come asili aziendali o altre iniziative che attenuino i disagi a chi deve lavorare.

La vicenda di Serravalle ha dimostrato che un’azione sindacale di tipo tradizionale non funziona su questa tipologia di lavoratori. McArthurGlenn affitta spazi spesso a marchi noti o a franchisee presso i quali lavorano pochi e selezionati venditori particolari.

Venditori che vengono formati sia dalla casa madre che dall’outlet stesso sulle abitudini di acquisto di clienti provenienti da tutto il mondo. A questo si aggiungono in base alle previsioni di vendita giovani con contratti brevi.

La stessa direttrice del centro, Daniela Bricola, proviene da una famiglia di commercianti. Con una laurea in tasca ha iniziato vendendo jeans in uno store e poi via via ha occupato posizioni di maggiori responsabilità mentre, a Serravalle, ha fatto tutta la carriera interna: retail assistant, retail manager, e infine direttore del centro.

Non si è certo tirata indietro in questa tempesta che si è scatenata in un bicchier d’acqua. Ha ricordato i diversi livelli di responsabilità avanzando anche qualche disponibilità al confronto che dovrebbe essere colta.

“Meglio crumira che disoccupata!” ha gridato una lavoratrice dell’outlet ad un militante sindacale catapultato da chissà dove, insieme a qualche decina di attivisti con bandiere, a presidiare una rotonda che la insultava per la sua determinazione a recarsi al lavoro mentre oltre duemila persone già lavoravano tranquillamente e oltre ventimila clienti affollavano il centro.

Ha pero funzionato mediaticamente. I contrari (non frequentatori dell’outlet) hanno trovato una ragion d’essere. Sul versante sindacale in termini di identità come giustamente sostiene Di Vico. I loro militanti si sono sentiti rassicurati.

Sul versante politico con l’intervento estemporaneo dell’onorevole Di Maio che ha scavalcato tutti “farfugliando” teorie e motivazioni che non hanno né capo né coda che però hanno avuto, come prevedibile, un risalto esagerato.

Il rischio è che, come per i voucher, un Governo impaurito preferisca subire una emotività esasperata (più in rete o sulla stampa che nella realtà) che tutelare le aziende coinvolte e qualche migliaio di lavoratori e un settore che rischia di pagarne le conseguenze.

Il nostro è un Paese ben strano. Si può pagare in nero la badante ed essere contro i voucher. Oppure utilizzare i voucher e promuoverne un referendum contro.

Prendersela con il consumismo e andare tranquillamente a fare acquisti all’outlet.  Oppure rivendicare più lavoro pur cercando di mettere in crisi chi lo offre, e non in nero, nonostante tutto. Addirittura utilizzare strumentalmente questo tema per uscire dalla realtà e fare propaganda per il proprio partito.

Personalmente non sono contento per l’errore, grave, commesso dai sindacati confederali che hanno sottovalutato la distanza profonda tra il loro linguaggio, mediatico o meno, in rapporto ai duemila lavoratori coinvolti a Serravalle, alle loro esigenze e alle loro aspettative.

Probabilmente si giustificheranno dando la colpa alla paura dei singoli non interrogandosi sulla particolare tipologia del centro e della sua proposta commerciale. Pronti a ricominciare alla prossima festività.

La realtà però è altra cosa rispetto alla propaganda politica o sindacale che sia. Speriamo che questa esperienza serva, a tutti, per il futuro.

Declinare crescendo?

Ha ragione Di Vico. In mancanza di risultati e di negoziati seri con contropartite adeguate il sindacato italiano, soprattutto quello meno strutturato, cerca solo di rassicurare i propri iscritti. Credo però che sia inevitabile.

Prendiamo l’outlet di Serravalle. Nessun sindacalista alessandrino ha sollevato problemi di principio, alzato al voce, o preteso alcunché quando il “Centro più grande d’Europa” si è insediato in mezzo alla campagna né quando si è strutturato fino ad arrivare ai duemila posti di lavoro (di vario genere) di oggi. Anzi.

A differenza di altre categorie dove tra i sindacalisti esistono veri esperti di settore, nel terziario prevale ancora la figura tradizionale del sindacalista generalista cresciuto con le regole della Grande Distribuzione del 900 scolpita nei contratti nazionali e aziendali e nelle rivendicazioni che ne hanno caratterizzato una intera generazione, nel bene e nel male.

C’è però una grande differenza tra un negozio di vicinato, un supermercato di via, un discount, un ipermercato, un centro commerciale, un mall, o un outlet. Profondamente diversi non solo per la dimensione e per le problematiche ma anche nelle fasi di apertura, di consolidamento e di mantenimento. Così come negli orari, nelle giornate di vendita, nella stagionalità. E infine nella tipologia di lavoratore necessario.

A tutto questo il sindacalista generalista non era e non è preparato. La differenza è che nelle fasi espansive, pur non incidendo sugli assetti organizzativi, ne beneficiava comunque in termini di iscritti e quindi ha lungamente abbozzato.

Pochi hanno cercato di capire l’evoluzione del settore, la sua differenziazione sia dimensionale che qualitativa del lavoro. Né di comprendere l’inevitabile cambiamento del ruolo della rappresentanza.

Un outlet tipo Serravalle con oltre duemila addetti ha dentro di sé le problematiche tipiche di un grande centro commerciale e, contemporaneamente, di una via dello shopping tipo Corso Buenos Aires a Milano. Non c’è un imprenditore. C’è un gestore di spazi.

Convergono su di esso decine di migliaia di turisti stranieri portati direttamente in pullman desiderosi di accaparrarsi capi firmati a prezzi scontati. In una festività qualsiasi più di quarantamila visitatori vi si accalcano.

Tutto questo, ovviamente, può piacere o meno. Non consente solo di alimentare illusioni, desideri di possesso di capi firmati ma anche di smaltire collezioni, magazzini strapieni di merce e sostenere opportunità di lavoro. È un approccio che funziona solo a ciclo continuo.

Per i clienti del far east, ad esempio, le nostre festività nazionali o religiose sono sconosciute. Sfido chiunque di noi a indicare le festività religiose coreane o cinesi. Ma vale così per molti altri. Così come per i connazionali pensare di fare anche cento chilometri durante la settimana è semplicemente impossibile.

Per il sindacato è una sfida vera. Può ritirarsi davanti ad una rotonda con i suoi attivisti che non lavorano nell’outlet e bloccare clienti indispettiti. Oppure cercare di capire come entrare in relazione con un mondo fatto di tipologie di lavoro, interlocutori, livelli di confronto diversi uno dall’altro.

Nel primo caso avrà lanciato un segnale identitario ai suoi iscritti che approveranno questa presa di posizione ma non cambierà nulla.

Nel secondo caso potrà iniziare un lento lavoro di recupero e di comprensione di una realtà dove impresa, lavoro, luoghi e modalità assumono contorni più sfumati della fabbrica e forse potrà anche tentare di rappresentarne le esigenze.