Di Dumping Contrattuale si muore…

L’apparenza spesso inganna. Da quanto si legge sui quotidiani  Confindustria insiste per sottoscrivere con i sindacati confederali un testo sui servizi innovativi come primo passo nel percorso che mira a concludersi, entro il mese di maggio, sugli assetti contrattuali.

Molte aziende, ed è cosa nota, pur continuando ad essere associate a Confindustria, applicano da tempo  il contratto nazionale del terziario di Confcommercio ritenendolo più rispondente a proprie esigenze specifiche e questo senza alterare equilibri contrattuali consolidati interni all’impresa stessa.

Confindustria, sia per questioni di rappresentatività ma soprattutto per evidenti ragioni di marketing associativo, spinge per ottenere  per sé un risultato specifico  propedeutico all’accordo generale.

È lo stesso spirito che ha spinto parecchio tempo fa, Federdistribuzione a “pretendere”, per il proprio perimetro associativo, una soluzione analoga. Un contratto nazionale specifico che, a prima vista, poteva rappresentare la soluzione ideale.

Gli stessi sindacati di categoria allora hanno vissuto quella richiesta come utile e possibile. Addirittura l’hanno preceduta e accompagnata inviando una piattaforma unitaria identica (più o meno) a quella di Confcommercio. Il risultato è stato però, fin dall’inizio, disastroso.

Ad oggi, le aziende che hanno deciso di applicare il contratto Confcommercio subiscono da mesi una situazione di dumping dai concorrenti che si riconoscono nella posizione espressa da Federdistribuzione mentre i loro dipendenti continuano a non aver nessun contratto. Le autorità ministeriali preposte al controllo e alle ispezioni non si muovono (opportunisticamente) sperando che la situazione evolva positivamente mentre i sindacati di categoria non riescono a sbloccare nulla per le evidenti difficoltà di mobilitazione dei lavoratori.

Lo stallo è così assicurato. Nel frattempo le singole aziende si “godono” il dumping se schierate da una parte o, al contrario, ne subiscono le conseguenze, se hanno deciso di applicare il Contratto nazionale firmato da Confcommercio.

Che lo si voglia o meno, qui sta il punto. Le aziende, oggi, non si muovono più in una logica puramente associativa. Applicano o non applicano ciò che ritengono più conveniente per il loro business a prescindere dai sistemi regolatori  predisposti dalle organizzazioni di rappresentanza. Quindi una cosa è la declinazione aziendale del “patto di fabbrica” (peraltro in linea con i rispettivi contratti nazionali già firmati) con possibili deroghe dal CCNL di categoria specifiche e contrattate, un’altra è la inevitabile “gara” al ribasso tra contratti nazionali diversi, pur sempre applicabili, in base alla convenienza di una delle due parti.

È indubbio che i sindacati confederali si trovano di fronte ad una scelta difficile. Stabilire confini applicativi sulla scorta dell’attuale regolamentazione lasciando libere le singole categorie, optare per nuove aggregazioni (ad esempio: industria, terziario, agroalimentare da cui far discendere deroghe e specificità ai livelli sottostanti), oppure subire l’idea che ogni azienda  fa un po’ ciò che gli pare in base alle proprie convenienze e ai rapporti di forza che riesce a mettere in campo.

Per questo il confronto in atto tra le sigle confederali e Confindustria non è secondario e scevro da conseguenze a catena sugli assetti contrattuali futuri  non solo del settore industriale. Quindi ben al di là delle esigenze specifiche.

Probabilmente, se guardiamo solo a dieci anni, le aggregazioni associative di entrambe le parti costruite nel novecento non avranno più ragione di esistere nelle forme conosciute fino ad oggi. Evolveranno e si semplificheranno inevitabilmente. Sicuramente questo avverrà sul tema del lavoro per la caduta delle differenze settoriali, le inevitabili evoluzioni del contesto sociale, degli stessi contenuti normativi, delle modalità delle prestazioni, della formazione necessaria e del welfare collegato.

Ma ragionare sul futuro è cosa molto difficile quando i rispettivi apparati spingono per soluzioni apparentemente più semplici.

Enzo Bianchi ci ricorda sempre  che: “Sovente costatiamo che il mondo non cambia mai. Tuttavia continuiamo a credere e sperare che val la pena di tentare e ritentare di cambiarlo”. Ognuno nel suo ambito. Questo penso sia l’auspicio che ci dovrebbe sempre guidare.

ALI…Taglia?

La domanda che si pone oggi il sempre più interessante Mario Sechi sul Foglio sulla vicenda Alitalia è centrale: “Perché il mercato globale delle compagnie aeree ha registrato nel 2016 profitti netti aggregati pari a 35,6 miliardi di dollari e invece Alitalia sta(va) per fallire?”

Prima dell’arrivo di Luigi Gubitosi il piano era già scritto da settimane sui giornali: duemila esuberi e il taglio del 30 per cento dello stipendio dei piloti. Del piano industriale, intendendo con questo un piano di vera svolta, nessuna traccia.

Anche oggi di quel piano non se ne sente parlare. Ovviamente non un progetto generico scritto per non turbare la politica in altre faccende affaccendata o i sindacati preoccupati per l’insieme dei lavoratori ma un piano vero, oggettivo, utile ad uscire finalmente dalla drammatica situazione in cui l’azienda è costretta. Oppure in grado di annunciare verità ormai non più rinviabili per i costi che il nostro Paese deve e dovrà continuare a sopportare in mancanza di scelte definitive.

Nelle ristrutturazioni aziendali di grande portata la qualità e la competenza del management messo in campo sono fondamentali. Così come la conoscenza del contesto politico/sociale e del comparto economico relativo. Oltre ai freddi numeri che hanno solo lo scopo di delineare il nuovo perimetro aziendale occorre saper proporre una visione, ingaggiare chi deve sostenerla e convincere i sindacati che la strada che si vuole intraprendere è inevitabile ma anche positiva per quella parte dell’azienda che resta è che quindi è chiamata a scommettere sulla prospettiva.

Per poter realizzare tutto questo la missione affidata dal consiglio di amministrazione ai migliori cacciatori di teste è di individuare i manager più performanti sul mercato internazionale che possano dimostrare, nei progetti seguiti e attuati, le loro attitudini e capacità di muoversi in contesti complessi portando qualità e innovazione strategica. A questo dovrebbe seguire un assessment di tutto il management interno con lo scopo di valutarne la qualità e le caratteristiche in relazione al piano industriale da predisporre. Convinta, ingaggiata, resa protagonista e messa bordo la nuova prima linea è l’unica e la sola referente dell’insieme dei collaboratori.

Da qui in poi il confronto con il sindacato, soprattutto se l’azienda è in “zona Cesarini” cioè ad un passo dai libri in tribunale, deve essere costruttivo, serio e trasparente. La vicenda Alitalia non sembra avere nulla di queste caratteristiche forse perché, per alcuni autorevoli osservatori, non esiste già più alcuna possibilità di ristrutturazione e di rilancio anche perché  le scelte fatte fino ad ora, sembrano piu in linea con il passato, che in sintonia con un futuro auspicabile.

Personalmente non ci voglio credere. Un vecchio proverbio arabo recita: “Tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Alitalia non è e non sarà più l’azienda con oltre ventimila dipendenti né la compagnia di bandiera.

È un’azienda che oggi non supera i dodicimila e che perde ogni giorno centinaia di milioni di euro Dispone di una flotta di 121 aerei e, nel 2016 ha trasportato 22,6 milioni di passeggeri Conta circa 8o destinazioni ed ha 6 basi di riferimento sul nostro territorio. Il fabbisogno economico, da qui alla fine dell’anno arriverebbe a circa 900 milioni.

Per banche e creditori vari l’unica soluzione è il taglio dei costi che, da solo, non porta probabilmente da nessuna parte anche perché siamo quasi ad aprile. I ministri dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, e dei Trasporti, Graziano Delrio, in un comunicato diffuso al termine dell’incontro con i vertici della compagnia aerea hanno dichiarato: “È un piano molto ampio che contiene numerosi elementi da approfondire e che richiede un’implementazione rapidissima».

Il neo presidente Gubitosi non è Marchionne e l’Alitalia non è la Fiat. E non vedo sindacalisti direttamente coinvolti in grado di assumersi responsabilità in prima persona come hanno fatto FIM e UILM nella vicenda FCA. Inoltre il Governo, oggi, non può permettersi né di avallare un’uscita dal contratto nazionale né un piano indigeribile per i sindacati.

Eppure la vicenda Alitalia è paradigmatica di quello che oggi è il nostro Paese. Ed è per questo che la soluzione marcherà in modo indelebile la qualità di chi si siede fa al tavolo. Politici, sindacalisti, azionisti e banche.

Abbiamo davanti a noi le vicende che hanno coinvolto compagnie in situazioni veramente critiche come Swiss Air, Iberia, Vueling i cui vertici hanno saputo puntare su piani aziendali innovativi seppur molto pesanti.

Di fronte a questa azienda e ai suoi problemi ci si può rassegnare alla sua fine ineluttabile accettando un piano che va bene a tutti ma che pregiudicherà, posticipandone solo la fine, il futuro per migliaia di lavoratori. Oppure fare ciò che serve.

Il punto, però, non è trovare un accordo a qualsiasi costo. È scontato che lo si troverà. Il punto è che questo accordo segni finalmente una svolta vera utile all’impresa, ai lavoratori che resteranno e al Paese.

Lavoro, si. Ma come?

Nell’interessante relazione di Matteo Renzi al Lingotto il tema del lavoro non ha avuto il rilievo e la visione che, a mio parere, dovrebbe avere per un Partito come il PD.

Catastrofisti di professione e innovatori acritici hanno sempre condizionato, ciascuno a modo loro, il dibattito su questo tema lasciando il campo libero a chi prometteva che, il semplice intervento sul versante delle regole, avrebbe rimesso in moto un circolo virtuoso in grado di creare lavoro e mettere di conseguenza in soffitta vecchie teorie e rigidità conseguenti.

Nel nostro Paese, più che altrove, occorre aggiungere che la fragilità propositiva e di iniziativa delle parti sociali, unitariamente intese, ha contribuito ad impedire l’apertura di un confronto costruttivo a tutto campo sul futuro dell’impresa e del lavoro, della scuola, sul reddito disponibile, sulla quali/quantità del lavoro e sulla sua distribuzione.

L’unica cosa su cui (purtroppo) si sono tutti trovati d’accordo, pur muovendo da posizioni ed esigenze differenti, è stata la negazione di ciò che alcuni sociologi, economisti e giuslavoristi (Marco Biagi in particolare) avevano cercato di porre all’attenzione del mondo politico soprattutto di sinistra: il cambio di paradigma in atto e la necessaria revisione di tutta una impostazione sempre più inefficace.

E così, politica, aziende e sindacati si sono continuati a muovere su binari paralleli interpretando autonomamente le reciproche esigenze incontrandosi solo per gestire le conseguenze di quelle che erano ritenute “solo” crisi di singole, seppur importanti, realtà aziendali e degli strumenti per affrontarle. Oppure limitandosi a rimuovere semplici aspetti regolatori scambiando il dito con la luna.

L’assurdo è che, mentre crescevano nella società paure e disagi profondi soprattutto tra le nuove generazioni e in chi, espulso dal lavoro, non riusciva a rientrarci, il dibattito è diventato lontano, quasi surreale. Tutto rinchiuso tra gli addetti ai lavori o confinato mediaticamente su di un pallottoliere attraverso il quale, ogni giorno, venivano contati e rappresentati i successi o gli insuccessi della politiche occupazionali nel disinteresse generale.

Il referendum del 4 dicembre ha suonato la sveglia per tutti. Soprattutto per chi ha creduto possibile un cambiamento profondo del Paese prescindendo dal consenso necessario. O limitandosi ad interpretarlo. Senza consenso si possono fare prelievi forzati sui conti correnti, aumentare le tasse o modificare d’autorità il sistema previdenziale ma non si può cambiare il Paese. Né gettare le basi per poterlo fare. Questa è la vera lezione del 4 dicembre. Almeno secondo me.

Per questo un partito come il PD non può limitarsi a ribadire l’impegno verso l’art. 1 della nostra Costituzione. O limitarsi a rilanciare la filosofia del Jobs Act contro (tra l’altro) ad una buona parte del proprio elettorato. Dovrebbe sapere andare oltre.

Ben ha fatto il candidato segretario a rimettere al centro la scuola e l’alternanza scuola lavoro ma sul lavoro la posizione resta debole. Astratta.

Non si parla di nuove forme di collaborazione tra capitale e lavoro, di condivisione dei rischi e delle opportunità nelle imprese e nelle filiere economiche e produttive, di partecipazione dei lavoratori, di merito, di nuovo welfare, di diritti e di doveri. E non solo per i lavoratori. Anche per le imprese.

In un anno nel nostro Paese vengono spediti (inutilmente) oltre 140 milioni di CV. Come rispondere a fenomeni ed esigenze nuove di queste dimensioni? Solo a Bordeaux sono almeno 700 i bikers consegnatari. La CGT sta cercando di organizzarli. Quanti dovranno essere qui da noi prima che qualcuno affronti il problema in modo organico? Così come le nuove forme di lavoro autonomo indotte o create dalla rete. È sufficiente esaltarne le potenzialità senza farsi carico delle conseguenze? Altri, in altri Paesi, stanno cercano di gestire queste situazioni.

E quale dovrà essere il rapporto con le istanze del sindacato o con l’insieme delle rappresentanze sociali, anche datoriali? Soprattutto di quelle rappresentanze che cercano di interpretare l’innovazione e il cambiamento. Passare dall’io al noi è importante solo se il “noi” crea un ponte con il resto della società e dei soggetti che già vi operano con una discreta sintonia con le persone e i territori e con cui si devono condividere problemi e soluzioni all’interno di un operazione di verità e di trasparenza.

Non basta accorgersi di essersi ritrovati improvvisamente lontani dalle periferie o dalla concretezza dei problemi delle persone come hanno fatto alcuni esponenti rimasti o usciti da poco dal Partito Democratico. La visione nasce da questa consapevolezza. Altrimenti restano solo parole.

Una inutile dimostrazione di forza

Certe notizie non si vorrebbe mai leggerle. Un operaio licenziato per inabilità al lavoro dopo un trapianto è una inutile dimostrazione di forza. In quell’azienda c’è qualcuno che ha sottovalutato l’intera vicenda, l’ha gestita con altrettanta superficialità e ha suggerito ai vertici aziendali una soluzione boomerang.

Solo per questo, dovrebbe essere contestato. Per l’accanimento verso il lavoratore che, giustamente, è costretto a tutelare i suoi diritti nelle sedi opportune, per tutti i collaboratori che assistono indignati ad un comportamento aziendale che domani potrà essere riservato anche a loro, per l’immagine pubblica di un’impresa (soprattutto se multinazionale) che non può permettersi di trovarsi al centro di polemiche di questa dimensione nel 2017.

Solo pochi anni fa, in un’azienda importante della Grande Distribuzione del comparto non food, un dirigente, colpito da una gravissima malattia fu gestito, fino alla fine, con tutta la cautela e gli ammortizzatori necessari ben al di là di ciò che prevede il Contratto nazionale. Dal vertice aziendale, dai colleghi e dai collaboratori. Sono tanti i casi virtuosi che andrebbero sottolineati con altrettanta convinzione.

L’azienda è una comunità che ha il suo punto di forza nel clima interno. Questo è determinato da un insieme di fattori che superano le disposizioni aziendali e i contratti firmati, che vanno certamente rispettati, ma modellati sulle persone. I valori a cui quell’impresa si ispira, il rispetto reciproco, l’ascolto e la comprensione dei problemi che vivono i collaboratori dentro e fuori il luogo di lavoro e i comportamenti concreti dei capi e dei colleghi ne costituiscono la base su cui l’impegno e il coinvolgimento sugli obiettivi aziendali possono o meno realizzarsi.

È certamente vero che ogni azienda ha una sua cultura che determina i comportamenti del management e quindi la coerenza generale degli atteggiamenti che vengono premiati o che inibiscono carriere e qualità del lavoro dei singoli collaboratori ma certi limiti non andrebbero mai superati.

Nelle riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali, nei confronti quotidiani tra capo e collaboratori, nei processi di valutazione interni il rispetto reciproco è fondamentale. I casi di gravi malattie sono addirittura normati nei contratti più avanzati.

Nell’ultimo contratto dei dirigenti del terziario, ad esempio, il periodo di comporto ordinario è stato fissato in 8 mesi, mentre la precedente formulazione del CCNL prevedeva un periodo di 12 mesi. Tuttavia, in caso di patologia grave e continuativa che comporti terapie salvavita, possono essere prolungati fino ad ulteriori 180 giorni, estendendo la precedente tutela fino ad arrivare ad un periodo complessivo di conservazione del posto di lavoro con corresponsione dell’intera retribuzione di 14 mesi. È questa è solo una dimostrazione di come le parti (in questo caso Manageritalia e Confcommercio) affrontano il rischio di abuso di uno strumento abbassandone la copertura ma condividendo una soluzione intelligente per chi ne dovesse avere veramente bisogno.

Nascondersi dietro il fatto che l’inidoneità di un lavoratore rispetto alla mansione giustifichi il licenziamento non assolve l’azienda se esiste una soluzione alternativa. Tra l’altro, in questo caso, l’età del lavoratore e la sua lontananza dalla pensione rende difficile individuare altre soluzioni di natura economica.

Per queste ragioni una impresa attenta al contesto interno ed esterno non dovrebbe mai trovarsi in situazioni cosi riprovevoli né essere costretta a prenderne atto per la reazione dell’insieme dei suoi lavoratori. Il danno di immagine è fatto. Purtroppo. Resta solo l’intelligenza del vertice aziendale nel prenderne atto e nel rimediare immediatamente.

Riforma dei modelli contrattuali e ruolo delle parti sociali

Recentemente Paolo Pirani, segretario generale della UILTEC, ha dichiarato che, a suo parere, non serve più concludere la trattativa con Confindustria sulla riforma dei modelli contrattuali perché la stessa sarebbe già, di fatto, avvenuta con i rinnovi dei singoli settori industriali.

Pirani da per scontato ciò che, però, non lo è affatto. E cioè che gli impegni reciproci contenuti in ogni contratto settoriale troveranno, nella fase di gestione, l’equilibrio e la spinta innovativa necessari.

Per quanto mi riguarda continuo a pensare che un nuovo modello contrattuale non può limitarsi a riproporre uno schema che ha mostrato tutti i suoi punti deboli sia nei contenuti che nelle liturgie collegate. Occorre ripensarlo guardando in avanti.

Alcuni argomenti sono, per loro natura, materie di competenza confederale. Il peso della rappresentatività delle parti e le regole dei rinnovi, i confini applicativi e la titolarità di ciascun contratto, i livelli negoziali, i rispettivi contenuti e le eventuali derogabilità. Lo stesso welfare occorre consolidarlo su masse critiche ben più consistenti di quelle di oggi. L’accordo tra Cgil, Cisl, Uil e Confcommercio va sostanzialmente in questa direzione.

Visto da fuori, il negoziato aperto a suo tempo con Confindustria presenta una serie di contraddizioni. Da un lato il cosiddetto “Patto di fabbrica” con al centro la proposta forte della “corresponsabilità” annunciata fin dalla assemblea generale di Federmeccanica ma mai declinata concretamente. Soprattutto nelle contropartite per il sindacato.

Da allora ad oggi sono stati rinnovati tutti i contratti del comparto industriale rispettandone giustamente l’autonomia ma confermandone l’inevitabile differenza nei contenuti e nelle strategie. Nelle richieste di Confindustria ai sindacati sono chiari i vantaggi per se stessa mentre sono praticamente inesistenti le contropartite soprattutto alla luce del fatto che le altre organizzazioni datoriali, innanzitutto Confcommercio, hanno firmato un accordo con il sindacato confederale che copre l’intero comparto del terziario di notevole spessore e prospettiva.

Questi accordi evidenziano inevitabilmente una debolezza propositiva e negoziale. Con i contratti già firmati e con gli accordi delle altre organizzazioni con i sindacati solo un accordo “alto”, innovativo e ricco di vantaggi reciproci può far uscire dall’angolo il negoziato. Ed è proprio quello che non sembra essere nelle volontà dell’attuale vertice confindustriale.

Innanzitutto i tempi. Questo negoziato si trascina stancamente da mesi senza approdare a nulla di concreto che non sia già stato affrontato nei tavoli delle singole categorie, gli annunci forti del Presidente Boccia (Patto di fabbrica e corresponsabilità) restano affermazioni, al momento, privi di conseguenze concrete, la stessa richiesta di costruire nuovi contratti dei servizi innovativi pare più un’operazione di marketing associativo che di vera necessità per le imprese. Un contratto che comprende anche i servizi innovativi c’è già ed è quello del terziario firmato da Confcommercio utilizzato da molte imprese anche di altri settori proprio per la sua flessibilità applicativa che, se traslata nei contratti del comparto industriale ne minerebbe i contenuti e lo stesso perimetro applicativo.

Le differenze tra le due impostazioni sono notevoli. Innanzitutto i contratti del comparto industriale sono figli di una cultura che attraverso i rapporti di forza messi in campo ha determinato, di volta in volta, gli equilibri sui singoli contenuti, irrigidendone una possibile gestione dinamica tipica, al contrario, delle situazioni in rapido mutamento. Nel contratto del terziario tutto ciò non esiste.

Le vere rigidità, per assurdo, sono state costruite nelle singole imprese attraverso i negoziati aziendali soprattutto nella Grande Distribuzione proprio perché assimilabile culturalmente e organizzativamente al modello fordista industriale del secolo scorso. Infatti nel terziario di mercato la contrattazione aziendale non esiste se non in misura assolutamente marginale. E nessuna azienda, credo,  sembra disponibile a reintrodurla spontaneamente. E non certo per una questione dimensionale.

La contraddizione non risolta nei contratti industriali tra la complementarietà o l’alternatività tra i due livelli contrattuali nel terziario è stata risolta da anni. Non è un caso che, anche nella Grande Distribuzione, sono sempre più i contratti aziendali ,che hanno prodotto le maggiori rigidità organizzative, che vengono disdettati.

Così come la derogabilità degli istituti, anche economici non presente nei comparti industriali. Se prendiamo, ad esempio, lo spostamento a data da destinarsi, del pagamento di una tranche del’ultimo contratto nazionale del terziario, concordato tra le parti per evitare operazioni di dumping tra le imprese, ci rendiamo conto della profonda differenza di contesto.

Se questo è vero come si può pretendere in un negoziato complesso che i sindacati nel comparto industriale accettino un’impostazione che di fatto tenderebbe a renderli marginali proprio laddove vorrebbero sviluppare in futuro il loro nuovo ruolo negoziale, lasciando maggiore libertà alle imprese?

Da qui nasce lo stallo principale che potrebbe essere superato solo da un salto di qualità nei contenuti (ad esempio in termini di reale e concreta corresponsabilità attraverso forme di partecipazione) che oggi non sembra essere nella disponibilità o nella volontà dei negoziatori.

Oppure dal riconoscere, e qui condivido la tesi di Pirani, che solo nella futura contrattazione aziendale e nei contratti appena firmati si potrà trovare la soluzione ai problemi posti. Quindi nella vigenza concordata.

Il mondo è cambiato. Non basta rivendicare, come ha fatto giustamente il Presidente di Confindustria di essere ancora la seconda manifattura d’Europa; occorre, qui si, cambiare verso. Avere un progetto per il Paese, e, di conseguenza scommettere su nuove relazioni industriali, non accontentarsi di una logica tutta difensiva. Nelle imprese e tra i lavoratori e, di conseguenza anche in alcune organizzazioni sindacali e datoriali stanno emergendo esigenze strategie e interpretazioni nuove.

È indubbio che al past President Squinzi e quindi a Confindustria, va riconosciuto un merito oggi non abbastanza sottolineato: aver posto termine alla pratica degli accordi separati. Ma il merito di cambiare e innovare i modelli contrattuali e quindi di essere un punto di riferimento e di sintesi non si eredita. Lo si conquista con proposte e con risposte concrete. Soprattutto in tempi di grandi cambiamenti.

Il dolce veleno del reddito di cittadinanza

La firma dei più importanti contratti nazionali del settore privato e l’intenzione (annunciata) del Governo di intervenire già nel 2017 sul cuneo fiscale contribuiscono a rimettere su di un binario corretto il tema della tutela del reddito per chi un lavoro regolare ce l’ha.

Il dibattito che si è acceso improvvisamente sulla necessità di proporre una futura tassazione dei robot rischia di mettere in secondo piano ciò che è necessario fare oggi: una decisa lotta contro l’evasione e una conseguente riduzione del peso fiscale che grava sulle imprese e sul lavoro.

In questo contesto la proposta del Movimento 5 stelle di “reddito di cittadinanza” ha una carica dirompente. Sia politica che sociale. Fatte le debite proporzioni, direi che è molto simile, politicamente, a quella del “milione di posti di lavoro” lanciata a suo tempo da Silvio Berlusconi. La differenza è che, la proposta del leader di Forza Italia, pur criticata duramente dagli avversari, era assolutamente compatibile con il contesto culturale, sociale, economico e politico di quegli anni. Il reddito di cittadinanza non lo è per nulla. Anzi. Contribuirebbe a segnarne il definitivo declino. E non solo per il devastante impatto economico.

Dario Di Vico ha recentemente lanciato sul Corriere un allarme che non va sottovalutato: “Chiediamo solo che chiunque, a qualsiasi schieramento appartenga, abbia intenzione di formulare ipotesi di sostegno generalizzato ai redditi indichi anche il costo dell’operazione e chiarisca se è compatibile con i fragili equilibri della nostra finanza pubblica.”

A mio parere il tema del costo, pur determinante, non impedirà che anche su questo si giochino le prossime campagne elettorali. E non solo in Italia. La consistenza del reddito familiare, la paura del diverso e di una società inevitabilmente multirazziale, il declino del ceto medio unito alle inevitabili conseguenze indotte dall’innovazione tecnologica spinge una parte consistente dell’opinione pubblica a preferire risposte semplici a cui una parte della politica (per il momento ancora di vecchio conio) si è predisposta a somministrare.

E in questa opinione pubblica in fermento e alla ricerca di risposte non ci sono solo i perdenti della globalizzazione. Vi stanno prendendo posto economisti, studiosi, imprenditori, professionisti, pezzi rilevanti di classe dirigente che, in alcuni Paesi, hanno colto in queste proposte un potenziale distruttivo e alternativo alla politica (sociale) tradizionale.

Il reddito di cittadinanza potrebbe consentire al Sistema nel suo complesso un minore impegno contro la disoccupazione, produrre una maggiore indifferenza sociale nei confronti dei tagli dei posti di lavoro, spingere gli individui a subire con maggiore fatalismo le conseguenze dell’innovazione tecnologica e dei cambiamenti organizzativi delle imprese.

L’eventuale istituzione di un reddito di cittadinanza contribuirà inevitabilmente a dividere ulteriormente la società. Da una parte chi potrà mantenere le sue opportunità di studio e di lavoro dall’altra, tutti gli altri.

Infine un interessante riflessione proposta da Anke Hassel (Academic Director of the Hans Böckler Foundation’s Institute of Economic and Social Research) sul tema del reddito di cittadinanza in una visione di medio lungo periodo e, soprattutto, fuori dal mio (modesto) punto di osservazione: “Una garanzia incondizionata di reddito è in netto in contrasto con le esigenze di una società in rapida crescita anche con l’immigrazione. Un gran numero di lavoratori migranti e immigrati hanno bisogno di più meccanismi per integrarsi socialmente, non meno. È l’esperienza di tutti i giorni che conta: le persone si incontrano sul posto di lavoro, si arriva a conoscersi e ad apprezzarsi l’uno con l’altro e si impara la lingua. Considerando questo, sarebbe fatale dare alla gente un motivo per smettere di lavorare, di smettere di migliorare le loro qualifiche, e di rimanere semplicemente a casa.”

Il lavoro, come si crea, come si mantiene e come si cerca deve restare l’obiettivo prioritario di un Paese democratico al di là del pur importante problema del reddito. La sfida dell’innovazione si vince investendo, aiutando le imprese e il lavoro ad essere protagonisti insieme attraverso forme nuove di collaborazione, la formazione dei collaboratori, la loro crescita professionale, costruendo un sistema di politiche attive efficace e un welfare dignitoso. I sussidi, soprattutto in un Paese come il nostro, devono essere finalizzati al reimpiego delle persone e non alla loro ghettizzazione.

Il Potere del vuoto…

Non trovo una espressione migliore di quella utilizzata a suo tempo da Pierre Carniti per fotografare la situazione attuale: “Il vuoto di potere non esiste. Esiste il potere del vuoto”.

In una corsa scomposta verso il baratro, sempre meno metaforico, mentre tutta la politica litiga sul niente (vedi vitalizi dei parlamentari), la vicenda dei voucher esce dai confini della logica e assume contorni sempre più grotteschi.

Il segretario dei metalmeccanici della FIOM (categoria dove l’utilizzo dei voucher è inesistente) viene ricevuto sull’argomento dal Presidente del Consiglio Gentiloni e il Ministro del lavoro Poletti, improvvisamente assurto nel ruolo di rappresentante ombra degli scissionisti del PD, scavalca a sinistra ben sei proposte sull’argomento giacenti in Parlamento proponendo di limitare i voucher alle famiglie riportando così l’orologio del tempo a prima della Biagi.

Francesco Riccardi ottimo giornalista e osservatore attento dei temi sul lavoro, lucidamente, ha definito il nostro, “il Paese del tutto o niente”. Come dargli torto?

Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i dati delle ispezioni del Ministero del Lavoro, dell’Inps e dell’Inail. Parlano da soli. Evidenziano il problema vero del nostro Paese. Quando il tasso di irregolarità arriva al 63% su quasi duecentomila aziende ispezionate occorrerebbe fermarsi e ragionare.

Sono aziende che fanno concorrenza a quelle che rispettano le regole, aggirano norme e contratti a danno dei loro collaboratori e non pagano, in tutto o in parte, tasse e contributi. In Parlamento non giace alcuna proposta di intervento su questo tema, il Ministro del Lavoro incassa, senza alcun merito particolare, l’impegno degli ispettori che sul territorio compiono un lavoro difficile, a volte pericoloso, poco riconosciuto ma, soprattutto, che non riesce a fare un salto di qualità per la incredibile sottovalutazione del tema da parte della politica.

Sui voucher, no. Meglio buttare via il bambino con l’acqua sporca. Ad un recente convegno in Veneto organizzato dalla CGIL, Federalberghi ha cercato di spiegare che la stabilità dell’occupazione della regione nel comparto è lì a dimostrare che i voucher non hanno scalfito nulla. Anzi hanno contributo a far emergere pagamenti in nero e altre forme di lavoro sommerso.

La stessa Confindustria, essendo poco coinvolta, ha comunque “sommessamente” sottolineato l’utilità dello strumento, il suo contributo nell’emersione di parte del lavoro nero e l’obiettivo, condiviso, di eliminare le distorsioni emerse.

Confcommercio, con ben maggiore convinzione sottolinea che: “Oltre al riconoscimento economico, l’utilizzo dei voucher assicura anche il pagamento di contributi previdenziali e la copertura assicurativa Inail costituendo, di fatto, l’unico strumento per pagare in modo regolare prestazioni saltuarie e occasionali. Inoltre, di fronte ad un’eventuale limitazione significativa del campo di applicazione di questo strumento non ci sarebbe alcuna alternativa, né si potrebbero coprire queste attività saltuarie con rapporti di lavoro tradizionali. Secondo i dati Inps la stragrande maggioranza delle persone pagate con voucher sono lavoratori titolari anche di altra occupazione, percettori di ammortizzatori sociali, studenti o pensionati e che il compenso medio annuo è di circa 600 euro. E’ quindi evidente che le attività pagate con voucher non sarebbero sostituite da diversi rapporti di lavoro e quindi intervenire nuovamente sullo strumento comporterebbe solo la perdita di occasioni di lavoro retribuite in modo regolare”.

Tutto inutile? Sembrerebbe di sì. La “scoppolata” del referendum del 4 dicembre non ha “stordito” solo il partito di maggioranza che sostiene il Governo. Ha colpito un po’ tutta la politica.

Solo Maurizio Sacconi sembra mantenere i piedi per terra dichiarando: “Il Comitato ristretto sui voucher in seno alla commissione Lavoro della Camera ha concluso i suoi lavori con una aberrante soluzione incredibilmente condivisa non solo dalla sinistra ma anche da Forza Italia. Limitare l’uso dei voucher alle famiglie e alle imprese con un solo dipendente significa non conoscere il mercato del lavoro e le concrete situazioni occupazionali che meritano uno strumento semplice per emergere”.

Oggi il Segretario Generale della Uil dichiara a buon diritto: “Dobbiamo modificare la Fornero. La riforma delle pensioni più iniqua”. I grillini sentendosi appoggiati da un’opinione pubblica sempre più perplessa, si apprestano, come sostenuto dal buon Di Maio, all’Armageddon sui vitalizi, e alla battaglia sul reddito di cittadinanza. L’attento Francesco Seghezzi osserva: “È il classico esempio in cui per disinnescare un rischio politico non si guarda in faccia alla realtà”.

Certo, la realtà, il futuro, come ricostruire una prospettiva concreta sul tema del lavoro. l’impressione è che non sembrino interessare nessuno. Intanto i problemi incalzano.

Il Presidente della Commissione Europea Juncker ha presentato ieri il libro bianco sull’Europa e su come cambierà nel prossimo decennio (dall’impatto delle nuove tecnologie sulla società e l’occupazione ai dubbi sulla globalizzazione, le preoccupazioni per la sicurezza e l’ascesa del populismo).

Il Libro bianco delinea cinque scenari, ognuno dei quali fornisce uno spaccato di quello che potrebbe essere lo stato dell’Unione da qui al 2025. Forse dovremmo confrontarci su quegli scenari piuttosto che inseguire il novecento.

Il lavoro che verrà, è già qui…


La reazione del Ministro dei Trasporti sulla povertà dei contenuti lavorativi dei consegnatari di Foodora è piaciuta al segretario della CGIL Susanna Camusso. In effetti è un lavoretto.

La cosiddetta new economy genera anche modeste attività di consegna. Lavoro povero. Così come la nuova logistica genera, a sua volta, lavoro poverissimo. Vale anche per Uber che trasforma normali pensionati o disoccupati in neo tassisti part time o Airbnb che trasforma la vicina della porta accanto in una affittacamere. Non è tutto oro quello che luccica.

Alcune grandi multinazionali “approfittano” delle esigenze di reddito di un ceto medio impoverito per crescere in assenza di regole. Ma questo è un altro tema. I lavoretti sono sempre esistiti. Prima c’era il cassaintegrato in nero che sostituiva l’artigiano o l’universitario trentino che raccoglieva le mele nella Val di Non, oggi sostituito da immigrati rumeni.

Cosa sta cambiando allora nel lavoro? Per tanti lavoratori tradizionali, apparentemente nulla. Ci sono ancora operai, impiegati pubblici e privati, lavoratori dei servizi o della Grande Distribuzione per i quali non è cambiato il contenuto del loro lavoro. Per ora.

È cambiato però completamente il contesto nel quale, anche questi lavori vengono eseguiti. Molte delle loro imprese, se hanno un mercato globale devono cambiare, innovare, riorganizzarsi, comprimere anche i loro costi, impegnarsi in investimenti ad alto rischio per poter competere e rispondere alle richieste di flessibilità imposte dalle filiere globali nelle quali sono inserite.

Le aziende dove lavorano nascono e muoiono con una rapidità sconosciuta fino a poco tempo fa. E quindi, pur impegnati in una attività tradizionale, devono essere preparati a cambiare molto più spesso dei loro genitori.

Se le loro aziende interagiscono nel mercato interno devono competere con nuovi soggetti economici che operano in altri Paesi con regole diverse, controllano funzioni o mercati a monte o a valle, cambiano offerta e domanda di beni e servizi. Condizionano i consumatori.

Anche le imprese manifatturiere tradizionali sanno che, al prodotto, pur innovativo e al processo tecnologico che serve a metterlo sul mercato, devono predisporsi ad un salto culturale e aggiungere una serie di attività che assicurino nuovi servizi per il cliente o per il mercato di riferimento.

La parte di manifattura tradizionale e il lavoro che in essa si svolge, pur evolvendo necessariamente verso modelli non fordisti, perdono di centralità per l’impresa nel suo complesso che deve saper fare anche altro per competere.

La nuova cultura del lavoro nasce da qui. In un mondo che cambia, una parte delle mansioni e dei mestieri, pur necessari e numerosi, normati dalla contrattazione e dalle leggi nella seconda parte del 900, perdono valore economico e riconoscibilità sociale mentre ne nascono altri. Alcuni, pur non normati, sempre poveri come contenuto, altri di maggiore contenuto professionale per le capacità e per le competenze richieste.

Stabilire regole comuni di entrata nel mondo del lavoro, pensare che queste opportunità siano a disposizione di tutti allo stesso modo, definire norme indifferenziate, luoghi di lavoro tradizionali, orari e strumenti di lavoro identici per tutti è una operazione inutile. O meglio è una riproposizione di uno schema che non può funzionare.

A fronte di un “accanimento terapeutico” di norme e leggi prodotte da giuslavoristi, prima e da economisti, poi, la stragrande maggioranza delle imprese ha scelto di “gestire dinamicamente” leggi e contratti cercando di ridurne l’effetto frenante sul business e sull’organizzazione. Sfruttandone le potenzialità o lasciandole in un cassetto. Contando anche sulla sostanziale ritirata del sindacato dalle problematiche gestionali dell’impresa e dalla convergenza che si crea con l’insieme dei lavoratori in caso di crisi o di necessità particolari.

La positività di alcuni contratti sta proprio nella libertà che lasciano alla singola azienda di adattare norme e regole alle esigenze. Non è un caso che il Contratto Nazionale del Terziario lascia, meglio di altri, questa flessibilità ed è per questo è utilizzato da migliaia di aziende di differenti settori merceologici. Così come non è un caso che è proprio l’ultimo residuo di cultura fordista commerciale, la Grande Distribuzione, che spinga per un contratto nazionale dedicato tutto concentrato sul costo.

E qui sta un altro paradosso su cui riflettere. La modernità del modello organizzativo della GDO era tale nel 900. Oggi non lo è più. Deve competere con modelli tipo Amazon che la insidiano sempre di più in termini di organizzazione delle vendite, delle promozioni, degli orari di vendita, del rapporto con i consumatori.

E questo spinge tutta la GDO a continue riorganizzazioni con forti  pressioni e aggressività sui costi, innanzitutto su quello dei fornitori e del lavoro, che si riflette inevitabilmente sulle relazioni sindacali e con i fornitori.

Così mentre molti piccoli esercizi si stanno in parte attrezzando e oggi, attraverso una evoluzione digitale alla loro portata accrescono il loro potenziale di mercato, la GDO si avvita su se stessa senza riuscire ad innovarsi nei format di vendita. Anzi, il modello di riferimento, gli ipermercati, rischia di trovarsi in una crisi irreversibile.

Per tutto queste considerazioni il lavoro che verrà è già qui. Intreccia il suo lato povero o tradizionale su cui occorre trovare risposte diverse dal 900 che assicurino diritti di cittadinanza esigibili, un salario minimo, dignità nuove e un welfare contrattuale adeguato. Ma presenta anche nuove opportunità, soprattutto per i più giovani e per coloro i quali vogliono crescere professionalmente. E per le aziende che vogliono investire su se stesse e sui propri collaboratori.

Per queste imprese le regole devono essere lasche, intelligenti, costruite per motivare, coinvolgere e raggiungere gli obiettivi di business. Non legate a modelli superati.

Lavorare a questa nuova impostazione che comprenda gli uni e gli altri con le rispettive differenze dovrebbe essere il compito delle parti sociali e degli esperti della materia. Al centro attraverso leggi e contratti nazionali evoluti, in azienda coinvolgendo i diretti interessati.

Taxi e Alitalia. Siamo sicuri che c’è tempo da perdere?

Taxi e Alitalia, in fondo, rappresentano bene il modo di operare di un Paese che preferisce non prendere atto della realtà e sposta sempre in avanti il momento delle scelte e delle decisioni.

Cosa è successo? In fondo nulla. Appunto. Un grande caos di sei giorni culminato con una manifestazione a tratti violenta, un incontro con il Ministro dei trasporti che ha partorito un mese di riflessione nel quale si troverà un accordo per rinviare più in là la resa dei conti con un futuro che incombe e che indica, sempre meno sommessamente, una strada opposta.

Hanno vinto tutti. Quindi chi ha perso non era in quelle stanze…

Nessuno che spieghi ai tassisti la differenza tra vincere una battaglia per abbandono dell’avversario e il rischio di perdere la guerra se la categoria non cercherà di evolvere, di cambiare atteggiamento, di lavorare per il proprio futuro e non di rivendicare esclusivamente un diritto inesigibile: quello di impedire qualsiasi cambiamento.

Sembra che, in questo Paese, nessuno se la senta di affrontare i problemi. Mi ha stupito il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda che, dopo l’annuncio del ritiro della disdetta del contratto aziendale Alitalia si è dichiarato soddisfatto. Da lui non me lo sarei aspettato. Lo credevo di un’altra categoria.

Ma veramente qualcuno può pensare che un rinvio del problema ad un prossimo confronto su un nuovo contratto aziendale tra un’azienda “alla frutta” e una categoria sindacale che non sa cosa fare, vista la dimensione del problema, possa portare ad un risultato utile? Separare il tema degli esuberi, quindi del piano industriale, da quello del contratto aziendale è un errore. Anche in vista di possibili nuovi partner.

È comprensibile che lo commettano i sindacati che devono gestire le conseguenze sui loro iscritti, non lo è affatto per il Governo che si troverà, inevitabilmente,  a dover pagare il conto. Anche dei ritardi. Così come è stato nel negoziato che ha portato alla definizione delle nuove regole interne all’avvio del progetto precedente. E qui si ritorna al tema. La paura delle reazioni, quindi, ancora una volta, si concorda che è meglio “allungare il brodo”.

Queste due vicende sono paradigmatiche di un Paese che non riesce a prendere atto che i problemi non si risolveranno da soli e che lo sforzo da mettere in campo per affrontarli non può essere lasciato solo sulle spalle del Governo o di un’azienda.

Il “ce lo chiede l’Europa” non funziona più. Occorre prendere atto che che occorre uno sforzo e una assunzione di responsabilità comune. E qualcuno che parli chiaro al Paese. Altrimenti, di rinvio in rinvio, finiremo male, molto male. Tutti insieme.

Jobs Act. Se resta l’equivoco di fondo…

I pur robusti interventi economici a sostegno del contratto a tempo indeterminato non hanno sortito l’effetto sperato e, finiti gli incentivi, sta piano piano, svanendo. Era prevedibile? Per alcuni era assolutamente scontato per la modalità stessa con cui sono stati concepiti gli incentivi.

Per altri, al netto delle preoccupazioni delle imprese sul loro futuro, no. Per loro poteva rappresentare la svolta sperata. L’estenuante politica degli annunci sui progressi mensili delle nuove norme e le contestazioni di rimando hanno fatto il resto. L’obiettivo del Jobs Act in fondo era chiaro. Spingere le aziende a convincersi che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato doveva ritornare ad essere prevalente rispetto alle altre formule, anche sui nuovi assunti. L’abrogazione dell’art. 18, da molti ritenuto un elemento centrale di impedimento alle assunzioni a tempo indeterminato, andava in quella direzione.

Purtroppo il perdurare di un aspro scontro sui “massimi sistemi” impedisce ancora oggi di avviare una riflessione scevra da strumentalizzazioni e quindi è difficile affrontare con sufficiente serenità l’approccio, e quindi le motivazioni, che stanno dietro ai comportamenti concreti delle imprese. Prima o dopo il provvedimento in questione e, in alcuni casi, lontani dalle intuizioni dei giuslavoristi.

A mio parere è invece importante farlo. Il Jobs Act è stato visto ovviamente con favore soprattutto per gli sgravi contributivi e per le evidenti  vie di uscita che comunque offriva. Era in sostanza un lavoro a tempo indeterminato con un costo di uscita definito. Quindi, tutto sommato, sopportabile.

Il punto è che, per le imprese, i lavoratori, non sono tutti uguali. Con molti di loro è sicuramente necessario costruire una sorta di patto che giustifichi l’investimento e i reciproci ritorni in termini di risultato aziendale ma anche di sviluppo professionale, formazione continua, politiche retributive. Il contratto prevalente, in questo caso, è ancora quello a tempo indeterminato. Prima o dopo il Jobs Act.

Questo non significa che il rapporto durerà per sempre. Significa solo che durerà fino a quando lo scambio comporta reciproci vantaggi. Entrambi i contraenti hanno convenienza a mantenerlo, svilupparlo e consolidarlo.

Parliamo di figure manageriali, specialisti, professional, giovani inseriti in percorsi di crescita, risorse comunque importanti per l’azienda stessa e non necessariamente individuati nei gradini più alti dell’inquadramento professionale. La differenza in questo caso la fanno i superminimi, i benefit, i premi legati alla realizzazione degli obiettivi aziendali. Ma anche le opportunità di sviluppo professionale, la formazione aziendale o interaziendale messa loro a disposizione.

Tutte queste figure non sono affatto marginali nelle aziende e sono sicuramente in crescita numerica, anche e soprattutto, per gli importanti cambiamenti organizzativi che attraversano le imprese di ogni settore. Nessuno si considera ormai in azienda per sempre ma l’investimento sulle risorse umane è una sfida decisiva colta dalla stragrande maggioranza delle imprese a garanzia del loro futuro.

Fuori da questo perimetro che coinvolge più o meno un terzo delle risorse di un’azienda (tra già assunti e nuovi e pur con tutte le eccezioni del caso) ci sono gli altri. Quelli comunque garantiti dalla legislazione vigente e quelli resi flessibili sempre dala stessa legislazione per bilanciare, in tutto o in parte, il costo o le rigidità organizzative dei primi. Da un lato restano i vincoli degli attuali sistemi contrattuali, gli inquadramenti, le anzianità, gli usi e le consuetudini aziendali. E una relativamente scarsa volontà delle imprese e, forse, delle persone stesse, di investire sulla loro occupabilità e sul loro futuro anche pensando al di fuori dall’azienda nella quale sono occupati.

Dall’altro ci sono quelli che, da quei vincoli non sono tutelati e quindi si devono impegnare ogni giorno per mantenere il loro lavoro e sui quali le aziende investono in termini di crescita individuale solo quando le persone mostrano un vero interesse e una forte disponibilità a condividerne valori, obiettivi e cultura. Altrimenti vengono nei tempi e nei modi consentiti dalla legge, ritenuti sostituibili. Quindi figure professionali fungibili per le quali il tempo determinato comunque inteso è una formula più funzionale.

I sindacati, e questo è comprensibile, si sono sempre mossi, al contrario, per riportarli tutti nell’alveo contrattuale tradizionale. Missione, ovviamente impossibile.

Questo dualismo si supera solo se i sistemi contrattuali verranno ricostruiti meno sui vincoli e più sulle opportunità; sulla corrispondenza tra mansione e retribuzione, sulla revisione dei modelli di inquadramento, sul riconoscimento del merito, sulla flessibilità dei modelli organizzativi e prestazionali, sulla occupabilità e quindi sulla formazione continua delle risorse, sulla collaborazione tra capitale e lavoro e sulla condivisione degli obiettivi dell’impresa per tutti. Così come su di una strumentazione di politiche attive veramente efficace.

Una ricostruzione che deve rimettere al centro lo scambio, i vantaggi reciproci e gli strumenti più efficaci per realizzarli. Forzare per obbligare le aziende ad assumere o a investire genericamente su un modello contrattuale superato e, per certi versi, estremamente costoso, non serve a nulla.

Certo un intervento sul cuneo fiscale sarebbe auspicabile ma è illusorio pensare che questo, da solo, spinga le aziende ad una cultura del lavoro che funzionava nel 900 solo perché supportata da rapporti di forza sfavorevoli. Oggi non è più così e non lo sarà più. Io comunque resto ottimista. Una nuova cultura del lavoro non può non affermarsi nel sindacato e nelle imprese.

Ci sono, è vero, segnali di rischiosi tentativi di ritorno al passato ma anche segnali incoraggianti e importanti, ad esempio, nel recente contratto dei metalmeccanici, nel contratto del terziario così come, in altri contratti nazionali appena firmati.

L’aver ribadito in tutti i comparti l’importanza stessa del contratto nazionale come cornice di riferimento con i relativi rinvii, a livello aziendale, segnala una disponibilità che attraversa anche lo stesso mondo delle imprese. Altrimenti questa stagione non si sarebbe conclusa così.

Questa disponibilità va coltivata nella fase di gestione dei contratti appena firmati proprio per affrontare il cambiamento e rilanciare un nuovo ruolo delle parti sociali che sappia rimettere al centro il lavoro. Ovviamente il lavoro come dovrà essere domani e non come lo è stato nel secolo che abbiamo alle spalle.