Il canto del cigno del 900…

Difficile prevedere come finiranno le due vertenze aperte in questi giorni. E, comunque si concluderanno, rappresentano l’inevitabile tramonto di una cultura che appartiene al secolo che abbiamo alle spalle. Un tramonto, però, troppo lungo che non possiamo più permettercelo.

Alitalia e tassisti rappresentano, che lo si voglia riconoscere o meno, due facce della stessa medaglia. Lo stesso potere di interdizione e, sostanzialmente, lo stesso target di cittadini/consumatori coinvolti. I primi invocano la nazionalizzazione, i secondi la difesa ad oltranza contro un futuro che non li prevede. Almeno così come molti loro intenderebbero affrontarlo.

Individualmente hanno buone ragioni. Le stesse del negoziante che chiude per l’arrivo nel quartiere di un supermercato che apre h24, del lavoratore che perde il lavoro perché la sua azienda delocalizza, del piccolo artigiano mobiliere brianzolo con l’arrivo di IKEA.

Loro sono diversi solo perché hanno ancora un enorme potere di interdizione. Ma il destino è comunque segnato. Entrambi, almeno così appare, non cercano, almeno per il momento, nessuna mediazione.

Ad oggi, sei giorni di blocco del servizio da parte dei tassisti. Sull’altro versante una reazione durissima su tutte le proposte aziendali. Il tono, in entrambe le vertenze, nasconde ovviamente preoccupazione e paura. Come nel 900 ci si affida e si spera che un terzo soggetto (il Governo) ci metta del suo per riportare indietro le lancette del tempo.

Nel caso dell’Alitalia ci sono evidentemente responsabilità da distribuire. Quindi non riguardano solo i lavoratori e i loro rappresentanti. Questa però è solo una magra consolazione. Personalmente mi ricorda la vertenza Unidal (Motta e Alemagna) sul finire degli anni 70 dove, dopo la presentazione di un piano che prevedeva quasi tremila licenziamenti respinto al mittente con lotte durissime, si concluse con oltre quattromila licenziamenti e la fine di entrambe le aziende.

Alitalia oggi è ad un passo dal fallimento. Non ha più nulla della compagnia di bandiera del secolo scorso né potrà ritornare ad esserlo. Può però essere oggetto di un profondo ridisegno del perimetro di attività e di una ridefinizione del numero degli addetti, del loro utilizzo e del costo complessivo del lavoro. Il confronto non può essere spostato su altro. Né sulle recriminazioni.

E va fatto in tempi sufficientemente rapidi affinché la ragionevole certezza di un suo possibile rilancio convincano azionisti e Governo a sostenerla con tutto ciò che è in loro potere decidere. Non esiste un piano B. Così come per i tassisti. Occorrerebbe mettere a loro disposizione e alle loro rappresentanze qualcuno che li aiuti ad evolvere con progetti, idee e modalità di lavoro nuove. Spingerli a prendere atto che non è nel muro contro muro che risiede il loro futuro.

Personalmente spero che il Governo non si limiti a rimuovere il vulnus che ha causato la protesta ma che, al contrario, apra un percorso di confronto aiutando almeno i tassisti più sensibili a riflettere su opzioni possibili, su come attivarle nel tempo e su come favorirle, su come, infine, attenuare le conseguenze del cambiamento necessario.

È vero che l’Anpal è solo all’inizio ma questo potrebbe essere un importante compito da affidargli. Come si costruiscono progetti imprenditoriali piccoli o grandi non è altra cosa rispetto a come si trova un lavoro dipendente dopo averlo perso.

Occorre abbassare il livello di paura nei confronti del futuro. Occorre aiutare le persone ad affrontarlo. Altrimenti non resta che la resistenza a oltranza.

Anche se, purtroppo, questo rappresenta il canto del cigno di abitudini e convinzioni che non si rassegnano a cedere il passo a modelli di risoluzione dei conflitti più concreti ed efficaci.

Terziario si, però secondi a nessuno…

Carlo Sangalli, Presidente di Confcommercio, lo ricorda spesso. “Terziario si, però secondi a nessuno”. Più che uno slogan azzeccato è un dato di fatto. Il terziario di mercato, visto sempre con una certa superficialità da chi proviene da una tradizionale cultura industrialista, ha una suo perimetro, un potenziale di crescita sempre più importante, un peso sul PIL del Paese ben superiore a quello di altri settori merceologici. E anche negli anni della crisi ha messo a disposizione un importante contributo per consistenti sbocchi occupazionali soprattutto a vantaggio delle giovani generazioni.

Un importante contratto nazionale firmato da Confcommercio che consente a decine di comparti economici del terziario di mercato, pur diversi tra di loro, di trovare costi ragionevoli e flessibilità necessarie, una bilateralità che sposta, su alcune materie, fuori dalla singola azienda il rapporto tra sindacato e impresa rendendolo utile, funzionale e meno conflittuale, un significativo welfare contrattuale che sostiene centinaia di migliaia di lavoratori sul versante della sanità e della previdenza.

Ai manager del terziario inoltre è riservato un contratto innovativo che consente alle imprese un ottima base sulla quale poter personalizzare il rapporto e ai dirigenti stessi di poter contare su un welfare importante ma anche ad un “diritto soggettivo” alla formazione e quindi una garanzia di maggiore occupabilità, in vigore fin dal 1994. È un perimetro ben presidiato. Così come legittimamente altri presidiano da anni il loro perimetro.

L’inevitabile tramonto della cultura fordista pone un problema di fondo alle imprese manifatturiere. Industry 4.0 segnala la necessità di una terziarizzazione di molte attività, ridimensionando la pur importante parte legata alla classiche attività industriali che sposti sempre più l’attenzione verso il cliente e quindi verso il servizio ciò che era quasi esclusivamente una cultura di prodotto o di processo.

Lo stesso problema permane, seppure con pesi differenti tra le diverse organizzazioni, nella cultura del sindacato di matrice industriale che spesso fatica a comprendere che il ruolo del servizio, del cliente e della persona ritornano ad essere centrali ma questo necessita di nuove forme di coinvolgimento, personalizzazione incentivazione e organizzazione che tendono, per loro natura, a privilegiare il rapporto tra azienda e persona, integrare i processi a monte e a valle dell’impresa stessa, riducendo inevitabilmente ruolo e peso delle rappresentanze sindacali. Oppure a riorientarne l’iniziativa.

I contratti fino ad ora firmati, se togliamo, le intuizioni, le intenzioni e, spero, gli impegni da onorare contenuti nell’ultimo rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, ripropongono sostanzialmente uno schema classico. 

Non sono previsti scambi significativi, derogabilità di istituti anche economici, indicazioni per eventuali esigenze di flessibilità organizzative. Soprattutto quando le imprese intendono investire in aree innovative con i rischi conseguenti o gestire momenti di difficoltà.

La logica tradizionale, tipica delle relazioni industriali mutuata dalla grande impresa manifatturiera fordista, è che i contratti, siano essi nazionali o aziendali, si basano su una scontata omologazione e omogeneità degli accadimenti e delle risorse umane coinvolte lasciando l’eventuale necessità di reagire al contesto e/o la personalizzazione solo all’iniziativa dell’azienda.

Non c’è alcuno spazio definito o da concordare per la specificità dell’impresa, della sua fase economica, del riconoscimento del merito individuale dei collaboratori, della distribuzione del tempo di lavoro nelle fasi di start up di attività, ecc.

Se prendiamo, ad esempio, come viene affrontata la malattia del lavoratore, oggi ritornata di attualità nel Pubblico Impiego, osserviamo in modo plastico la differenza di impostazione tra i contratti. Quelli di matrice industriale considerano il problema solo sul piano quantitativo. Esiste un diritto, uguale per tutti e per un certo numero di giorni. Tutto il resto non riguarda le parti. Semmai riguarda le ASL, i controlli fiscali o l’azienda stessa attraverso premi legati alla presenza.

Nel CCNL del terziario, firmato da Confcommercio, le parti concordano che determinati comportamenti negativi e ripetuti possono cambiare qualitativamente i contenuti concreti di quel diritto. Se ne assumono la responsabilità delle conseguenze modificandone, addirittura, il corrispettivo economico. È quindi il punto di osservazione che cambia.

Il primo, di stampo fordista, tende a considerare tutti allo stesso modo perché il comportamento individuale non è  ritenuto significativo. Il secondo, al contrario, lo considera un elemento dirimente di cui le parti se ne devono fare carico.

Ho scelto deliberatamente un argomento su cui permangono profonde differenze di giudizio solo per dimostrare la differenza di approccio. E così vale per la costruzione e la gestione di molti altri istituti contrattuali. La differenza non è marginale. È innanzitutto di atteggiamento culturale.

Il recente contratto dei metalmeccanici, ad esempio, propone significati elementi innovativi che vanno nella direzione di ridurre quel vuoto. Affidando alla contrattazione decentrata questi compiti. Ma il vuoto permane ed è il prodotto di una cultura specifica, di scelte precise decise negli anni e la strada per ridurlo è decisamente più complessa di ciò che può evidenziare un’analisi non approfondita.

Eppur si muove…

La decisione della FIOM CGIL di lanciare una indagine a 360 gradi in FCA è, di per sé, un importante segnale di riposizionamento positivo che non va sottovalutato.

Dopo la firma unitaria del CCNL era comunque necessario affrontare il rapporto con la principale azienda del settore e, sul tema, con le altre organizzazioni sindacali.

Dichiarare apertamente come nel loro comunicato ufficiale che: “La nostra è un’inchiesta senza “paracadute”. Il tema non è dimostrare quello che noi già pensiamo ma capire come le azioni dell’azienda hanno cambiato le cose e se e quanto tutto quello che abbiamo cercato di fare come Fiom in questi anni, grazie allo straordinario lavoro dei delegati, è vivo tra i lavoratori. Bisogni e desideri in stabilimenti cambiati dalla crisi, dal contratto e dalla nuova organizzazione del lavoro.

È ovvio che questo prevede la nostra disponibilità ad accettare tutti i risultati che emergeranno e, in base a questi, riorientare le scelte di carattere sindacale.”

Da qui emerge tutta la concretezza della nuova direzione di marcia della FIOM impressa da Landini che segue il rinnovo del CCNL. Non solo in FCA. L’indagine dimostrerà ciò che non può non dimostrare: il cambiamento in atto negli stabilimenti non solo dal punto di vista tecnologico e organizzativo ma anche sociale.

La FIOM aveva scommesso sul declino e il declino non c’è stato. La ripresa del lavoro negli stabilimenti non ha risolto di per sé il problema della fatica o del salario ma ha creato delle condizioni nuove di appartenenza, condivisione e impegno tra i lavoratori che non erano né proponibili né percepibili nella fase declinante.

Soprattutto da quella parte dei militanti e dei delegati che, non comprendendo il cambio di fase, insistevano nel riproporre un modello che faceva perno sul contratto nazionale e sulla contrattazione aziendale in vigore, costruita negli anni precedenti la grande crisi.

A differenza degli altri sindacati di categoria la FIOM, non riuscendo a percepire un futuro dell’azienda, ha preferito scommettere sulla difesa di ciò che il passato aveva prodotto di positivo per i lavoratori pensando di poterlo difendere con l’iniziativa sindacale o con i ricorsi in magistratura. Ha sottovalutato la determinazione dell’azienda, l’assenza di alternative praticabili, la debolezza delle dinamiche confindustriali ma, soprattutto, il modificarsi dell’orientamento dei lavoratori che hanno scelto, insieme alle altre organizzazioni sindacali, di accettare una scommessa complessa con l’azienda piuttosto che una difesa ad oltranza di una realtà che non esisteva più se non nei ricordi collettivi di prima del massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali.

Questa indagine si svilupperà in un anno decisivo per il futuro di FCA è, se fatta bene, fornirà indicazioni importanti per il futuro stesso delle relazioni industriali. Quindi se ne potranno avvantaggiare anche le altre organizzazioni sindacali.

A Landini il compito di riportare un po’ di sana concretezza emiliana nelle relazioni sindacali della più importante azienda italiana. Agli altri la disponibilità e la pazienza di reggere qualche gomitata fuori misura.

Una ripresa di rapporti unitari in FCA resta comunque decisiva per il futuro di una parte importante del movimento sindacale italiano. Speriamo che questa indagine ne consenta un rilancio.

Contratti della Grande Distribuzione. Adesso tocca al Ministero del lavoro.

L’iniziativa era nell’aria. Rita Querzé ne scrive oggi sul Corriere. Sia Confcommercio che i sindacati di categoria non potevano non rompere gli indugi e chiamare il Ministero del lavoro alle sue responsabilità.

Ci sono aziende che applicano un contratto nazionale e si sobbarcano i relativi obblighi e costi e ci sono aziende che non applicano un bel nulla ma che ne godono dei benefici economici e contributivi. Per un paio di anni e fino a poco tempo fa la indubbia capacità di lobby di Federdistribuzione è riuscita a convincere il Ministero del lavoro che la firma di un contratto nazionale specifico fosse imminente spingendo così il Ministero a temporeggiare rispetto ai suoi obblighi di vigilanza.

La vicenda è nota. Federdistribuzione è uscita da Confcommercio e ha convinto le aziende che vi hanno aderito a puntare ad un contratto nazionale specifico proponendo obiettivi ambiziosi quanto difficilmente realizzabili.

Il sindacato, con sensibilità differenti, ha tentato di restare in gioco giocando su tutti i tavoli possibili pur trovandosi di fronte a richieste, non solo irricevibili, ma che rischiavano, se accettate, di sfaldare l’intero sistema contrattuale del settore. Il punto è che non tutte le aziende del comparto aderiscono a Federdistribuzione. Molte sono in Confcommercio, altre applicano il contratto nazionale della cooperazione, alcune, infine, quello di Confesercenti.

Federdistribuzione ha insistito nel tenere al tavolo negoziale i sindacati con la promessa di chiudere in breve tempo ma, questi ultimi non ci hanno messo molto a comprendere che questa situazione rischia solo di avere come effetto collaterale grave l’assenza di una copertura contrattuale per decine di migliaia di lavoratori e quindi anche una situazione di evidente dumping tra imprese.

Le difficoltà economiche del settore e l’assenza significativa di iniziative sindacali spingono molte aziende della GDO, addirittura, a preferire l’assenza di un contratto ad un contratto comunque e quindi la situazione si è, piano piano, infilata in una palude da dove sarà sempre più difficile uscire.

Da qui le polemiche e le cicliche accuse di Federdistribuzione a Confcommercio e ad una parte del sindacato di voler impedire la sottoscrizione del contratto. Tesi sufficientemente ardita perché presuppone l’esistenza, al contrario, di una altra parte del sindacato disponibile a firmare comunque cosa fino ad oggi non manifestata in nessuna sede ufficiale.

Confcommercio, d’altro canto, non può che tutelare l’interesse delle aziende che vi aderiscono e quindi il punto, per questa Confederazione, non è impedire la firma di un contratto altrui. Anzi. Semmai si raggiungesse, in questo infinito negoziato, un risultato economicamente o normativamente più vantaggioso per le aziende questo non potrebbe che essere rivendicato sia da Confcommercio che da Confesercenti e, infine, anche dallo stesso mondo cooperativo.

Occorre sempre tenere presente che il contratto di Federdistribuzione riguarda circa centocinquanta mila addetti mentre solo quello di Confcommercio oltre tre milioni di addetti. I rischi sono evidenti.

Il problema di chi ha firmato il suo contratto nazionale è che non può tollerare una situazione dove alcune imprese godono di un vantaggio a prescindere mentre chi ha rispettato le regole ne ha un danno. Tutto qua.

Come ho già avuto modo di scrivere la strada imboccata da Federdistribuzione è sbagliata. Se qualche anno fa poteva avere ancora un senso la polverizzazione contrattuale per garantire alcune prerogative, oggi è un inutile .

Occorrerebbe una maggiore lungimiranza puntando decisamente verso modelli che prevedano l’applicazione di un unico contratto nazionale del terziario con, eventualmente, alcune deroghe necessarie che garantiscano una specificità settoriale da cui far discendere un nuovo modello di contrattazione aziendale costruito sulle esigenze della singola impresa. I modelli contrattuali che si stanno costruendo vanno tutti in questa direzione.

Capisco che non è facile cambiare strategia quando l’esigenza politica di affermare la propria esistenza associativa impedisce di alzare lo sguardo. Ma il mondo è veramente cambiato e attardarsi verso vecchi modelli contrattuali rischia solo di impedire l’evoluzione del contesto.

Le aziende della GDO stanno attraversando una fase estremamente complessa che sta rimettendo in discussione la dimensione e la presenza di molti gruppi nazionali e internazionali sul mercato, i loro modelli organizzativi, gli stessi format di vendita. Molte di loro sono impegnate in sforzi formativi importanti che consentono a migliaia di giovani di crescere e sviluppare professionalità e carriera.

La stessa Federdistribuzione è impegnata su versanti importanti dove esercita un ruolo di accompagnamento di affermazione e di ammodernamento del settore con grande determinazione. Sul versante sindacale, al contrario, le esigenze delle singole imprese, hanno sempre impedito la costruzione di una vera cultura associativa che, per sua natura deve saper operare sintesi con le rispettive controparti.

Altrimenti ci si trova nella situazione in cui si è oggi. Cosa prevedibile fin dall’inizio di questa avventura…

La nuova stagione dei metalmeccanici

La recente firma unitaria del CCNL dei metalmeccanici è un risultato positivo a prescindere. Segna la volontà di riprendere un cammino concreto che guarda ben più lontano del merito e dei risultati del negoziato.

La stessa gestione delle assemblee di ratifica, il clima presente e la volontà comune di tenere al palo, senza se e senza ma, quel 20% di oppositori di mestiere ne sono la conferma.

Le tre organizzazioni hanno scelto, insieme, di investire nella prossima contrattazione aziendale e quindi hanno costruito un contratto nazionale che ne rappresenta la cornice indispensabile. Una contrattazione aziendale, che, laddove ne esisteranno le condizioni, cercherà di “sfidare” le aziende sul terreno della produttività, del coinvolgimento e quindi della condivisione e, ultimo ma non meno importante, della formazione continua dei lavoratori.

Landini ha capito benissimo che un riposizionamento del gruppo dirigente della FIOM in chiave unitaria era necessario. Andare per salotti televisivi in tempi di grillismo imperante significa solo lavorare per il re di Prussia. Che lo si voglia o meno. Anche perché, dai territori, i cosiddetti accordi “difensivi”, si sono, nel tempo, moltiplicati e la FIOM non si è certo sottratta ad apporre la sua firma gestendone con responsabilità e preoccupazione tutte le conseguenze.

Resta aperto il vulnus principale. Il macigno sulla strada del riposizionamento definitivo: la vicenda FCA. È un passaggio delicato perché coinvolge anche l’approccio culturale di numerosi dirigenti sindacali, di molti delegati e iscritti, non solo di quell’azienda. Le loro storie personali, le loro scelte ma, soprattutto le conseguenze di quelle scelte.

D’altra parte i sindacati, non solo quelli del comparto metalmeccanico, se ripercorriamo le scelte nell’ultimo decennio, entrano ed escono dai contratti firmati o rifiutati nei rinnovi successivi senza mai fare fino in fondo i conti con gli eventuali errori commessi precedentemente. Né proponendo autocritiche.

La vicenda FCA è però diversa. L’azienda è cambiata profondamente e ha sempre giocato le sue carte provocando essa stessa i sindacati con l’obiettivo di modificare il perimetro, i contenuti e le modalità del confronto. Solo la lungimiranza delle altre organizzazioni sindacali di categoria e la loro disponibilità ad esporsi e ad assumersi forti rischi politici ha consentito di riprendere per i capelli situazioni ormai quasi compromesse.

Ma l’azienda non è mai stata intenzionata a concedere sconti neanche ai firmatari degli accordi. Il livello, le modalità e i contenuti del confronto sono cambiati disegnando uno scenario proprio di un nuovo modello di contrattazione aziendale. E quindi di relazioni industriali. FIM e UILM lo hanno capito benissimo.

E qui, a mio parere, sta il punto vero. Non è tanto un problema di come rientrare in gioco limitandosi a superare il passato. Oggi ci sono nuove regole del gioco e nuove modalità di confronto. E lo vedremo concretamente nella gestione del contratto nazionale.

Fare paragoni tra i contenuti economici del recente contratto dei metalmeccanici e quello in vigore in FCA non serve a nulla. Anzi. È un inutile esercizio di stile. L’unico vero paragone che ha senso proporre è nella filosofia di fondo tra i due modelli che è sostanzialmente identica.

Di più. Non ci sarebbe stato il rinnovo del contratto nazionale unitario in questi termini se non ci fosse stato lo strappo FCA. Realtà dove la priorità, oggi, dei sindacati che hanno accettato la sfida, credo sia quella di consolidare il lavoro nel Gruppo e il suo perimetro produttivo nel Paese. Occorrono nuovi occhi. Altrimenti non si rientra in gioco. E, soprattutto, non si esercita nessun ruolo propositivo.

Il lavoratore FCA di oggi si sente, al contrario, in partita. Si riconosce nella sua azienda, ne condivide gli obiettivi, è parte attiva del suo rilancio. E quindi si aspetta dal sindacato un comportamento coerente. Sentire, in una intervista televisiva, un delegato sindacale di uno stabilimento del sud chiamare l’AD di FCA “dottor” Marchionne è un segno dei tempi.

C’è rispetto dei ruoli, sobrietà nei comportamenti e nelle dichiarazioni, condivisione di obiettivi. Le nuove relazioni industriali si costruiscono in FCA e altrove, anche su queste tre caratteristiche semplici. Ma, come tutte le cose semplici, sono molto difficili da declinare….

Part time agevolato e pensioni, un flop prevedibile

Una idea interessante che non ha interessato praticamente nessuno. Come definire diversamente i dati consuntivi del cosiddetto part time agevolato per chi è vicino alla pensione?

Non piaceva alle aziende, non solo per il costo, né ai sindacati che non lo hanno particolarmente sostenuto. Né ai futuri pensionati. Quelli meno propensi a lasciare il lavoro o a modificarne spontaneamente l’impostazione.

Piaceva solo al Ministero del Lavoro che stimava trentamila adesioni. Se ne dovrà accontentare di poche decine. È una delle tante misure estemporanee proposte da chi, in azienda, non ci è mai stato.

L’approssimarsi della pensione rende le persone più fragili sul piano organizzativo. Fingono tranquillità e sicurezza nei confronti dei colleghi, apparentemente invidiosi del loro stato, ma sanno benissimo di essere, comunque, “sopportati”. Figuriamoci ad orario ridotto. Situazione aggravata psicologicamente se il futuro pensionato non ha bene chiaro come riempirà il tempo che avrà a sua disposizione.

L’azienda se lo ritiene ancora utile gli offrirà una collaborazione altrimenti ne ha già da tempo previsto la sostituzione. Soprattutto se la mansione del futuro pensionato non è particolarmente complessa. Nella maggioranza dei casi è solo un costo da cui liberarsi al più presto.

A mio parere occorrerebbe partire da una riflessione più ampia altrimenti si rischia di non vedere il problema. Innanzitutto dovremmo superare la cultura che considera il lavoratore vicino alla pensione un peso e quindi solo un costo.

Sono almeno trent’anni (dalla nascita dei prepensionamenti e delle cosiddette dimissioni volontarie) che le aziende considerano chi è vicino alla pensione sostanzialmente un peso da cui liberarsi alla prima occasione. Per i sindacati, d’altra parte, rappresentano una importante valvola di sfogo che evita interventi più dolorosi.

Poi è arrivata la Fornero. L’intervento del ministro del lavoro del Governo Monti ha modificato i termini del problema. Lo ha affrontato sul piano economico/previdenziale ma non calcolando (o non potendo calcolare) le conseguenze culturali, organizzative e sociali che un intervento di quel tipo avrebbe determinato.

Il primo effetto è stato quello di contribuire a disegnare una nuova figura sociale (l’esodato) piazzato a sua insaputa in una terra di nessuno dove era troppo giovane per andare in pensione ma troppo vecchio per trovare un lavoro. In secondo luogo creando, nelle aziende, la figura del “mancato pensionabile”. Un peso per tutti. Per il soggetto coinvolto che si trova a dover posticipare i suoi piani cercando energie e motivazioni non sempre facili da ritrovare, per l’azienda  che vorrebbe disfarsene, ma anche per i colleghi stessi.

Occorre intervenire su cultura e comportamenti. Da parte delle aziende prendendo atto che la vita lavorativa delle persone si è allungata e che quindi è necessario costruire politiche organizzative, di sviluppo, valorizzazione e motivazione che non possono non tenere conto di questi cambiamenti profondi.

Ma anche i sindacati che, se non vogliono trovarsi con ricadute occupazionali di difficile gestione, devono prevedere strumenti nuovi che consentano alle aziende di ridurre i costi non giustificati da una effettiva professionalità e non si attardino su concetti legati all’anzianità lavorativa. O preoccupandosi solo degli incentivi per spingere le persone a lasciare spontaneamente il lavoro.

Il rischio, e questa vicenda lo dimostra, è che, quando gli individui sono lasciati soli con il loro problema, si chiudano in se stessi e non ascoltino più nessuno.

Giovani e famiglie tra scuola e lavoro..

Il più efficiente head hunter che ho conosciuto è stato don Angelo Recalcati. A Milano da via Mac Mahon e fino al Portello non si occupava solo delle nostre anime.

Gestiva per conto delle laboriose famiglie operaie insediate nei casermoni popolari il rapporto tra loro, i loro figli, le scuole del quartiere e il mondo del lavoro. Per lui valutare le soft skills non era un problema.

Ci vedeva crescere, ci osservava quotidianamente, ci spronava e ci riprendeva. Non aveva bisogno di test di Rorschach o di Assessment. I suoi giudizi valevano una sentenza di Cassazione.

Consigliava i genitori sui percorsi scolastici su cui indirizzare i figli, parlava con i maestri prima, e poi con i professori, telefonava alle aziende preannunciando l’arrivo di CV in preparazione di futuri colloqui di lavoro.

Nei ragazzi valutava due aspetti: merito, inteso come impegno negli studi e nella vita dell’oratorio e comportamento, inteso come qualità della persona. Su queste due “semplici” valutazioni suggeriva ai genitori la continuazione degli studi o proponeva un lavoro in banca, in un negozio o in una fabbrica.

Don Angelo era una figura mitica. Fondamentale per la crescita del quartiere, dei legami comunitari e della formazione di giovani che crescevano in famiglie provenienti da tutta Italia, portatrici di tradizioni e culture differenti, impegnate nel lavoro e quindi poco disponibili, in termini di tempo, a seguire direttamente l’educazione dei propri figli.

Difficile oggi trovare punti di riferimento con queste caratteristiche. La scuola si è ormai chiusa nella sua autoreferenzialità, la parrocchia è sempre meno autorevole e frequentata, il mondo del lavoro è complesso, lontano e non sempre disponibile a relazionarsi con i contesti locali.

Questa situazione contribuisce a disorientare le famiglie sempre meno preparate ad aiutare i figli nelle scelte di studio o di lavoro. Purtroppo tornare indietro è però impossibile.

Adesso ci proverà l’Anpal l’agenzia per le politiche attive del lavoro partorita dal Jobs Act e diretta da Maurizio del Conte. 1000 professionisti da ingaggiare che da qui al 2020 si occuperanno di stabilire un ponte tra i due mondi. Partendo dalle oltre cinquemila scuole superiori e università distribuite su tutto il territorio nazionale.

Anche se una figura come don Angelo non è più rintracciabile non si parte comunque da zero. Molte scuole tecniche e professionali lavorano da tempo con le aziende. Così come alcune università. Questo patrimonio non va certamente disperso né appaltato. Anzi.

Fuori da questo perimetro di impegno e di visione c’è però il vuoto. Non basta la buona volontà di qualche professore a superare una cultura che vuole mantenere muri solidi che impediscano una comunicazione positiva tra i due mondi. Per questo l’impegno dell’Anpal va condiviso e sostenuto.

È ovvio che non basta. Don Angelo non si occupava “solo” di trovare il lavoro, contribuiva a disegnare una comunità, educava a dei comportamenti, cercava di costruire dei cittadini consapevoli. Il punto vero forse sta qui.

Un dialogo positivo e costruttivo tra i due mondi porta con sé delle implicazioni non di poco conto perché rende probabilmente necessario cambiare il senso dell’istruzione attualmente impartita, in modo da trasformarla in un apprendistato “guidato” di vita vera. Non solo aziendale.

Il lavoro, le sue regole e chi dovrebbe riscriverle..

La vicenda dell’arresto di un esponente del SI Cobas a Modena porta alla luce ancora una volta quell’area del lavoro di confine dove non esistono regole né contratti né rispetto per la persona lontano dal controllo delle imprese sane e del sindacato confederale e fondamentalmente in balia di se stesso.

Coinvolge lavoratori immigrati, giovani (soprattutto in certe aree del sud) che abbandonano gli studi, donne che cercano di rientrare nel mercato del lavoro, over 50 espulsi dalle aziende, giovani in attesa di trovare una occupazione. Disoccupati, pensionati o assistiti a vario titolo. Pagati in nero, sottopagati, costretti a subire tagli della retribuzione per “servizi” imposti dal caporale di turno o per restituire all'”imprenditore” parte del guadagno come “ringraziamento” per l’assunzione.

Che lo si voglia ammettere o meno, un terzo della nostra economia, ogni giorno costringe centinaia di migliaia di persone a lavorare sul confine che passa tra legalità formale e illegalità sostanziale. Ben oltre i voucher, ben oltre la gig economy, ben oltre il cosiddetto lavoro povero, seppur contrattualizzato. In questo mondo agiscono intermediari, “scafisti” da terra ferma, imprenditori senza scrupoli, prestanome di attività legali, malavitosi che gestiscono direttamente attività economiche. Ma anche una forma di sindacalismo di confine.

Fatto di minacce, ricatti, strumentalizzazioni. Una forma di sindacato che non si nutre di slogan estremisti né si colloca a sinistra di altri sindacati quando opera concretamente. Funziona sul modello collaudato obiettivo-lotta-risultato. Dove l’obiettivo serve per creare la massa di manovra, la lotta sempre breve ma intensa perché portata anche fuori dai confini della legalità e un risultato che deve essere sufficiente a creare le condizioni per essere riproducibile altrove. Sempre per piccoli gruppi.

È una forma di “guerriglia” permanente dove furti, spaccio, danni e botte ai “crumiri”, minacce ad altre etnie, a capi sono ritenuti effetti collaterali accettabili integrabili con blocchi delle merci e danni di ogni tipo, anche gravi, a terzi. Ovviamente il tutto in orari, situazioni e realtà difficili da garantire un intervento in tempi rapidi dalle forze dell’ordine e dallo stesso controllo delle aziende coinvolte che spesso si piegano a questa logica innescando un meccanismo inarrestabile.

È una terra di nessuno dove avviene di tutto nel silenzio generale. Emerge sempre più spesso nei magazzini della logistica del nord, nelle attività “legali” della malavita organizzata, nell’edilizia, nell’agricoltura ma anche in attività di servizio alle imprese o in piccole attività commerciali danneggiando pesantemente chi opera nel rispetto delle regole.

Al di là di come si concluderà la vicenda di Modena questa è una realtà sulla quale occorrerebbe accendere i riflettori. Innanzitutto perché questo fenomeno non si sta affatto restringendo ma è destinato ad aumentare.

La profondità della crisi, la possibile ripresa senza crescita occupazionale, la ramificazione territoriale dei fenomeni malavitosi, l’affermarsi di attività distributive fondamentali quanto fragili dal punto di vista organizzativo e di gestione del personale, i fenomeni migratori aumentano notevolmente la differenza tra cosiddetti garantiti e non garantiti rendendo sempre meno percepibile il confine tra lecito e illecito così come la necessità di garantirsi un reddito comunque messo insieme.

Se a questo aggiungiamo che (secondo i dati pubblicati ieri dal sole 24ore) “a fine 2016 oltre metà degli occupati dipendenti risultano ancora in attesa di un rinnovo contrattuale (il 50,5% per l’esattezza) e sempre a dicembre, l’attesa media di un rinnovo calcolata sul totale dei dipendenti è di 27,1 mesi, in crescita rispetto ai 22 mesi di un anno fa”. Ci rendiamo conto che la situazione rischia di creare un innesco molto pericoloso al quale non di può rispondere con i timidi segnali di controtendenza emersi sul piano economico e occupazionale.

Pensare di affrontare questa situazione con la “carta dei diritti” proposta dalla CGIL in solitaria o chiamando al referendum su voucher e appalti è come voler affrontare una polmonite con l’aspirina. In un Paese dove oggi un terzo dell’economia reale non rispetta alcunché che senso ha voler continuare a colpire chi, le regole, pur in situazioni di grande difficoltà, cerca di rispettarle? E per colpire quel terzo,  a mio parere, occorrerebbe una convergenza di tutto il Paese.

Le nuove regole andrebbero concordate e proposte insieme, da tutte le organizzazioni di rappresentanza, per essere efficaci.  Non servono fughe in avanti. Pensare di superare le proprie difficoltà organizzative (rinnovi contrattuali, adesioni marginali agli scioperi proclamati nel privato, declino organizzativo, ecc.) lanciando la palla nel campo della sinistra politica e parlamentare aumentandone la confusione serve solo ad aprire ancora di più uno spazio di iniziativa a chi ritiene di poterlo occupare con maggiore diritto perché in grado di reinterpretarlo aggiornandolo e finalizzandolo proprio a disintermediare e quindi mettere in difficoltà le organizzazioni di rappresentanza.

In nessun Paese del mondo si è riusciti a riportare indietro l’orologio del tempo a favore dei “vinti” della globalizzazione con la cultura del 900. Anzi. Bernie Sanders e Jeremy Corbin sono lì a dimostrare cosa succede immediatamente dopo quando si insiste a voler occupare con vecchi discorsi uno spazio politico quando il vento soffia altrove.

Carta dei diritti o Carta delle opportunità?

La mia personale critica alla “carta dei diritti” propugnata dalla CGIL parte da alcune considerazioni di fondo. Innanzitutto la visione del mondo del lavoro.

È vero che nel nostro Paese permangono ingiustizie profonde. Un terzo della nostra economia sprofonda nel sommerso e sfugge a statistiche e analisi approfondite.

Il lavoro nero è una piaga affatto ridimensionata e la presenza di un tessuto di micro imprese può certamente impedire o rallentare l’affermarsi di una cultura condivisa dei diritti e dei doveri.

Ed è evidente che i contratti nazionali non sono sufficienti a governare questi fenomeni o a far crescere una cultura della responsabilità e del rispetto reciproco. La stessa globalizzazione (sia quella in crisi di identità che quella che si affermerà comunque) impone la definizione di veri e propri diritti di cittadinanza che siano disponibili per tutti indipendentemente dalla dimensione dell’impresa o dalla tipologia del rapporto di lavoro. Diritti che dovrebbero essere condivisi da chi opera sullo stesso mercato. Lo slogan: “stesso mercato, stesse regole” dovrebbe valere per tutte le componenti coinvolte. Anche per il lavoro.

Ma è da qui in avanti che la “carta dei diritti” disegna una realtà surreale perdendosi in un oceano di vincoli che non c’entrano nulla con i diritti di cittadinanza. Innanzitutto la qualità del rapporto di lavoro nelle aziende che applicano un contratto nazionale è infinitamente migliore rispetto al periodo dove fu necessario introdurre nella nostra legislazione lo Statuto dei lavoratori. Nella visione della CGIL sembra, al contrario, addirittura peggiorata.

Oggi il diritto al lavoro si sostanzia concretamente con il diritto all’impiegabilità. Nella “carta dei diritti” questo aspetto non esiste. Esiste il rapporto di lavoro, la sua qualità e le norme che lo dovrebbero sostanziare nella singola azienda e nel rapporto con l’imprenditore. Il mondo di riferimento che permea quella cultura è il luogo di lavoro, non il mercato del lavoro. Quindi un tentativo di cristallizzazione dell’esistente.

Non c’è nulla di significativo sul fatto che il lavoro si ottiene e si perde molto diversamente che in passato. Che la tipologia dello stesso può variare nel tempo e che crescere o decrescere nella stessa azienda o sul mercato è fisiologico. Soprattutto che si resta sul mercato per molti più anni e quindi in una situazione di oggettiva fragilità.

La competizione così come i mercati sono globali, le imprese sono inserite in filiere internazionali dove le regole del gioco non vengono decise in un singolo Paese. Giocare in difesa creando vincoli in un solo Paese significa solo spingere le imprese ad aggirare l’ostacolo con conseguenze facilmente immaginabili.

Diverso sarebbe accettare la sfida puntando decisamente verso una cultura della collaborazione, della condivisione dei rischi e, ovviamente, dei benefici. Quindi puntare decisi verso un contesto che offra opportunità.

Opportunità, ad esempio, di crescita professionale conseguente a sistemi di valutazione e sviluppo concordati, di gestire le proprie transizioni lavorative tra un’attività e un’altra, di definire, anche tramite i propri rappresentanti, i livelli di coinvolgimento e partecipazione sugli obiettivi dell’azienda, di poter contare su di un welfare contrattuale robusto e moderno, di aver garantito, anche attraverso un sistema bilaterale efficace ed efficiente, un contesto di rispetto del proprio lavoro, dei propri diritti ma anche dei propri doveri.

Purtroppo la “carta dei diritti” da per scontato che tutto ciò non è possibile. O meglio che tutto ciò addirittura sarebbe ottenibile solo affidando ad altri (un giudice terzo che di lavoro e della sua evoluzione in corso non ne capisce nulla), l’interpretazione di un avverbio, di un contesto lavorativo, di una situazione.

La mia sensazione è che una parte del sindacato preferisca rinchiudersi in una sorta di “Fort Alamo” dove una generazione, la mia, preferisce riconoscersi nei gesti, nelle parole e nelle convinzioni di sempre anche se tutto questo dovesse essere sempre più estraneo a dove sta andando il mondo del lavoro e dell’impresa.

Oltretutto questa deriva rischia di interrompere un percorso di confronto e avvicinamento non solo tra organizzazioni sindacali ma anche nel rapporto e di confronto con il mondo delle imprese e delle loro rappresentanze.

L’accoglienza favorevole degli iscritti FIOM di un contratto nazionale complesso e innovativo, così come quella dei lavoratori delle imprese non sindacalizzate dovrebbe far riflettere sulle traiettorie sulle quali le rappresentanze dei lavoratori e delle imprese dovrebbero impegnarsi con maggiore convinzione. Purtroppo il tempo a disposizione non è molto.

I sindacati tra tattiche e strategie..

La chiusura unitaria del CCNL dei metalmeccanici ha segnalato un dato importante. Dove più acuta era la crisi di rapporto tra le diverse organizzazioni sindacali (e la rispettiva controparte) il lavoro di ricucitura messo in campo dai rispettivi protagonisti è stato più costruttivo e convincente che altrove.

Il fatto segnala indubbiamente una maturità e una visione che i lavoratori, soprattutto quelli più vicini alle rispettive organizzazioni sindacali, non hanno mancato di apprezzare.

Proporre, come chiave di lettura, una FIOM consenziente perché militarizzata e quindi dipendente dai voleri di Maurizio Landini come ha fatto Giuliano Cazzola mi sembra francamente esagerato anche perché tenere in una perenne tensione inconcludente una organizzazione sindacale e i suoi militanti può funzionare con un COBAS di modeste dimensioni non con una grande organizzazione che comunque fa parte della CGIL.

Il contratto dei metalmeccanici non è affatto sbilanciato a favore delle imprese. Contiene impegni, costi, soprattutto futuri, che vanno ben al di là di di quanto un’associazione di imprese ha mandato di sottoscrivere se non in una fase di riorientamento strategico delle relazioni sindacali, dei ruoli della contrattazione e del futuro dell’intero sistema.

C’è un equilibrio sostanziale che rappresenta una indubbia particolarità in un contesto dove le piattaforme sindacali, pur preparate con cura, si sono infrante contro muri datoriali sempre meno disponibili.

Gli impegni contenuti e la gestione dello stesso contratto ne marcheranno il cammino, lo collocheranno nella giusta dimensione e ne consentiranno una giusta valutazione solo alla fine del percorso concordato tra le parti.

Modalità di partecipazione dei lavoratori alla crescita e allo sviluppo delle loro imprese, ruolo della contrattazione aziendale, revisione dell’inquadramento, formazione dei lavoratori come diritto soggettivo, sicurezza sul lavoro, solo per citare alcuni temi rilevanti, costituiscono una base di confronto di notevole contenuto e spessore. Ed è su questo che si chiariranno i confini dentro il quale il cosiddetto “Patto di fabbrica” troverà o meno uno sblocco plausibile e concreto. Oppure resterà solo sulla carta. Ed è per questo che il percorso di confronto tra i massimi organismi di FIM, FIOM e UILM avviato oggi è molto importante.

Non va però sottovalutato, che tutto questo avviene in un contesto di relazioni tutte da ricostruire tra le diverse organizzazioni sindacali sia in categoria che a livello confederale.

Innanzitutto in categoria dove le tendenze egemoniche della FIOM, che si sono manifestare fortunatamente solo nel rinnovo del contratti minori o in periferia, non sembrano destinate a rientrare facilmente nonostante l’impegno di tutte le segreterie nazionali.

Così come in FCA dove, sempre la FIOM, non segnala alcuna volontà concreta di “redenzione” quasi come continuasse ad attendere la realizzazione della profezia negativa evocata con una certa ossessione in tutti questi anni che ha trasformato Maurizio Landini in una sorta di Voldemort della saga di Harry Potter che, temendo di essere sconfitto da un bambino nato da poco, tenta di ucciderlo, continuando ad attaccarlo fino a quando, almeno nella saga è lui ad essere sconfitto definitivamente.

Per non parlare della carta dei diritti proposta dalla CGIL che, pur rappresentando un interessante punto di osservazione di una possibile evoluzione del mondo del lavoro non ha nulla che la possa mettere in relazione con il disegno strategico concordato con Federmeccanica nel dettato contrattuale dei metalmeccanici appena firmato se non sui principi generali. O con quanto ipotizzano tutte le organizzazioni datoriali per rilanciare il lavoro e favorire la ripresa.

Infine il referendum con la sproporzione evidente tra i contenuti rimasti sul tappeto e le conseguenze politiche e sociali che potrebbe innescare. Conseguenze che solo un sindacato unito su proposte chiare potrebbe evitare. Ultimi ma non ultimi gli imminenti congressi sindacali con tutte le tensioni e i nervosismi tipici delle stagioni riservate alla riproduzione.

Segnali a volte difficili da decifrare o da interpretare per un osservatore esterno soprattutto perché le tattiche e i segnali trasmessi rischiano di prevalere sulle necessarie strategie da mettere in campo.

D’altra parte le difficoltà della Politica sono evidenti. Così come sono altrettanto evidenti le difficoltà di una sinistra sociale che fatica a rientrare in campo perché insiste su un’idea di lavoro sempre più difficile da realizzare quindi lontana dalle esigenze del Paese e dalle urgenze delle nuove generazioni. E, come già sottolineato, sempre più lontana dalle disponibilità delle imprese e delle loro organizzazioni di rappresentanza.

Il rischio è di abbandonare la strada della concretezza e della contrattazione tipiche del sindacato per rifugiarsi nella pura testimonianza.

Ed è su questo, sulla comprensione del contesto e delle risposte che solo il confronto tra sindacati e con le rispettive controparti può determinare, che la differenza tra espedienti tattici e visione strategica chiarirà il ruolo che i gruppi dirigenti dei sindacati, confederali e di categoria ma anche di tutti i corpi intermedi, vorranno giocare nei prossimi mesi e che ne segnalerà il possibile rilancio o il declino. I segnali, purtroppo, sono ancora abbastanza contraddittori.