Lavoro, strumentalizzazioni e buona politica…

Tre notizie, quasi da prima pagina, che fanno discutere.

I voucher trasformati in problema prioritario e drammatico, la sentenza della Cassazione che ha ritenuto non necessario essere in presenza di una crisi aziendale, un calo di fatturato o bilanci in rosso per procedere a un licenziamento e, infine il caso Almaviva con le sue implicazioni sindacali e sociali.

Nel primo caso la preoccupazione per il probabile referendum richiesto dalla CGIL ha scatenato una campagna di disinformazione con al centro la numerosità dei voucher e una serie di abusi commessi in alcune situazioni.

Pochi riferimenti internazionali a situazioni analoghe, scarso interesse a comprendere le dinamiche e i fenomeni correlati, disinteresse quasi totale all’endemico fenomeno del lavoro nero o malavitoso in Italia. Ma, soprattutto, il tentativo di far credere che, l’eliminazione dei voucher sia in sé un elemento positivo e possa portare a forme di stabilizzazione del lavoro saltuario.

A chi serve questa pessima gestione della notizia? Non credo alla CGIL che rischia di vincere una battaglia sull’onda emotiva del post referendum ma di perdere, immediatamente dopo, la guerra.

Né, credo, all’opinione pubblica che rischia di essere inutilmente trascinata in una discussione sulla precarietà del lavoro su presupposti scorretti perdendo di vista il problema principale: il lavoro. Come si crea, come e dove lo si può trovare, come lo si mantiene, e cosa si deve fare se lo si perde. E questo non è solo un problema per addetti ai lavori.

La sentenza della Cassazione sul licenziamento è, da questo punto di vista, paradigmatica. I motivi che spingono un’azienda a ricorrere a licenziamenti individuali o collettivi sono quasi sempre riconducibili a motivazioni organizzative o gestionali.

Il fatto che, secondo alcuni, si dovrebbe attendere sempre e comunque una situazione economica di non ritorno per poter procedere, ha solo determinato la proliferazione di accordi sindacali fantasiosi e lacunosi, di “non accordi” con ampia facoltà a procedere unilateralmente da parte delle aziende, di licenziamenti “spintanei” tollerati e di incentivazioni individuali di ogni tipo.

Adesso, con un certo ritardo, la Cassazione certifica ciò che chiunque ha avuto a che fare con ristrutturazioni o riorganizzazioni sa da sempre e cioè che come sosteneva il Macchiavelli, “non si può essere di sollievo al Principe e innocui al Popolo”.

A volte occorre prendere decisioni drastiche e in tempi certi. Altrimenti il problema diventa irrisolvibile. E non servono avverbi o aggettivi  per mascherare la realtà. Purtroppo.

Infine il caso Almaviva. Nessuno spiega che, una volta aperta una procedura di mobilità, una sua eventuale interruzione rischia di invalidare la procedura stessa.

Qualche anno fa mi trovai in una situazione analoga. Durante un difficile negoziato che coinvolgeva tutta una intera rete nazionale di vendita il sindacato confederale mi chiese di recuperare una filiale al sud che, chiusa l’anno precedente, stava terminando gli ammortizzatori sociali. In questo modo gli ultimi lavoratori rimasti avrebbero guadagnato un anno di ammortizzatori arrivando così alla pensione.

Faticai a convincere i vertici della multinazionale che non capivano perché fosse necessario riaprire un capitolo chiuso da tempo però concordammo con le OOSS che, per questi ultimi, non sarebbe stato ovviamente possibile prevedere alcun trasferimento al nord essendo in grado di agganciare la pensione.

Fatto l’accordo due lavoratori, tramite un avvocato suggerito dai COBAS, lo impugnarono sostenendo che, pur essendo vicino alla pensione sarebbero stati comunque disponibili al trasferimento in qualsiasi zona del Paese.

Nessuno però glielo aveva proposto proprio perché loro stessi avevano concordato, tramite i sindacati, un’altra soluzione.

Quella vicenda, costruita in buona fede insieme alle organizzazioni confederali e con il consenso tra le parti, avrebbe purtroppo potuto finire molto peggio causando l’annullamento della procedura con costi e conseguenze gravissime.

Per questo posso capire l’atteggiamento di Almaviva e questo indipendentemente da altri argomenti di cui non ho elementi sufficienti per giudicare.

C’è stato un tempo dove era possibile trovare un’intesa. Quel tempo però si è esaurito nei tempi e nei modi previsti dalla procedura stessa. Le lettere di licenziamento ne sono solo la conseguenza inevitabile.

Tre vicende apparentemente differenti con un unico comune denominatore. Nella materia del lavoro contano solo gli elementi oggettivi. Le norme e ciò che è scritto nelle leggi e nei contratti. Il resto appartiene alle opinioni.

La “Politica” può creare le condizioni affinché le parti in campo abbiano a disposizione strumenti adatti, opzioni concrete e tempistiche certe nelle quali esercitare i rispettivi ruoli.

Oppure la politica stessa può strumentalizzare, sulla pelle dei lavoratori, prospettando soluzioni inesistenti come ha fatto l’on. Di Maio un minuto dopo la conclusione della vicenda.

Purtroppo il Paese avrebbe bisogno di buona politica e di buoni politici. E di buona informazione. Soprattutto nelle vicende sindacali.

Il futuro dei voucher è con o senza Speranza?

C’è chi ha paragonato il PD Speranza a Turigliatto, chi ha ricordato che Bersani stava con Monti quando sono stati lanciati i voucher e che il Governo Renzi, semmai, ne ha solo regolamentato l’uso. Tutto inutile.

Intorno ai voucher sembra si stia giocando lo scontro finale sull’identità della sinistra italiana.

Il merito, come sempre in questo caso, non esiste. O meglio non interessa a nessuno. Per quanto riguarda non posso che condividere le parole di Anna Soru sulla Nuvola del Corriere con le quali sottolinea il rischio che, in caso di interventi, chiaramente emotivi, si peggiori addirittura la situazione “costringendo” un massiccio ritorno al lavoro nero.

Recentemente sono stati pubblicati dei dati che è meglio conoscere prima di schierarsi. Vediamoli pacatamente.

Innanzitutto Il voucher è l’unico strumento per retribuire in modo regolare “lavori saltuari”. Non ha alternative, né possiamo davvero credere che queste attività saltuarie si coprano con assunzioni “tradizionali”.

Il suo utilizzo assicura un riconoscimento retributivo comprensivo anche del pagamento di contributi previdenziali per prestazioni saltuarie e accessorie e la copertura assicurativa INAIL.

L’utilizzo dei buoni lavoro, è aumentato perché le riforme di questi ultimi anni hanno di fatto tolto alla disponibilità’ delle imprese qualsiasi strumento regolare per pagare prestazioni accessorie.

Infine, occorre ricordare che, mediamente ogni persona, con il voucher, prende 600 euro all’anno; pensare dunque che ci sia un forte abuso generalizzato è una lettura forzata.

La stessa INPS attraverso le analisi pubblicate sul suo sito ci dice che:

1) Per la maggior parte dei prestatori di lavoro accessorio, il volume di voucher percepiti è modesto: in media nel 2015 si è trattato di 60 voucher pro capite e la mediana è decisamente inferiore: 29 voucher.

2) I lavoratori che hanno percepito più di 1.000 euro netti con voucher risultano 207.000 mentre coloro che hanno percepito meno di 500 euro risultano quasi un milione e quindi evidente che non si tratta di lavoro sostitutivo.

3) Circa il 50% dei prestatori sono lavoratori attivi con altra occupazione o percettori di ammortizzatori sociali (sono il 50% del totale stabilmente dal 2013)

Per essere più precisi sono :

– Pensionati: la loro quota risulta pari all’8%. (Tre su quattro sono pensionati di vecchiaia).

– Soggetti mai occupati: sono pari al 14% (meno di 200.000). Si tratta essenzialmente di giovani (la mediana è vent’anni).

– Silenti (ex occupati e disoccupati di lunga durata ): sono attorno al 23%.

– Indennizzati (essenzialmente percettori di Aspi, MiniAspi o Naspi): sono il 18%

– Occupati presso aziende private: sono il 29% (quasi 400.000). Tra questi si individuano:
− 26% occupati a tempo indeterminato e full time;
− 28% occupati a tempo indeterminato e part time;
− 46% occupati, soprattutto giovani, con contratti a termine subordinati

– Altri occupati: pari all’8% sono lavoratori domestici, operai agricoli, lavoratori autonomi, casse professionali, dipendenti pubblici).

Per queste ragioni possiamo affermare, senza nessuna possibilità di smentita che:
l’effetto di sostituzione di precedenti rapporti di lavoro è molto limitato e i soggetti interessati sono in maggioranza studenti, pensionati e lavoratori in regime di ammortizzatori sociali.

Questo dicono i numeri. Il resto sono strumentalizzazioni ideologiche di chi non ha argomenti veri. A mio parere il Governo deve continuare ad insistere sulla strada della tracciabilità e dei controlli per evitare usi impropri dei voucher penalizzando chi non ne fa un uso corretto.

Scegliere, al contrario, di abolirli o di ridurne fortemente l’utilizzo senza introdurre altri strumenti analoghi sarebbe solo un grave errore.

Perché difendo il “maleducato” Poletti

Non ho nessun rapporto con l’attuale ministro del lavoro né gli invidio il suo ruolo.

Sono tempi difficili e Poletti, sia chiaro, non è né Brodolini né Giugni. Da quando è al Ministero del Lavoro tutti, molto più di lui, si sono “impicciati” di lavoro mettendolo spesso in ombra.

Sopra, il Presidente del Consiglio Renzi, al Senato il Presidente della commissione lavoro Sacconi, alla Camera, Cesare Damiano. All’INPS Boeri. Senza parlare di Nannicini, ministro ombra o, al PD, il suo partito, di Taddei.

L’energia e i cervelli messi in campo sul lavoro in questi ultimi anni non hanno uguali in nessun altro dicastero. E senza la scusa della concertazione. Quindi senza l’assillo dei sindacati.

Poletti non verrà ricordato per nulla di tutto ciò che, nel bene e nel male, si è prodotto in questo periodo. Altri si prenderanno i meriti e i demeriti. Verrà forse ricordato per aver fatto il Ministro del lavoro mentre altri si occupavano alacremente di lavoro.

A lui è rimasto il compito più ingrato. Vendere i risultati. Non al Paese perché lì ci hanno pensato e provato altri. Ai media, ai tecnici e agli esperti. Mission impossible, direbbe qualcuno.

Poletti non mi piace quando strizza l’occhio sottobanco a certi personaggi della GDO favorendo, di fatto, situazioni di dumping tra imprese che operano sullo stesso mercato né quando si sbilancia troppo perdendo quel ruolo terzo che invece credo sia importante per chi si occupa di lavoro. È una materia ad alta sensibilità sociale. Troppi morti in Italia per cambiare il lavoro, troppi bersagli additati alla pubblica opinione. Troppi estremismi e troppi conservatorismi. E oggi diciamolo pure, ancora pochi risultati concreti.

Però credo che in questo Governo Poletti sia uno dei pochi esponenti con valori, idee e cultura del lavoro e della società molto più moderni e innovativi di altri ben più gettonati di lui.

Vorrei ricordare, innanzitutto a me stesso, che questo è un Governo di centro sinistra. E che se c’è una cosa che deve fare il centro sinistra è ritrovare un senso, una direzione di marcia intorno a valori condivisibili e praticabili.

il disagio sociale che è emerso con forza dal referendum lo dice chiaramente.

Quando parla Poletti non dice mai cose ovvie o scontate. Rischia quasi sempre l’autogol perché è fatto così. Dice quello che pensa. È difficile trovare, in politica, una persona che può darti la sensazione che le sue affermazioni traggano radici da convinzioni profonde, genuine. Credo siano le sue origini e il contesto nel quale è cresciuto.

Marta Fana sbaglia. Nell’articolo sull’Espresso usa una frase maleducata e fuori luogo del Ministro per addebitargli tutto ciò che è successo o non è successo in questi anni. Compreso il NO al referendum. Sarebbe tutta colpa di Poletti individuato come unico capro espiatorio di una situazione che ha ben altre cause e ben altre responsabilità.

Anziché completare il percorso iniziato con la Biagi lavorando sul nuovo concetto di lavoro e sulle politiche attive si è preferito tornare indietro illudendosi di poter ritornare a “contare” i posti di lavoro come antidoto alla mancanza di lavoro. E creare così un circolo virtuoso. Così si sono sprecate risorse importanti, si è inconsapevolmente  rilanciata una vecchia cultura del posto di lavoro come modello da perseguire ma impossibile da realizzare concretamente e, alla fine, ci si ritrova con un referendum, proposto dalla CGIL, che, se effettuato, riporterà il tema al punto di partenza in un contesto politico e sociale sempre meno disponibile all’innovazione e al cambiamento. Basti vedere la vicenda dei voucher dove nessuno ha voglia di entrare nel merito o di valutare i dati reali.

Poletti ha sbagliato a parlare di una parte dei giovani espatriati quasi fosse soddisfatto di averli persi. Ha detto una grande sciocchezza. Come Fornero sui giovani tutti choosy, Padoa Schioppa sui bamboccioni o Martone sugli sfigati. Di questi tempi basta molto meno per essere invitato a farsi da parte. Allora le polemiche sono rientrate velocemente. Spero succeda così anche questa volta.

Il Ministero del Lavoro ha da gestire partite molto delicate mei prossimi mesi. Poletti è la persona giusta? Io credo di sì. Sia per parlare con tutti i sindacati sia con quella parte del PD che nutre pericolosi sentimenti di rivincita.

Condivido che, se non dovesse aver più voglia di fare il Ministro ė giusto che si faccia da parte. Ma se così non fosse, dopo aver chiesto scusa, affronti con maggiore determinazione e presenza tutte le partite aperte.

Dimostri che il suo Ministero è in grado di ridare una rotta al lavoro. Proponga un momento di condivisione e di proposta di tutti i soggetti in campo e di tutte le proposte praticabili. Il referendum appena svolto ha determinato un reset profondo di cui bisogna tenerne conto anche sul tema lavoro.

C’è un disagio sociale che va interpretato e a cui vanno date risposte. Non insista su litanie prive di significato, oggi. Dimostri, con i fatti, la capacità di imboccare una nuova direzione di marcia.

Se così farà quello che ha detto si dimostrerà solo uno stupido quanto modesto incidente di percorso. 

The Times They Are A-Changin’ di Bob Dylan (traduzione)

 

L’ultimo libro di Daniel Goleman e Peter Senge  (A scuola di futuro, manifesto per una nuova educazione) si conclude con un aneddoto interessante.

E’ il 2012. In una scuola il gruppo di Peter Senge ha animato il lavoro di bambini in progetti che applicano il pensiero sistemico per comprendere le conseguenze delle nostre azioni su scala globale.

Il progetto presentato da una studentessa di 12 anni si riassumeva in una foto di una turbina a vento installata di fronte alla scuola.

A quel punto, avendo catturato l’attenzione di un pubblico per lo più stupefatto, la dodicenne lo ha affrontato direttamente, con tutti i suoi 30 chili di determinazione, e ha detto con calma: “spesso sentiamo che noi ragazzi «siamo il futuro».

Non siamo d’accordo. Non abbiamo tutto questo tempo. Dobbiamo cambiare le cose ora. Noi ragazzi siamo pronti, e voi?

Molti di noi, ragazzini nel 1964 e liceali nel 1968, ci sentivamo pronti. Scriveva Bob Dylan, oggi premio Nobel,  nel 1964, a 23 anni…..

I tempi stanno cambiando

Venite intorno gente
dovunque voi vagate
ed ammettete che le acque
attorno a voi stanno crescendo
ed accettate che presto
sarete inzuppati fino all’osso.

E se il tempo per voi
rappresenta qualcosa
fareste meglio ad incominciare a nuotare
o affonderete come pietre
perché i tempi stanno cambiando.

Venite scrittori e critici
che profetizzate con le vostre penne
e tenete gli occhi ben aperti
l’occasione non tornerà
e non parlate troppo presto
perché la ruota sta ancora girando
e non c’è nessuno che può dire
chi sarà scelto.

Perché il perdente adesso
sarà il vincente di domani
perché i tempi stanno cambiando.

Venite senatori, membri del congresso
per favore date importanza alla chiamata
e non rimanete sulla porta
non bloccate l’atrio
perché quello che si ferirà
sarà colui che ha cercato di impedire l’entrata
c’è una battaglia fuori
e sta infuriando.

Presto scuoterà le vostre finestre
e farà tremare i vostri muri
perché i tempi stanno cambiando.

Venite madri e padri
da ogni parte del Paese
e non criticate
quello che non potete capire
i vostri figli e le vostre figlie
sono al dì la dei vostri comandi
la vostra vecchia strada
sta rapidamente invecchiando.

Per favore andate via dalla nuova
se non potete dare una mano
perché i tempi stanno cambiando.

La linea è tracciata
La maledizione è lanciata
Il più lento adesso
Sarà il più veloce poi
Ed il presente adesso
Sarà il passato poi
L’ordine sta rapidamente
scomparendo.

Ed il primo ora
Sarà l’ultimo poi
Perché i tempi stanno cambiando.

Il rilancio e la vitalità dei corpi intermedi e il pericoloso tramonto della politica..

È vero come sostiene oggi Di Vico sul Corriere che il referendum richiesto dalla CGIL con oltre tre milioni di firme, se confermato, avverrà in un contesto politico, sociale ed economico molto diverso da quello nel quale era stato proposto.

Così come è vero che i rapporti tra le tre confederazioni sindacali sono indubbiamente migliorati e, gli ultimi accordi con il Governo, con le organizzazioni datoriali e i contratti firmati confermano una rinnovata vitalità di tutti i corpi intermedi. Una vitalità che solo gli osservatori meno attenti avevano data per persa in questi anni.

Ci hanno provato in molti a riporre nel baule dei ricordi del novecento tutto ciò che non correva alla stessa velocità delle Borse e di un modello dato di globalizzazione salvo poi accorgersi che forse non era la velocità in sé, il problema, ma era la direzione di marcia ad essere quantomeno un po’ presuntuosa.

Corpi sociali e politica hanno fortunatamente separato da tempo i loro destini. E questo è stato un bene.

I sindacati hanno sviluppato anticorpi e messo in atto dinamiche organizzative e di supporto che hanno consentito loro di non seguirne il declino. Lo stesso vale per le organizzazioni datoriali che più si sono tenute alla larga dalle beghe della politica romana più hanno mantenuto un rapporto forte con i loro associati.

Associati e iscritti che, sul versante delle scelte politiche personali, stanno dove gli pare. Grillo e Lega compresi. Ma, di sicuro, né con i Forconi i primi, né con i COBAS  i secondi. E questo è già di per sé un grande merito, spesso sottovalutato, dei corpi intermedi nel nostro Paese.

Personalmente sono un sostenitore della democrazia rappresentativa e quindi non amo lo strumento referendario in sé. Ovviamente lo rispetto e prendo atto che oltre tre milioni di italiani hanno ritenuto necessario richiedere a tutto il Paese un pronunciamento su tre quesiti precisi (art. 18, voucher, appalti).

Vedremo tra breve quale sarà la decisione della Corte di Cassazione. Personalmente non credo che questo referendum cambierà sostanzialmente i rapporti tra le diverse sigle sindacali confederali.

La CGIL in questo momento sembra essere l’unica organizzazione sindacale (a livello confederale) ad avere una linea, condivisibile o meno, ma chiara. Basta leggere la loro carta dei diritti.

Trovo singolare la sottovalutazione che ne è stata fatta, così come la presunzione che la CGIL abbia messo in campo tutta la sua credibilità solo per contrastare l’ex Presidente del Consiglio, e che, infine, l’idea di disegnare un nuovo campo dove diritti e doveri nel lavoro e nella società ritrovino un equilibrio oggettivo, sia solo figlia di una cultura passatista e non una esigenza non più rinviabile per la qualità della nostra democrazia.

C’è, nel merito, tanto da discutere e tanto da litigare e c’è pure, è vero, Annibale alle porte. Ma proprio per questo occorrerebbe cambiare passo. Non fare un passo indietro. Nel sindacato, in tutto il sindacato, costruendo percorsi unitari condivisi e solidi come già sta avvenendo in diverse categorie.

Tra organizzazioni di rappresentanza sindacali e datoriali cercando di trovare nuove risposte ai problemi veri delle imprese e del lavoro. Infine, tra corpi intermedi e politica impegnandosi per presentare e condividere proposte che guardino al futuro del Paese.

Temo che il problema ormai non sia nemmeno più Grillo il quale, al massimo, se mai dovesse farcela, si troverà nella stessa situazione del leader socialista Pietro Nenni ai tempi del primo centro-sinistra: «Pensavo di entrare nella stanza dei bottoni, ma non li ho trovati».

Quello che temo è che ormai si continuano a sentire sempre più spesso sinistri scricchiolii nelle fondamenta del Sistema stesso nel quale siamo cresciuti che non fanno presagire nulla di buono per il futuro della nostra democrazia.

Sapere che ci sono in campo anche forze positive, costruttive e impegnate a difenderla non va sottovalutato.

Poi ci sono le contingenze, le liti da cortile, i dissensi di merito. Ma, è indubbio, che sulla qualità della nostra democrazia, dobbiamo essere dalla stessa parte e possibilmente trovare, insieme, nel merito, le soluzioni più equilibrate. Se questo non sarà possibile che si voti con grande serenità e che se ne accetti con altrettanta serenità il risultato.

Meglio sarebbe se si riprendesse da subito una discussione seria sul Jobs Act e su tutto ciò che manca ad esso per costituire una vera svolta nelle politiche del lavoro del nostro Paese.

Un’epoca si è chiusa. L’epoca nella quale un Governo, anziché essere arbitro, scendeva in campo a favore di una delle due squadre. Oppure cercava di giocare la partita da solo. Non ci sono più risorse né la forza politica per farlo.

E non conviene neanche ai corpi intermedi perché alla fine tutto resta provvisorio e indefinito. L’esatto contrario di ciò che serve alle imprese e al lavoro.

Contratti. Il post fordismo non è solo industry 4.0

Il superamento dei modelli contrattuali discendenti dal fordismo ha, in due vicende contrattuali, apparentemente distanti, risposte completamente differenti e, per certi versi, opposte su cui innestare una riflessione vera per gli sviluppi che entrambi possono portare sul futuro del lavoro perché, credo, nulla è ancora scontato.

Nel contratto dei metalmeccanici l’elemento collettivo, di contenuto e di equilibrio tra i contraenti è stato sostanzialmente mantenuto. Anzi. Per certi versi, Il sindacato ha rafforzato il suo ruolo come interlocutore. Sia centrale con il welfare contrattuale e la formazione, sia decentrato con i rinvii su produttività e altro. E si appresta a contribuire a riscrivere l’inquadramento professionale insieme a Federmeccanica.

Diverso è il caso della GDO dove, il confronto tra Federdistribuzione (ultima trincea del fordismo commerciale e contrattuale tradizionale) con Fisascat Cisl, Uiltucs Uil, e Filcams CGIL va in una direzione esattamente opposta. Quella di “imporre” un contratto sulla base esclusiva dei rapporti di forza in campo.

Quale era (ed è) l’impostazione tradizionale di un qualsiasi contratto di lavoro? Da una parte l’azienda con le sue esigenze e dall’altra una collettività che, all’interno di un insieme di diritti e doveri definiti e condividendo una attività tutto sommato simile, erano (e sono) in grado di negoziare sulla base di reciproci interessi. Preferibilmente tramite le organizzazioni sindacali e datoriali.

In entrambi i settori (metalmeccanico e GDO) questo schema ha funzionato per anni. Nel metalmeccanico, la necessità di un cambiamento profondo è stato evidenziato da FCA poi, ad una certa distanza, dalla proposta di rinnovamento contrattuale di Federmeccanica. Segnali inequivocabili di un necessario cambiamento.

Ma FIM, FIOM, UILM, anziché resistere unitariamente o divisi in una trincea di difesa a oltranza dell’esistente hanno accettato e rilanciato la sfida. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Un’analoga operazione è stata messa in atto da Confcommercio con il recente contratto del terziario con le organizzazioni sindacali di categoria e con l’accordo sui livelli contrattuali con CGIL, Cisl, Uil confederali. Accordo soddisfacente per molti ma ritenuto insufficiente da Federdistribuzione che ha insistito per dotarsi di un proprio contratto specifico.

Nella GDO per anni è stato ritenuto più conveniente, anche da parte delle imprese multinazionali, accodarsi al contratto Confcommercio dove la presenza dei piccoli ha indubbiamente aiutato a contenerne i costi e a contribuire al suo sviluppo.

Quel modello è entrato in crisi, al di là del legittimo protagonismo associativo, quando l’offerta commerciale ha iniziato a superare la domanda. La crisi, il calo dei consumi e l’obsolescenza dei format commerciali hanno fatto il resto.

Le imprese inizialmente hanno preferito seguire una impostazione sindacale tesa ad accettare differenze significative tra i vecchi collaboratori e i nuovi (sugli inquadramenti, sulla qualità del rapporto di lavoro, sugli orari, e sul lavoro festivo e domenicale) che hanno contribuito non poco a dividere la vecchia guardia sindacale dai nuovi assunti che andavano via via aumentando.

Poi, sempre le aziende, hanno messo in discussione le rigidità organizzative e i premi fissi presenti nella contrattazione aziendale bloccandola, cancellandola o negoziando modifiche sostanziali mentre la crisi costringeva a chiudere contemporaneamente molti punti vendita obsoleti e, infine non riconoscendo il contratto nazionale del terziario firmato da Confcommercio e, proponendo un percorso autonomo.

Questa escalation supportata in ogni realtà da forme di coinvolgimento, importanti investimenti formativi, sistemi premianti, prospettive di carriera o di trasformazione del contratto da tempo determinato o parziale a tempo pieno ha disarticolato ed emarginato  il ruolo delle organizzazioni sindacali e il rapporto tra rappresentanti interni dei lavoratori con i lavoratori stessi.

Il sindacato, a quel punto, anziché reagire studiando, analizzando il cambio di passo, comprendendo i problemi veri e avanzando proposte di governo delle situazioni concrete si è lasciato isolare nelle singole realtà limitandosi ad una difesa della vecchia generazione di lavoratori, lasciando i nuovi assunti completamente in balìa delle imprese. Paradigmatica è la inutile guerra sulle festività e sul lavoro domenicale limitata ai lavoratori meno giovani o l’incapacità di chiudere il contratto della distribuzione cooperativa proprio per tutelare prerogative di una  particolare fascia di lavoratori.

A quel punto le aziende utilizzando al meglio il turn over e la flessibilità in entrata, hanno potuto costruire, intorno alle figure manageriali che si sono nel frattempo moltiplicate, una struttura di controllo, di sviluppo professionale e di gestione delle risorse, estesa fin dentro ad ogni punto vendita, coinvolgente e severa ma in grado di cooptare i collaboratori più disponibili ed emarginare quelli meno disponibili.

Il sociologo Renato Curcio (sicuramente più noto per altro ma estremamente puntuale nello studio della sociologia delle organizzazioni della GDO) parla di “singolarizzazione del rapporto di lavoro”.

Singolarizzazione nella quale lo scambio è ovviamente asimmetrico e prevede comunque la sostanziale esclusione del sindacato. È avvenuto in un tempo relativamente breve qualcosa che ha messo in discussione il modo di concepire il lavoro “in termini di tempo, di spazio e di mansioni”.

Quindi il lavoro nella GDO ha perso, sempre usando le parole di Curcio, la sua dimensione sociale e collettiva assumendo solo una dimensione personale.

In altri termini ciò che fino a pochi anni fa coinvolgeva solo figure apicali in certi contesti e con i dovuti distinguo si è diffuso a tutti i collaboratori siano essi precari, a tempo determinato, a parte Time o con specifiche esigenze personali o familiari da soddisfare.

E, per chi non viene “ingaggiato” dalle aziende e su cui insistono investimenti, formativi e professionali importanti, resta un destino di lavoro povero, precario e marginale più vicino al proletariato della logistica…

Il prossimo (primo) contratto della GDO – Federdistribuzione, se mai ci sarà, fotograferà inevitabilmente, e in modo netto, questa asimmetria. Con diversi tipi di conseguenze.

La prima evidente che porta con sé il rischio di consolidamento di una spaccatura tra tutelati e marginali. I primi lontani dal sindacato per scelta, i secondi per necessità.

Una seconda conseguenza è rappresentata dal rischio di sgretolamento della contrattazione nazionale dell’intero settore del commercio distributivo (quella aziendale è inesistente) dove la presenza di ben quattro contratti a disposizione delle imprese provocherà nel giro di poco tempo un inseguimento al ribasso sempre più difficile da governare dalle associazioni di categoria.

La terza conseguenza riguarderà una ulteriore messa in discussione del ruolo del sindacato di settore e la sua affidabilità come interlocutore con evidenti conseguenze a medio lungo termine sul sistema bilaterale e sulla gestione dei fondi contrattuali.

Per le imprese, ormai ripiegate sul breve, soprattutto se multinazionali, ci sono indubbi vantaggi. Non applicare i contratti, ritardarne l’applicazione, utilizzare la leva economica per dividere “i buoni dai cattivi” comportano risparmi importanti con i quali attenuare i margini commerciali in crisi. Sul lungo, al contrario, non è così. Anzi.

Quindi ci sono diversi approdi al post fordismo contrattuale. Nessuno è scontato e nessuno è dovuto. Ma questo presuppone un salto di qualità sia delle associazioni datoriali che sindacali. Altrimenti l’esito appare scontato e non certo equilibrato.

Favola natalizia semiseria dalla terra dei cachi…

In Europa, subito dopo la seconda guerra mondiale, c’era un Paese dove un partito solo poteva governare. E un altro poteva solo fare opposizione. Il popolo votava generalmente per il primo. A volte faceva arrivare il secondo quasi fino al filo di lana. Così per far pensare ad una vera competizione. Poi rinsaviva e rivotava per il primo.

Tutti però erano contenti così. Poi anziché costruire muri come si sarebbe fatto oggi ne è caduto improvvisamente uno. Apriti cielo! A nessuno, da quel momento e nel mondo, è  interessato più nulla di quel Paese.

Per questo motivo il secondo partito, quatto quatto, pensando di fare il colpaccio, ha costruito senza farsi troppo notare una macchina da guerra. Gioiosa, però, per non spaventare nessuno.

Ma, proprio sul filo di lana, il popolo è rinsavito di nuovo e ha votato per un altro. Non quello di prima, uno nuovo. Appena disceso in campo..

Dopo un po’ di tempo, il partito che non era mai arrivato primo, ci ha riprovato cambiando nome e, per sicurezza, mettendo alla sua guida un leader preso a prestito dal partito che vinceva sempre. Così, finalmente, ha vinto.

Un guaio! Per non smentirsi ha quasi immediatamente scaricato il leader optando per un usato sicuro ripescato tra quelli abituati a perdere.

E così, finalmente, anziché un leader con i baffi abituato ad arrivare primo se ne è dato uno con i baffetti del partito che poteva solo arrivare secondo. Si sentiva meglio così. Per evitare che qualcuno lo prendesse sul serio, però, ha scopiazzato le proposte tipiche del partito che era abituato ad arrivare primo così gli elettori, hanno preferito l’originale alla copia e lo hanno fatto ritornare immediatamente secondo.

E così poco dopo, passato il periodo dei fiori degli ulivi e delle querce, si è, piano piano, fatto scalare da una piccola ma importante pattuglia di chi era abituato ad arrivare primo. E si è dato un nome più rassicurante che facesse dimenticare le radici di provenienza.

Pensavano ormai di aver fatto tutto ma si sono accorti che l’Europa, manco fosse una vecchia suocera, ci chiedeva di decidere se stare di qua o di là. Ma dentro il partito, purtroppo, c’erano persone che volevano stare sia di qua che di là.

Così, ad un certo punto, l’Europa ha perso la pazienza. Non ci volevano più, né di qua né di là. Nel bel mezzo di questa interessantissima discussione il mondo intero è andato in crisi. Qui no. Anzi.

Vista la situazione grave ma non seria, è arrivato un comico che ha detto basta. Si era già da tempo messo in testa di costruire un movimento politico prendendo come simbolo le stelle che si incollano sugli alberghi e dicendo “vaffa” a tutti e due i partiti che un po’ continuavano a litigare è un po’ cercavano di andare d’accordo.

Siccome la confusione era tanta, il presidente della repubblica e tutti i partiti decisero di ingaggiare un tecnico con il loden a cui diedero il compito di salvare capre e cavoli. Appena salvi, tutti i partiti lo scaricarono immediatamente insieme alla strega cattiva accusandoli di tutti i mali possibili. E negando di averli mai conosciuti né chiamati.

A quel punto nel partito che non sapeva arrivare primo un giovane boy scout, stanco di guidare i lupetti nei boschi della Garfagnana, decise di partecipare alle primarie per pensionare, finalmente, tutti coloro che non volevano arrivare primi. E cominciò a raccontare che da quel momento avrebbero dovuto sentirsi primi. Non solo in Italia ma anche nel mondo.

Apriti cielo!

Quelli che non volevano arrivare primi, il comico e tutti quelli che si sentivano messi da parte si sono coalizzati contro quello che voleva farli diventare primi. Gli hanno detto NO e lo hanno gonfiato come una zampogna.

E lui se n’è andato sbattendo la porta. Adesso il comico vuole legittimamente diventare il primo partito mentre il partito che nel frattempo è ancora primo, nonostante tutto, può tranquillamente sperare di tornare ad essere secondo. O almeno a provarci.

Come è sempre stato.

Se al disagio sociale si risponde in modo insufficiente…

Fino al referendum sembrava tutto chiaro. Da un parte chi voleva cambiare il Paese, dall’altra tutti gli altri. In mezzo, ma comunque schierato con il NO, chi pensava comunque giusto cambiarlo ma non così come veniva proposto da Renzi e dal PD.

Nessuno poteva però immaginarsi cosa sarebbe successo il 4 dicembre. Né in un campo, né nell’altro. Né tantomeno i media o gli intellettuali schierati che continuano tuttora a non vedere i problemi di una parte del Paese tutti presi a fornire della realtà una lettura esclusivamente politicista cioè cristallizzata nelle logiche e nei riti della politica.

Tre incognite di cui nessuno aveva previsto le dimensioni. L’affluenza, il voto giovanile, le rabbia sorda delle periferie urbane e rurali. Tutte e tre queste incognite si sono riversate, pur con motivazioni differenti sul NO.

Non necessariamente sulla riforma proposta che pochi hanno preso in considerazione al momento della scelta. Un NO forte e chiaro che ha tante componenti e, non tutte, coerenti fra di loro.

L’affluenza, che rappresenta l’elemento unificante, indiscutibile della protesta e dell’esternazione del disagio sociale delle altre due incognite, il voto giovanile e la situazione di grave difficoltà che si vive nelle periferie urbane e rurali del Paese sono, a mio parere, gli elementi da cui partire. Altrimenti continueremo a cercare soluzioni semplici a problemi difficili.

L’ottanta per cento di NO sotto i 34 anni evidenziano una spaccatura generazionale fatta di mancanza di lavoro e di reddito ma anche di mancanza di comunicazione intergenerazionale.

Una spaccatura che nessuno riuscirà  ad interpretare in chiave politica. Molti di questi giovani, pur saliti transitoriamente sul taxi dei 5 stelle, hanno capito benissimo che nessuno è in grado di fornire loro risposte sufficienti in tempi ragionevoli e utilizzabili concretamente.

Ma non protestano più in piazza come le generazioni precedenti. Si lamentano sui social prigionieri di un mondo che non riesce né a farsi sentire dal resto della società né ancora a costituire un blocco sociale forte in grado di ribaltare la situazione a proprio favore.

Lo stesso mercato del lavoro è stato costruito per mettere a disposizione modeste e parziali risposte, in termini qualitativi e quantitativi in una situazione di crisi e di mancanza di prospettive. Risposte frustranti, lontane dalle aspettative e dagli studi effettuati dai ragazzi stessi, che spesso contribuiscono a minare in profondità l’autostima di chi non è messo in condizione neanche di proporsi per un lavoro.

Restano solo i social dove condividere questa impotenza prendendosela contro nemici immaginari continuamente proposti da cattivi maestri. Ma se non finalizzata è gestita questa rabbia inconcludente sarà costretta a cercare sbocchi come un fiume carsico e a produrre inevitabili quanto gravi lacerazioni del tessuto sociale. Da qui si capisce perché il Jobs Act, ad esempio, non ha creato nessun entusiasmo nei diretti interessati. Anzi.

Così come la tensione che sta montando nelle periferie contro gli immigrati, i vicini di casa, nelle famiglie e tra le famiglie.

Disagio grave che ormai non è più gestito da nessuno. A parte gli schiamazzi dei populisti nostrani che rischiano di bruciarsi le mani loro stessi se continuano ad esacerbare gli animi senza offrire soluzioni. Di fronte a questa situazione la politica, purtroppo, parla d’altro. Di coalizioni, voto anticipato, consultazioni. I giornali imperterriti accompagnano questo teatrino che scava solchi profondi tra le elites e le persone normali.

Di Vico ci racconta spesso con grande lucidità delle modificazioni che attraversano il mondo del lavoro. Le tre classi proposte nei suoi articoli secondo la definizione del sociologo Antonio Schizzerotto (L’operaio cognitivo, l’operaio fordista, il nuovo proletariato della logistica ma anche dei servizi alla persona, facchini e badanti, soprattutto stranieri) non si congiungono però a sufficienza con il retroterra sociale e il contesto economico nel quale queste figure si muovono e interagiscono o si scontrano tra di loro. Né con il resto del sottoproletariato urbano o rurale che vive alla giornata in un contesto di lavoro nero, malavitoso o, addirittura, in semi schiavitù.

Questa miscela tra mondo giovanile, lavori sottopagati o marginali, lavoro nero, disagi abitativi e di relazione, modelli di convivenza si sta radicalizzando e, questi aspetti non trovano più nella comunità, nella parrocchia, nel sindacato, nella scuola o nella famiglia ammortizzatori sufficienti e credibili.

E questo mondo, sempre più emarginato, si trova di fronte solo qualcosa di inarrivabile, impalpabile, inutilizzabile, dotato di una comunicazione astrusa e tutta da addetti ai lavori. Una comunicazione che parla solo di più zero virgola del PIL, di “ce lo chiede l’Europa” che resta matrigna e lontana, di Borsa, di posti di lavoro che riguardano solo gli altri, di vitalizi, di sprechi, di attività economiche che chiudono e di immigrazione incontrollata.

E tutto questo ha preso via via sempre di più le sembianze di una persona, il Presidente del Consiglio, ritenuto unico e massimo responsabile, verso cui la politica (con la p minuscola) ha indirizzato tutti gli strali possibili per non condividerne le responsabilità che non sono assumibili se non dall’intera comunità nazionale e rifiutandosi di fare un’opposizione seria e costruttiva.

E lui, anziché comprendere questo disagio e questa avversione crescente e questa sua impossibilità a gestire da solo questi passaggi ha continuato imperterrito la sua strada in solitaria e la sua narrazione del Paese che vorrebbe e non quello che è e da cui non si può prescindere.

Adesso, però, sia chiaro, sono guai per tutti.

Per una sinistra salottiera e senza idee che ha lasciato a suo tempo le periferie per conquistare il centro ma che, in questo modo, non sa più capire le periferie e i problemi che vi insistono, per una destra populista che pullula di piromani ma non sembra avere capacità di una proposta politica equilibrata e per movimenti che presidiano la rete ma non hanno la più pallida idea di cosa sia un quartiere popolare dove convivono etnie, abitudini, rabbie differenti. E, da questo punto di vista l’esempio di Roma capitale è paradigmatico.

Una cosa a mio parere risulta molto chiara.

Che lo si voglia o no, è solo partendo da ciò che ha spinto una parte minoritaria seppur importante dell’elettorato, a chiedere un cambiamento vero che si può ricostruire una comunicazione concreta, un rapporto, una proposta con quella parte che, con altrettanta buona fede, si è trincerata con lo schieramento opposto. Quindi occorre ripartire dalle profonde ragioni di cambiamento vero di chi ha votato SI.

Se qualcuno pensa che la soluzione sia nell’approfondire le contrapposizioni non ha capito nulla.

Il referendum un cosa ce l’ha insegnata. Ci sarà chi lavorerà in questa direzione per acuire le contraddizioni sociali. I COBAS ci stanno già provando. Così come l’estrema destra.

I riformisti di entrambi gli schieramenti devono capire che quel NO non è solo un esercizio democratico assolutamente legittimo ma contiene anche veleno sociale, lacerazione, quindi pericoli per la stessa democrazia.

Per questo occorre ttrarne le conseguenze necessarie. E questo impegno non può essere lasciato solo alle forze politiche. Nessuno si deve permettere di scherzare con il fuoco se ha a cuore il futuro del Paese.

Oltre il referendum. Non perdere la speranza e non rinunciare alle buone battaglie

Nella vita a volte la strada è tracciata ma l’orizzonte resta oscuro:
occorre avanzare con speranza passo dopo passo.

Enzo Bianchi

 

Marco Bentivogli lo ha detto bene prima del referendum. “Sono molto convinto delle ragioni della Riforma perché questo Stato è organizzato con regole che sono contro la solidarietà e la sua efficienza. E a chiunque vincerà continuerò a chiedere di cambiare.

Sono tra coloro che se prevarrà il No, insisterò per le riforme, con qualsiasi Governo. E che se vincerà il Si le cose siano ben fatte in coerenza con gli obiettivi propagandati. Ma soprattutto insisteremo per andare avanti. Questo è un paese in cui le cose sono fatte appositamente per chi non ha bisogno di regole e dello Stato.”

Il punto centrale per chi è impegnato nel mondo del lavoro e dell’impresa sta tutto qui. Ci sono riforme in mezzo al guado, scadenze in arrivo, contratti da gestire.

Nessuno, in chi fa politica seriamente e tanto più nelle organizzazioni di rappresentanza, può permettersi di giocare al “tanto peggio, tanto meglio”, di covare vendette o rancori postumi né di rassegnarsi ai tempi delle convenienze politiche di questo o di quel partito o movimento.

Fortunatamente abbiamo un Presidente della Repubblica che ha sempre esercitato un ruolo di arbitro e di garante e che oggi può vantare una autorevolezza che né il compatto fronte che ha perso il referendum né il variegato fronte che ha vinto può vantare. Il Paese ha bisogno di un Governo.

Non credo sia una buona cosa andare al voto prima della scadenza naturale del 2018 a meno che non si voglia continuare una campagna elettorale ancora più dura ed estenuante di quella appena terminata che accentui ulteriormente la divisione tra i 13.432.208 italiani che hanno votato SI e i 19.419.507 che hanno votato NO.

In un mio recente intervento sul blog scrivevo: “il mio SI non si esaurisce il 4 dicembre dove è naturalmente scontato. Voglio pensare che il patrimonio di consenso che prenderà forma quel giorno al di là del risultato numerico verrà raccolto con convinzione per continuare a tenere accesa la volontà di cambiamento del Paese indispensabile a prescindere dall’attuale Presidente del Consiglio.

Ecco io non credo legittima la reazione di chi dice che adesso tutto deve restare com’è quasi fosse una punizione divina per il popolo che, al contrario si è ormai espresso in termini così perentori. Occorre che si ritorni pazientemente a ricostruire un tessuto tra i riformisti presenti in entrambi gli schieramenti con lo scopo di utilizzare tutto il 2017 e fino alle elezioni naturali del 2018 per fare ciò che serve al Paese.

Van der Bellen ha vinto in Austria alzando lo sguardo e rilanciando la speranza degli Stati Uniti di Europa non inseguendo i populisti sul loro terreno. Le donne e i giovani austriaci gli hanno creduto e gli hanno dato la forza necessaria per consentirgli di riunificare un Paese nel quale, sia chiaro, la destra non è paragonabile alla nostra.

Io spero e credo che chi si è riconosciuto nel cambiamento oggi deve saper guardare lontano  e rilanciare la speranza di un Europa diversa, superando i rancori, lo spirito di rivalsa e i tatticismi ormai inutili visto che “Annibale è alle porte”.

Continuo a pensare che c’è un enorme spazio di ripresa e di iniziativa che non va disperso. Lo sintetizzo così: Voti ottenuti nel 2014 alle Europee dal fronte per il SI (Pd-Area Popolare): 12.405.581. Oggi è 13.432.208 e con un pezzo di Pd schierato per il No. C’è ancora molto da fare.

Personalmente resto ottimista sulle prospettive. Come lo ero prima del referendum. Continuo a pensare che un vero “Patto per il Paese” sarebbe il vero snodo.

Tre, quattro priorità importanti da condividere su cui forze sociali e Politica possano iniziare a ricostruire un senso di comunità nazionale.

Verranno ancora i giorni nei quali avrà senso confrontarsi tra idee diverse, dove forse una globalizzazione finalmente intelligente e un’idea diversa di Europa dovranno affrontare con maggiore convinzione e determinazione populismi ed egoismi che si radicano laddove la Politica si ritira e cede il passo alla demagogia, ma non è questo quel giorno.

Oggi occorre far tesoro di questi risultati e ricostruire quella necessaria fiducia collettiva che ci consenta di immaginare e di continuare a credere nel nostro futuro.

E questa fiducia si ricostruisce su valori condivisi, senso della comunità e facendo perno sugli interessi generali del nostro Paese.

Comunque vada il referendum di Marco Bentivogli…

Il 75% dei partiti (in termini di voti presi alle ultime elezioni politiche nazionali) è schierato per il No alla Riforma.
In realtà molto di più perché come è noto, Verdini aiuta più a perdere voti che a guadagnarne e una parte del Pd e la Cgil hanno sostenuto e fatto campagna per il No. Eppure molti di questi partiti han votato per ben 3 volte l’intero testo, altri han pure ottenuto modifiche che secondo me l’han peggiorato. Renzi sopra il 35% potrà sentirsi comunque soddisfatto.

Questo dice già molto sull’esito che ci si può aspettare. E anche sui prossimi giorni in cui invece che ripartire a far ciascuno il proprio dovere, ci saranno coloro che hanno avvelenato anche questi mesi e indicheranno i pali a cui sono destinati i traditori.
La nausea diffusa degli ultimi strilli di campagna referendaria non finisce oggi purtroppo, la cosa più squallida in Italia sono le trasmissioni sul dopo voto, in cui i commentatori “l’avevano detto” e da abili post-veggenti cambieranno versione all’occorrenza. Non ci sono mai stati neanche all’epoca di Berlusconi così tanti giornalisti schierati su un unico fronte.

Il nostro non è un paese maturo, oltre la virulenza dell campagna (con un procuratore della repubblica italiana che ha paragonato la scelta del SI a quella dei repubblichini di Salò (provincia venezuelana) nel ’43)).
Sono molto convinto delle ragioni della Riforma perché questo Stato è organizzato con regole che sono contro la solidarietà e la sua efficienza. E a chiunque vincerà continuerò a chiedere di cambiare.
Sono tra coloro che se preavarra’ il No, insisterò per le riforme, con qualsiasi Governo. E che se vincerà il Si le cose siano ben fatte in coerenza con gli obiettivi propagandati. Ma soprattutto insisteremo per andare avanti. Questo è un paese in cui le cose sono fatte appositamente per chi non ha bisogno di regole e dello Stato.
Se vincerà il No, non accadrà nulla di drammatico, tutto resterà così come è.
Non ero nato quando nel ’53 parti’ la prima commissione per cambiare il Senato (che gli stessi costituenti definirono “inutile doppione”) ero in seconda media quando nell’83 provarono la prima riforma costituzionale con la Commissione De Mita-Iotti e gli altri 6 tentativi che ne seguirono.
Vorrà dire che bisognerà aspettare ancora.
Questo è un paese che sulle regole, ha sempre scelto i rinvii, gli sconti su di esse e quasi mai il loro cambiamento.
Ci sarà un prezzo da pagare? Certo ma il più grosso lo abbiamo già pagato.

Votate quello che volete.
Io sogno un paese più maturo in cui dall’assemblea condominiale, ai luoghi di lavoro, ovunque si voti, solo sui contenuti e non contro il vicino, il portinaio o la moglie dell’amministratore. Con la crisi della politica molti negli ultimi anni votavano,”per la persona” con un po di vergogna per il partito che votavano, ora in modo liberatorio votano “contro la persona”.

L’Italia non è riducibile a Grillini e Renziani.
A volte, però, occorre essere consapevoli che si sceglie tra i due e che il resto è dettaglio. Come sempre del resto…

Anche nel 2006 la gran parte voto’ contro Berlusconi (che aveva già perso le elezioni) senza aver letto una riga di quella Riforma.

Il popolo non esiste, è una costruzione politica utilizzata ad arte da questo o quel potere.
Esistono le persone, a loro sta la responsabilità, informarsi, capire e scegliere. E I social sono spesso degli spargibufale che elevano ignoranti patentati a: sismologi, commissari tecnici, costituzionalisti. E le persone si annientano nella folla rabbiosa è manipolata. Più si è ignoranti e più si carica di retorica e significati roboanti ogni accadimento. È così che vince quasi sempre la folla, quella che grida senza capire e senza accorgersi di essere guidata e da 2000 anni finisce per scegliere sempre Barabba.
La democrazia senza consapevolezza e partecipazione è vuota.

Votate quel che credete e almeno da domani rispettate la scelta diversa dalla vostra. Ma soprattuto costruite la vostra con un po’ più di serietà.

A prescindere da come andrà, considero molto più pericoloso dei fallimenti delle banche e delle crisi finanziarie, non essere capaci a cambiare e consegnare il paese ai populisti demagoghi di ogni risma.
Anche se forse non basterà serviranno molti colibrì come ci ricorda Mario Sassi:

“Un colibrì vola sopra un incendio nella savana con una goccia d’acqua nel becco. Il leone urla: “cosa pensi di fare?” “Solo la mia parte”, non solo oggi ma tutti i giorni.