Politica e lavoro. Tu chiamale se vuoi elezioni…

C’è solo da scegliere. Si va dall’abolizione della Fornero e del Jobs Act, proposte rispettivamente dalla Lega di Salvini o da “Potere al popolo” all’istituzione del salario minimo da parte del PD. Da una decontribuzione completa per nuovi assunti alle pensioni minime a mille euro proposto da Forza Italia.

Dario Di Vico, nell’editoriale di oggi sul Corriere, (   http://bit.ly/2CVxY4f  ) invita la Politica a prendere sul serio il tema del lavoro. Sembra anche disposto a concedere il beneficio del dubbio alla buona fede di alcune proposte nonostante l’evidente strumentalità della maggior parte delle stesse.

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Giovani e tute blu

Giovani o meno giovani, nessuno pensa al lavoro come maledizione. Sia chi ce l’ha, sia chi lo cerca ma perfino chi se lo immagina, vista la sua giovane età, trova più facile indicare ciò che non vorrebbe trovarsi a fare in futuro.

La pessima performance dei ragazzi in tuta e catene che protestano contro l’alternanza indica esattamente questo. Il mondo degli adulti a questa rappresentazione ha reagito compatto, condannandola. È giusto. Il lavoro, qualsiasi lavoro, non può essere “offeso” o ridotto ad esempio negativo. Soprattutto un lavoro onesto, dignitoso e ancora carico di significato come quello dell’operaio.

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Quadro politico e forze sociali. Un passo avanti e due indietro?

Continuando così la prossima legislatura rischia di essere veramente quella del commissariamento del nostro Paese. Da un lato una Politica litigiosa e inconcludente che sembra voler affrontare la prossima contesa elettorale scontrandosi su contenuti tanto popolari quanto improponibili. Dall’altro i corpi intermedi che stanno procedendo in ordine sparso illudendosi, forse, di poter condizionare in modo tradizionale, la Politica.

Il lavoro, le pensioni, le tasse e il reddito dei cittadini diventano in questo modo centrali, seppur posti in modo contraddittorio e superficiale mentre ritornano sullo sfondo la necessità di rimettere in ordine i nostri conti e di ridurre conseguentemente il nostro debito pubblico.

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Il futuro del retail è già qui…

“Due giovani pesci nuotano uno vicino all’altro. Improvvisamente incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua? I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e poi uno si ferma e chiede all’altro: “che cavolo è l’acqua?”

Personalmente non ho trovato nulla di più appropriato di questa metafora, proposta dallo scrittore americano David Foster Wallace, per riflettere su ciò che diamo per scontato, addirittura necessario per sopravvivere, ma che scontato non è: il futuro del lavoro nella Grande Distribuzione.

È indubbio che l’aria è cambiata. Presidiare il mercato limitandosi a nuovi insediamenti, ad aumentare le superfici, spingere con le promozioni e continuando semplicemente a ridurre i costi non funziona più. Oggi è sempre più strategico il cliente.

A parole lo è sempre stato ma adesso diventa la vera chiave di volta. La semplicità e la rapidità di acquisto, gli orari e le giornate di apertura, la competizione con le vendite on line fanno sempre più il paio con la qualità dei prodotti offerti, la loro convenienza, la motivazione all’acquisto, i desideri espressi o in divenire.

Per le aziende del settore diventa sempre più centrale la capacità di sviluppare una relazione duratura con il proprio cliente sempre più “infedele”. Questo riorientamento però non è facile. Ci sono format superati quindi in crisi, modelli organizzativi molto tradizionali, una contrattualistica sindacale sostanzialmente fordista e addetti che spesso individuano nel cliente un “nemico”, poco convinti, pur da ingenti programmi formativi, a cambiare punto di osservazione, accettandone la nuova centralità.

Poi ci sono le aziende dove i delegati sindacali e i rispettivi sindacati esterni di riferimento hanno in mente modelli organizzativi e rigidità d’altri tempi autoescludendosi così da qualsiasi ruolo concreto e propositivo. Oppure, come nella cooperazione, dove da protagonisti negativi, si impegnano a frenarne la competitività in rapporto alle altre realtà concorrenti del settore.

Recentemente è uscita una pubblicazione americana “Technology at work 3.0” che fa il punto sui rischi per l’occupazione futura in questo comparto economico. Punti vendita senza casse, centro di smistamento prodotti e consegna a domicilio robotizzati e terziarizzati, integrazione on line off line, trasformazioni dei layout, fanno pensare ad un settore che subirà un forte ridimensionamento occupazionale. Un po’ come le banche.

Lo studio azzarda un dato sicuramente eccessivo quando accenna ad un futuro del settore con più o meno l’80% dei posti a rischio. Forse più della quantità dei posti di lavoro è la possibile velocità del cambiamento che potrà creare problemi. Soprattutto se tutto questo dovesse avvenire in pochi anni quindi coinvolgendo i lavoratori più anziani, quelli meno disponibili al cambiamento. E soprattutto questo provoca il venir meno di posti di lavoro a disposizione di lavoratori con livelli di studio e provenienza geografica, differenti.

È vero però, come sostiene Andrea Garnero economista OCSE, che “se negli anni scorsi abbiamo imparato a conoscere i perdenti della globalizzazione, nei prossimi anni conosceremo i perdenti della tecnologia”. Personalmente credo che su questo occorrerebbe riflettere.

Come si può affrontare, accompagnandola, questa probabile situazione? Innanzitutto smettendola con le battaglie di retroguardia. Tipo quelle contro le aperture festive. Ininfluenti sul piano pratico relegano tutto il sindacato di categoria in una posizione subalterna e poco credibile come interlocutore nel settore. Anche per gli stessi lavoratori. O quelli che aspirano ad esserlo pur, per necessità, con contratti ridotti. Tra l’altro come può ritrovarsi, il sindacato, a concordare quel tipo di lavoro nelle singole aziende ed essere contro a livello generale resta, per me, un mistero inspiegabile. Così come mettere contro lavoratori con l’obbligo della prestazione con altri esonerati perché assunti in un periodo precedente. Una ripartizione su più persone renderebbe meno pesante il carico festivo per tutti.

Le aperture domenicali, festive e h24 sono ormai strutturali e richieste dai consumatori. Non tanto e non solo perché on line si può comprare sempre ma perché laddove le aperture vengono gestite con buonsenso si raggiungono accordi su una gestione meno rigida con benefici per l’occupazione.

E questo consentirebbe di riprendere un confronto a livello istituzionale, oggi fermo, per trovare soluzioni nell’interesse delle imprese di ogni dimensione e degli stessi lavoratori. Uscire da una logica di contrapposizione sul “nulla” aiuterebbe a riprendere il filo della contrattazione di comparto.

La situazione attuale che vede lavoratori coperti da un contratto nazionale e altri in balia degli eventi con tranche anticipate unilateralmente, non può durare a lungo. Federdistribuzione non è riuscita a chiudere il proprio contratto nazionale perché non ha alcun senso aggiungere un altro ai tre già utilizzati dalle imprese. I sindacati, unitariamente, lo hanno ormai capito benissimo.

Però, molte delle esigenze manifestate, sono assolutamente legittime e andrebbero riprese pur all’interno della contrattazione nazionale in essere che consente deroghe, aggiustamenti, specificità, costi e modalità di corresponsione.

Lo stesso Ministero del Lavoro dovrebbe lavorare in questa direzione più che fingere di non vedere una situazione senza sbocco. Così come approfittarsi della debolezza del sindacato di settore per non procedere ad alcun rinnovo è un azzardo che potrebbe rivelarsi controproducente per le imprese del settore. Soprattutto in una fase di riorganizzazione profonda con le prospettive di cui abbiamo accennato sopra.

Fino a quando è legittimo chiedere al sindacato di “Cantare e portare la croce” come lo è spesso per “gli uomini che sanno celare il dolore dietro un indulgente e rassegnato sorriso”?

Forse è arrivato il momento di parlarsi tutti e sul serio e guardare avanti. Insieme. Non limitandosi a ribadire il proprio punto di vista come, purtroppo, è avvenuto fino ad oggi.

Welfare aziendale e contrattuale di fronte a nuove opportunità.

Il welfare aziendale sta assumendo una nuova importante dimensione per le imprese e per i lavoratori. Gli accordi si moltiplicano e diventano pratica quotidiana.

Gli sgravi previsti e le opportunità consentite spingono le parti, a livello aziendale, a comprendere nuovi interessi e nuove idee attraverso i quali motivare i collaboratori, dare maggior valore alle risorse disponibili e migliorare così il clima aziendale.

Siamo solo all’inizio, credo, di un fenomeno che produrrà anche inevitabili effetti collaterali sulla cultura del lavoro del nostro Paese. Non solo perché rimette in discussione il concetto stesso di retribuzione totale (costruita nel passato sul salario e sul suo costante e inevitabile aumento) spingendo il lavoratore a considerarne il controvalore effettivo ma anche perché lo predispone a partecipare alla sua definizione complessiva, a cosa destinare al suo incremento e quindi a stabilire una relazione nuova tra impegno personale, produttività, clima aziendale, valorizzazione dell’impresa nella quale lavora. Ma anche un nuovo ruolo del sindacato e della contrattazione aziendale.

Tutto questo mette in moto una maggiore consapevolezza perché spinge a riflettere, a scegliere, a raggiungere gli obiettivi concordati perché, tra le altre cose, la contropartita è chiara, modificabile nel tempo e sempre più personalizzabile. Avvicina, in sostanza, impresa e lavoro e ne favorisce la collaborazione.

Cosa non riuscita, almeno fino ad oggi, al welfare contrattuale definito nella contrattazione nazionale. Innanzitutto perché è stato percepito come calato dall’alto in una fase storica diversa dove non tutto il sindacato lo ha affrontato e proposto con la stessa convinzione.

La preoccupazione che dietro il welfare contrattuale ci fosse l’accettazione di una sorta di smantellamento del welfare pubblico ha frenato soprattutto la CGIL e alcune sue categorie ma anche molte imprese hanno vissuto quelle intese come improprie, come un costo che, in qualche modo sottraesse risorse altrimenti meglio impiegabili.

Questa visione ha impedito una comunicazione positiva e comune, un coinvolgimento utile a migliorare il clima e a rafforzare un sistema di relazioni che non ha certo giovato all’affermazione stessa del welfare contrattuale.

E questo ha trasformato una brillante intuizione, oggi sempre più fondamentale, in una sorta di tassa aggiuntiva per le imprese e per i lavoratori che faticano, se non lo utilizzano concretamente, a considerarlo di grande interesse e valore.

Soprattutto non ha contribuito a cambiare nulla sul piano culturale e partecipativo delle imprese e del lavoro. Da qui, credo, occorra, oggi, ripartire. L’importanza del welfare contrattuale è decisiva sia nelle grandi aziende che nelle PMI. C’è un problema di masse critiche, di governance e di qualità dell’offerta.

Confcommercio e Confindustria, ad esempio, hanno tutto l’interesse a continuare a parlarsi proprio per le prospettive che possono essere messe a fattor comune, così come il sindacato confederale.

Con una governance moderna, una gestione trasparente e una comunicazione condivisa ed efficace il welfare contrattuale può fare un salto di qualità di cui ce ne è assolutamente bisogno. Sia per valorizzarlo nel confronto con il Governo in termini di servizio e di fiscalità, sia per consentire alle imprese e ai sindacati di valorizzarlo all’interno di un progetto comune nazionale e territoriale di rilancio della contrattazione.

Trovare un equilibrio nelle proposte di welfare (contrattuale e aziendale) che valorizzi meglio entrambe le fonti, renda meno facoltative quelle che influiscono sul futuro previdenziale o sanitario degli individui, le integri meglio lasciano al singolo la libertà di scelta attraverso meccanismi (tipo ticket restaurant) flessibili erogabili anche attraverso convenzioni meno aleatorie o parziali di quelle oggi in essere potrebbe rappresentare una nuova sfida per le parti sociali.

Soprattutto perché l’universalità degli strumenti messi a disposizione, la loro efficacia anche in presenza di discontinuità sul mercato del lavoro, deve essere garantita non tanto e non solo dalla applicazione di un contratto specifico o dall’appartenenza ad un’azienda illuminata ma da un sistema che ne favorisca la flessibilità di utilizzo e quindi dia certezze che solo le parti sociali possono garantire in un contesto evolutivo dei nuovi assetti contrattuali.

FCA Group. Est o ovest pari sono?

“Quando escono notizie del genere – osserva Giuliano Noci prorettore del polo territoriale cinese del Politecnico di Milano– è perché la chiusura dell’operazione è molto vicina o perché qualcuno ha interesse a sabotarla”.

Credo vada inquadrata dentro questa alternativa secca la notizia, apparsa sui giornali, che riguarda i cinesi di Great Wall Motor e i loro interesse per FCA. La Borsa l’ha assunta come buona e ha registrato un significativo balzo in avanti.

Marco Bentivogli ne ha subito individuato la reale pericolosità se propedeutica ad uno spezzatino degli stabilimenti o dei marchi italiani con possibili gravi riflessi sull’occupazione.

Sergio Marchionne ha annunciato la sua uscita da FCA per il 2019 quindi, per allora, l’azienda dovrà aver risolto il problema della sua collocazione nella competizione globale. Fino ad ora, però, FCA ha incassato più rifiuti che interesse. Le ragioni possono essere molte.

Mi soffermo su una, apparentemente secondaria: le caratteristiche del management. Forte, aggressivo e con una visione internazionale. Il CEO Marchionne lo ha costruito a sua immagine e somiglianza. È riuscito a sostituire una mentalità interna che faceva leva su di una presunta “superiorità sabauda” ormai condannata e in via di estinzione con una cultura della competizione a tutto campo tipica dei modelli manageriali anglosassoni.

Un management che crede in se stesso, che non si sente inferiore a nessuno, coeso e determinato. Un management preparato, scaltro e veloce nel “gioco di gambe” che potrebbe rappresentare un problema per chiunque volesse omogeneizzarlo in valori e culture differenti.

Un management costruito più per inglobare e integrare che per essere inglobato. Difficile da rimuovere senza correre il rischio di far ritornare di nuovo l’azienda italiana sull’orlo del burrone. L’operazione Chrysler, da questo punto di vista, si è dimostrata un successo da manuale. Così come, a mio personale parere, è la pubblicizzazione dell’offerta dell’azienda cinese con annesso scorporo di Alfa Romeo e Maserati.

Sul piano globale rappresenta la possibilità per i cinesi di ottenere le chiavi del mercato automobilistico americano nell’era Trump. O meglio ne segnala il rischio se altri interlocutori non si faranno avanti rapidamente.

Personalmente non so valutare, non avendo le competenze del prof. Giuliano Noci, l’impatto sulla filiera produttiva nazionale di questa come di altre scelte e quindi mi astengo da qualsiasi giudizio di merito.

Segnalo solo che il gioco si fa duro. I cinesi, in questo come in altri campi, sono in grado di far saltare il banco. Possiedono i mezzi necessari e una visione di comparto e di Paese molto più unitaria, interessata e integrata di qualsiasi altro continente. Soprattutto un approccio che tende a inglobare rispettando la professionalità e le culture altrui.

Adesso la parola passa ai player che conoscono la spregiudicatezza nel business di Sergio Marchionne e le ambizioni di Trump sulla centralità dell’industria americana. Personalmente credo che l’idea stessa di togliere dal tavolo Alfa Romeo e Maserati possa servire per rendere ancora più credibile l’intera operazione.

Per il sindacato e per l’intero nostro Paese inizia, però, una fase molto complessa. Per questo Bentivogli fa bene a far sentire forte la sua voce. Fino ad oggi l’interesse di FIAT e quello dell’Italia sono sempre stati fatti coincidere.

Sullo scacchiere globale questo potrà continuare solo se la Politica (quella con la P maiuscola) non si perderà in accuse e contro accuse inutili e fuori tempo massimo e giocherà un ruolo propositivo e innovativo. I futuri assetti di FCA non sono paragonabili per immagine, peso occupazionale e dimensione alle beghe con i francesi sulla cantieristica o sulla Telecom.

Seppure meno che in passato, una parte importante del Made in Italy e della recente crescita del nostro PIL passa ancora da lì.

Grande Distribuzione, consumi, lavoro e nuove sfide

L’invito a passare la festività del Ferragosto ovunque meno che in un centro commerciale testimonia una delle contraddizioni evidenti nelle quali si muove l’intero sindacato del terziario.

Una contraddizione che lo costringe a inutili reazioni pavloviane tipo quella di dichiarare una giornata di sciopero coincidente con la festività per consentire ai (sempre meno) lavoratori del settore che non vogliono lavorare quel giorno, di poterlo fare.

Nessun punto vendita è mai stato chiuso a seguito di queste singolari proteste e i carichi di lavoro (non essendo un lavoro vincolato) vengono inevitabilmente distribuiti sui colleghi che non aderiscono alla iniziativa. Quindi “zero problemi” per le aziende.

Nessuno però, tra i sindacati del settore, si è mai interrogato sul perché le persone riempiono i centri commerciali durante le festività, qual’è la loro provenienza sociale, l’eta prevalente o il loro reddito disponibile.

Oppure che la stragrande maggioranza dei frequentatori non compra assolutamente nulla o che i messaggi sindacali di opposizione al lavoro festivo vengono accolti o sottoscritti esclusivamente da chi non andrebbe mai in un centro commerciale in quei giorni.

L’ultimo manifesto unitario prodotto, rappresenta, da questo punto di vista, un capolavoro di ovvietà e di sottile umorismo nel suo claim: “Sei sicuro di voler passare il Ferragosto nella solita galleria commerciale?” Un esperto di marketing ci leggerebbe l’invito a cambiare galleria, sceglierne un’altra per permettere un adeguato riposo agli addetti più che valutare se sarebbe preferibile l”alternativa di Capalbio o Rimini…

L’assurdo è che anche Federdistribuzione rinuncia a leggere la realtà di cosa è oggi un centro commerciale limitandosi a rivendicarne l’apertura in nome delle liberalizzazioni ottenute. Così resta un dialogo tra sordi.

Vedere i centri commerciali come semplice luoghi di sfruttamento del lavoro o di consumo esasperato e non come luoghi di relazione, di incontro o di semplice passatempo ne pregiudica il futuro, ne rallenta l’evoluzione ad esempio, di un possibile vantaggio per i centri storici delle città.

Ne limita le potenzialità culturali e sociali che sono enormi. Soprattutto oggi che la crisi del settore e i segnali che giungono dagli Stati Uniti imporrebbero una capacità di riflessione e di visione che sappia andare oltre le beghe da cortile tipiche dei nostri dibattiti sul tema.

C’è un problema di consumi (qualità e quantità), di rapporto tra luoghi fisici e virtuali, di rapporto tra diversi canali di vendita, di ridisegno delle città sapendo che la dislocazione della distribuzione commerciale (grande e piccola) è fondamentale per contribuire a tenere insieme le comunità. Fino ad oggi si è voluto vedere il problema solo dal versante degli operatori economici o del lavoro degli addetti. Oppure dal punto di vista ideologico. Mai cercando di comprendere il contesto, la sua evoluzione e le necessità di un ruolo per tutti gli attori coinvolti.

Oggi la crisi lo impone. Nella Grande Distribuzione ci sono aziende che si stanno aprendo al contesto nel quale sono inserite. Lo stanno facendo con sperimentazioni, nuove idee e proposte. Manca una riflessione comune senza la quale continueremo ad assistere a battaglie di retroguardia sulle chiusure o sulle liberalizzazioni necessarie.

Per me resta incomprensibile il ritardo culturale dei sindacati di categoria che si ostinano stancamente a proclamare agitazioni fuori tempo per soddisfare pochi seguaci e a concordare gettoni di presenza o assunzioni aggiuntive per il lavoro festivo.

Così come quello delle associazioni di categoria che dovrebbero prendere atto che la guerra tra di loro è, di fatto, finita.

Nessuno ha perso ma, sia chiaro, nessuno ha vinto. Gli effetti collaterali sul sistema e sugli addetti sono sul tavolo ed evidenti a tutti. Si tratta solo di decidere se affrontarli in un quadro evolutivo e intelligente o subirne le conseguenze.

Ma ci sarà anche lo sciopero 4.0?

Negli ultimi dieci anni gli scioperi che hanno fatto cambiare sul serio una decisione, nel settore privato, si contano (forse) sulle dita di una mano. C’è una certa riluttanza sia a minacciarli che ad indirli. Ma soprattutto a parteciparvici.

Diversi sono i casi come, ad esempio, quelli accaduti alla Reggiani Macchine di Grassobbio o all’Eutron di Pradalunga dove la reazione spontanea dei lavoratori si è manifestata di fronte ad un sopruso inaccettabile contro una collega che rientrava dalla maternità.

O alla Wittur di Colorno contro una decisione improvvida dell’azienda di licenziare un lavoratore gravemente malato. Diversi perché non c’è in gioco una richiesta di aumento salariale o di migliori condizioni di lavoro. C’è in gioco qualcosa di più che ha a che fare con il rispetto delle persone e la dignità stessa del lavoro. Quindi con un connotato fortemente difensivo.

È lo sciopero come rito collettivo, come manifestazione esplicita della presenza di un conflitto tra interessi economici differenti, come strumento di miglioramento della propria condizione, che ha perso di significato. Non c’è un contratto nazionale né aziendale che ha assegnato ai rapporti di forza il risultato ottenuto.

La stessa presenza di milioni di lavoratori senza contratto nazionale dimostra che, laddove i rapporti di forza sono invece stati determinanti, lo sono stati a favore delle aziende.

A questo scenario post conflittuale e post novecentesco le organizzazioni di rappresentanza hanno reagito in modo intelligente innanzitutto rispettandosi e riconoscendosi reciprocamente come portatori legittimi dei rispettivi interessi in campo. Il buon senso, l’accettazione dei rispettivi vincoli e la capacità di individuare sintesi condivisibili hanno via via sostituito nella visione del sindacato l’idea che una vertenza dura o un negoziato difficile dovessero avere anche lo scopo di formare una coscienza collettiva superiore.

Il fatto però che lo sciopero si sia trasformato in un’arma spuntata non significa che non esista la necessità di stabilire nuove regole del gioco. Innanzitutto per evitare la cosiddetta “legge del pendolo” trasferendo semplicemente al solo imprenditore il potere decisionale in materia di lavoro negando alla radice il diritto di tutela degli interessi che restano (su diversi aspetti) divergenti.

Quindi occorre individuare procedure di gestione del conflitto, nuovi luoghi di sintesi e mediazione, tempi e modalità di risposta certi. E occorrerebbe farlo rapidamente. Poi c’è un problema sul lungo termine.

Così come l’industria si è andata via via terziarizzando perché al centro del suo operato c’è sempre meno il prodotto e sempre più il cliente e la sua soddisfazione così per il sindacato il punto di arrivo non può essere quello di rinchiudersi nei reparti di fabbriche sempre più condizionate da vincoli provenienti dalle filiere produttive e distributive nelle quali sono inserite.

E su questo punto credo ritornerà di attualità, rielaborata, l’intuizione di Giorgio Benvenuto, e cioè il “Sindacato dei cittadini” che presentò nei primi mesi del 1986 e che non ebbe lo sviluppo e la fortuna che quell’intuizione avrebbe meritato.

Un sindacato moderno che comprende le esigenze dei lavoratori ma anche nel loro ruolo di consumatori quindi come cittadini. In grado cioè di condizionare con le scelte di acquisto (o di non acquisto) le imprese nella loro decisioni e atteggiamenti.

Non è un caso che, ad esempio negli Stati Uniti, le imprese sono molto attente alla percezione che i consumatori hanno dei loro comportamenti, della loro responsabilità sociale, del loro rapporto con l’ambiente e il contesto socio economico.

La stessa intuizione dell’economista Leonardo Becchetti, assunta anche nello statuto della FIM CISL di “voto con il portafoglio” va in questa direzione. Esprime, in modo concreto e netto la sovranità del consumatore il quale può decidere di usare il suo potere di acquisto e di risparmio per premiare o, punire, aziende responsabili o irresponsabili dal suo punto di vista.

È chiaro che questa è una strategia sulla quale oggi non c’è ancora né una convinzione profonda né una riflessione vera. Ma la strada è, a mio parere, questa. Far crescere una consapevolezza e una maturità nuova nei cittadini e quindi tra i lavoratori che individui nella qualità del rapporto di lavoro, in legittime tutele universali e uguali per tutti, nella condivisione di rischi e opportunità con le imprese la direzione di marcia.

Così come il lavoro 4.0 sarà completamente destrutturato e ricostruito rispetto ad oggi, la composizione dei differenti interessi in campo non può che subire la stessa metamorfosi con esiti imprevedibili, se non governata con intelligenza e lungimiranza.

Bonus, etica, rischi di impresa e management

Il dibattito sollevato nella vicenda Tim/Cattaneo riporta in primo piano i limiti di una cultura che pretende di trovare risposte semplici a problemi complessi. Sostengono alcuni:”Cosa c’è di male di fronte ad una vicenda maturata nel rispetto della legge e della libertà di negoziazione tra le parti?”

Troppo o poco, sono, in questa logica, concetti astratti, fuorvianti financo indebiti. Nessuno ha minacciato nessuno quindi chi pensa di avere qualcosa da dire rischia di passare solo per moralista inconcludente.

Mario Sechi ha pubblicato una classifica interessante. Tanti soldi a molti top manager di lungo corso ma solo due di loro, Flavio Cattaneo (TIM) e Cesare Geronzi (Generali), in un tempo molto breve ed entrambi in settori non di loro competenza. Sarà un caso però anche questo dovrebbe far riflettere.

Parlare di risultati ottenuti è fuorviante. Questa idea che bisogna premiare un top manager ancora prima che entri in azienda (welcome bonus) e alla sua uscita (goodbye bonus…) oltre alle spettanze (seppur molto ben arrotondate) di legge e di contratto la trovo veramente ridicola.

Dicono però i sostenitori della tesi che, nel caso di Cattaneo, lo stesso avrebbe ottenuto risultati eccezionali in un tempo estremamente ridotto. Quindi è giusto premiarlo. Qui siamo, a mio parere, all’assurdo. Un top manager super pagato fa quello per cui è stato ingaggiato e questo suscita ammirazione.

Non ci si scandalizza mai del contrario. Così come non ci si scandalizza che un CDA di quel livello dimostri una così scarsa conoscenza dell’azienda da assegnare obiettivi raggiungibili in un tempo pressoché dimezzato rispetto al punto di partenza. Che strano Paese è il nostro…

Capisco la determinazione che spinge i top manager a tutelarsi dalla volubilità dei CDA ma qui siamo ben oltre ogni logica. Questa vicenda dimostra che un top manager di altissimo livello può pretendere tutele da far impallidire l’articolo 18, non garantire nulla in caso di fallimento con conseguenze sull’azienda stessa o di non raggiungimento degli obiettivi e siglare un patto di non concorrenza (pur non essendo un professionista di quel settore) che serve unicamente per impedirgli di utilizzare (alla faccia del comportamento) le informazioni acquisite, in una azienda concorrente.

E, tutto questo, non avrebbe nulla a che fare con l’etica? Ho conosciuto centinaia di dirigenti di medio e alto livello che hanno rappresentato e rappresentano la spina dorsale delle imprese italiane. Professionisti che si sono costruiti giorno per giorno la loro professionalità e hanno affrontato sfide complesse e che sottraggono tempo alla loro vita privata e agli affetti familiari ma che non hanno nulla a che fare con questa degenerazione del sistema.

Manager il cui obiettivo è fare bene, ingaggiare i propri collaboratori, condividerne le sfide quotidiane senza avere paracaduti nascosti o vie di uscita privilegiate. La stragrande maggioranza dei manager italiani non ha nulla a che vedere con queste eccezioni.

Ma, proprio perché sono tali, andrebbero inquadrate meglio. Leonardo Becchetti ci propone l’approccio di Etica sgr. Lo trovo condivisibile. A chi teme la fuga dei top manager nazionali verso lidi più tolleranti credo sia necessario sottolineare che, generalmente, a certi livelli si arriva anche in forza di impegnative carriere internazionali.

E che l’accettazione di situazioni rischiose per la propria carriera è nei fatti. Ed è comunque tutelabile senza alcuna esagerazione. Se osserviamo la lista proposta da Mario Sechi su LIST (da leggere!) possiamo osservare che molti tra i presenti appartengono ad una elite di fuori quota. Se volessimo quantificarla in termini assoluti non arriveremmo nemmeno all’1% della categoria.

I manager, quelli seri, sanno benissimo che il futuro prevederà sempre di più meccanismi di condivisione dei rischi di impresa. Altro che garanzie…

C’è, purtroppo, un residuo figlio di un tempo che sta volgendo al tramonto dove era solo l’imprenditore a doversi assumere i rischi. Non sarà più così. Ed è meglio che chi non lo ha ancora capito, se ne faccia una ragione.

Quando è troppo….

Flavio Cattaneo se ne va. Ha risanato la Tim quindi ha concluso la sua missione. Difficile pensare che a 54 anni resti disoccupato a lungo. I risultati parlano per lui.

Non ci sarebbe nulla di strano se la vicenda si concludesse con una stretta di mano, un comunicato congiunto e un congruo assegno che consenta al top manager di mantenere il proprio tenore di vita fino ad una nuova sfida professionale.

Per la quasi totalità dei manager italiani questo è l’epilogo previsto dallo stesso contratto nazionale. Ci sono però le eccezioni: alcuni super manager. Loro si autoescludono da questi schemi. A mio parere, esagerano e andrebbero contenuti ben più severamente. L’accettazione di un incarico da parte loro è quasi sempre preceduta dalle richieste di avvocati super specializzati che prevedono, nella stesura del contratto, tutte le opzioni possibili.

Quindi oltre allo stipendio possiamo trovare welcome bonus, i cosiddetti bonus di benvenuto che, nel caso di Cattaneo sembrerebbe ammontare a 2,5 milioni, benefit sostanziosi di vario genere legati allo status e ai risultati di ogni esercizio e infine tutte le clausole rescissorie con le relative contropartite. Tutto questo anche  per evitare qualsiasi contenzioso finale. Sopratutto consente quella “clausola di riservatezza” assolutamente necessaria quando si opera a certi livelli.

Molti, tra i sostenitori dello status quo, ritengono che questi accordi (tra privati) si raggiungono solo con il consenso di entrambe le parti e quindi, sono assolutamente legittimi e non rappresentano alcun problema. Gli oppositori, al contrario, pensano che certe cifre siano comunque fuori luogo anche quando sorrette da risultati eccezionali.

Il caso di Flavio Cattaneo va oltre il caso in sé ed è interessante per una serie di motivi. Innanzitutto, bisogna dirlo in premessa, non siamo in presenza di un bonus erogato comunque pur in presenza di performance negative. Anzi. I dati a disposizione dicono l’esatto contrario. È proprio questa razionalità positiva che, a mio parere, lo rende discutibile quindi ancora di più  “irrazionale”. Purtroppo, ed è vero, c’è chi lo ha preso comunque anche in presenza di performance gravemente negative ma quello, a mio parere, è più paragonabile ad un tipo di reato conosciuto:  il  “furto con destrezza”. 

In secondo luogo l’ingresso in Tim risale a soli sedici mesi fa e il piano da lui presentato fissava in almeno tre anni il tempo necessario per il turn around. Infine il record della cifra in sé rappresentato dal rapporto tra l’entità dell’importo e il tempo trascorso in azienda. Qualcuno ha fatto i conti traducendolo in circa 65 mila euro al giorno. Irraggiungibile.

Quindi una realtà come Tim è stata risanata nella metà del tempo concordata con l’azionista. E qui sta la mia prima perplessità. La qualità della valutazione di partenza.

In altri termini sarebbe interessante capire chi ha valutato così complessa e difficile la situazione di un’azienda di queste dimensioni da rendersi necessario un piano su di un arco di tempo, poi dimezzato. Su quali numeri si basava?

E, se i margini a disposizione erano così ampi, visti i risultati, Il corrispettivo concordato non è forse da ritenersi oggi, da entrambe le parti, eccessivamente generoso?

Il risanamento di un’azienda non è una corsa in pista dove conta arrivare prima. È una maratona. Occorre saper dosare le forze per arrivare in fondo. Conosco molte aziende che non accettano facilmente risultati che si discostano (anche positivamente) da previsioni concordate in sede di budget. E spesso i loro manager vengono giudicati negativamente dai rispettivi CDA.

Quindi, se le cose stanno come si legge sui quotidiani, Tim sembra che fosse in una situazione diversa (o almeno con maggiori opzioni a disposizione)  di come poteva apparire all’arrivo di Cattaneo. O che presentasse margini di manovra ben più ampi. Forse qualcuno dovrebbe risponderne perché oggi, a seguito di quelle valutazioni, l’azienda è chiamata ad un esborso straordinario. Infine l’entità economica della risoluzione del rapporto di cui scrivono i giornali.

Che sia corretta sul piano di ciò che era previsto negli accordi mi sembra fuori discussione. Quindi se fosse una disputa tra ragionieri saremmo a posto. Sommessamente aggiungo però che chi l’ha concordato, a nome e per conto dell’azienda,  mi sembra lo stesso soggetto, diciamo di manica piuttosto larga, che ha giudicato molto più grave la reale situazione economica dell’azienda al momento dell’arrivo del nuovo CEO. Tanto da rendere necessario un bonus stratosferico legato a risultati e tempi di realizzazione medio lunghi. 

Personalmente credo che, comunque la si voglia vedere, l’importo, se confermato, sia fuori da ogni logica. Tim è certamente un’azienda privata che (in teoria) può fare quello che vuole però il suo CDA non può pensare di non essere giudicato da un punto di vista etico per questo. Ma inevitabilmente anche lo stesso Cattaneo.

Certi importi non testimoniano la libertà dei manager e delle imprese ma solo la degenerazione di un sistema in disfacimento. Ai top manager, che occupano posizioni di rilievo nella nostra economia, non può essere consentito di fare contratti dove sono chiari (e spesso garantiti) i soli benefit lasciando le eventuali conseguenze negative, sempre possibili ai soli azionisti o ai dipendenti (manager e lavoratori). Troppo facile.

Così come chi pagherà in futuro  per eventuali conseguenze negative, su Tim stessa, derivate da scelte che nel breve possono apparire corrette ma nel lungo dimostreranno di esserlo molto meno. In molti contratti paracadute, in molti bonus dei top manager, si legge chiaramente il prevalere del tornaconto personale che a volte solo apparentemente coincide con l’interesse dell’azienda nel medio lungo periodo.

Questo è il punto. Nelle aziende ci sono centinaia di manager (dirigenti e quadri) che devono rispettare obiettivi, coinvolgere i propri collaboratori, essere agenti del cambiamento. Soprattutto credere che i loro top manager siamo preoccupati quanto loro dell’azienda di oggi e di domani. Non solo di se stessi. Ecco perché non ha senso dividersi in cinici realisti e moralisti.

Bisognerebbe, al contrario, dividersi tra chi si ferma davanti alla realtà solo per prenderne atto e chi guarda lontano.

Leonardo Becchetti fa bene a ricordarci che anche Ramsete, il grande Faraone egiziano pensava che Mosé fosse un noioso moralista. Abbiamo visto come è andata a finire..