Produttività. E se non fosse solo questo il problema?

Una cosa è certa. Quest’anno (fortunatamente) nessuno prevede un autunno caldo. È già un notevole passo avanti rispetto alle previsioni, che, ogni estate ci annunciano sommovimenti sociali al rientro dalle ferie.

Eppure, nel mondo del lavoro, la situazione permane molto seria. La ripresa c’è seppur in misura inferiore agli altri Paesi. I consumi e l’occupazione, però, restano al palo. Così come gli investimenti.

Dagli 80 euro fino ad arrivare ai quasi venti miliardi spesi per spingere le imprese ad assumere i risultati sono stati abbastanza deludenti.

Dario Di Vico rilancia (  http://2tXQPEL )con una certa dose di buone ragioni l’esigenza di rimettere al centro la questione della produttività e delle relazioni industriali. Le imprese investono con il contagocce, assumono con grande parsimonia e, ai contratti a tutele crescenti, preferiscono i più tranquillizzanti contratti a tempo determinato.

Quello che forse si sottovaluta è che molti imprenditori sono fortemente preoccupati del futuro e quindi non investono nella misura che sarebbe necessaria ad innescare un circolo virtuoso.

La Politica e spesso anche una parte del mondo della rappresentanza, ragiona come se gli imprenditori non leggessero i giornali e si accontentassero delle rassicurazioni, degli incentivi o dei richiami al patriottismo industriale.

L’imprenditore oggi è solo. Molto più di ieri. Al di là di un nucleo importante di multinazionali tascabili o di industrie performanti che fanno sicuramente immagine ma che non fanno PIL duraturo, la stragrande maggioranza delle nostre imprese è sub fornitrice di qualche cosa o di qualcuno che sta altrove e che ne determina continuità produttiva, margini e possibilità di creare lavoro.

L’idea che quell’impresa che non ha alcuna voce in capitolo a quel livello della filiera possa prendersi integralmente i rischi in termini di forti investimenti aggiuntivi e creare di conseguenza occupazione, rischia di essere sempre più impraticabile.  Anche se, in molti casi, può essere una scelta controproducente.

A mio parere due temi restano centrali. Innanzitutto come rimuovere tutti i fattori che ostacolano la competitività delle nostre imprese di cui la produttività è solo uno degli aspetti. E forse neanche il principale se i consumi non dovessero riprendere. Quindi i nodi di contesto (infrastrutture, burocrazia, giustizia).

In secondo luogo il tema della condivisione dei rischi. L’imprenditore, oggi, non ce la fa ad accollarsi integralmente i rischi di investimenti massicci che, a differenza del passato, possono rivelarsi un boomerang da cui rischia di non rialzarsi più.

Su questo terreno qualcosa è stato fatto ma la condivisione dei rischi (e delle opportunità) sarà, che lo si voglia o meno, l’elemento centrale dei prossimi anni alla base di quelle che dovranno essere le nuove relazioni industriali.

Le imprese italiane, salvo rarissimi casi, non occupano posizioni di leadership nelle filiere. Quindi i loro margini sono, e lo saranno sempre più, imposti dai contratti di filiera che di conseguenza determineranno la possibilità o meno di sottoscrivere con i sindacati contratti nazionali o aziendali che siano. Il vero punto di approdo del cosiddetto “Patto della fabbrica” e delle nuove relazioni industriali, se si vuole guardare lontano, sta tutto qui.

Questo è il nodo centrale. Il sindacato confederale deve decidere, prima o poi, se essere della partita o snobbarla e rischiare di subirne le conseguenze. Sulla struttura della contrattazione, sui suoi contenuti e quindi sulla sua stessa ragion d’essere nei luoghi di lavoro.

L’idea di poter svolgere la propria azione redistributiva e normativa in modo tradizionale in un mondo globalizzato e in una situazione di oggettiva fragilità come la nostra, riuscendo a tutelare lavoro, welfare e salario come nel 900 è veramente velleitaria.

Nella prima fase della globalizzazione il capitale poteva semplicemente spostarsi ovunque, delocalizzare, utilizzare il lavoro dove era più conveniente. Il cambiamento indotto dalla trasformazione digitale spingerà le aziende a disegnare ed implementare nuovi modelli di business che consentiranno forti riduzioni di costi e la destrutturazione del lavoro così come l’abbiamo conosciuto e regolamentato nel 900.

Questo processo spingerà, tutti gli attori del sistema, a ridisegnarsi un ruolo attivo o passivo ma è indubbio che i livelli di collaborazione, in azienda, sono destinati ad aumentare. Con o senza il sindacato.

Alla presentazione dell’ottimo libro “Rivoluzione metalmeccanica” di Giuseppe Sabella sulla storia e sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici sia il Direttore Generale di Federmeccanica Stefano Franchi che Marco Bentivogli della FIM hanno condiviso con grande convinzione l’idea del “Rinnovamento” come elemento centrale del rinnovo del loro contratto.

E questo “Rinnovamento” è innanzitutto culturale. È un cambio di fase che è tanto più necessario e trasparente proprio laddove le macerie del vecchio modello sono più eviedenti. Gli altri contratti non hanno colto fino in fondo questa sfida (che non è solo per il sindacato). In quel settore la contrattazione aziendale assume un senso compiuto proprio perché spinge aziende e lavoratori, attraverso le loro rappresentanze, a cogliere questa esigenza di condivisione dei rischi e delle opportunità.

Ma se a loro è affidato questo compito, ai livelli confederali di imprese e sindacati dovrebbe essere affidato un altro compito, ancora più importante. Contribuire a rimuovere le cause che impediscono al nostro Sistema di essere competitivo.

E su questo mi limito sommessamente a suggerire la necessità che ci sia una convergenza che sappia andare oltre le esigenze di bottega di questa o di quella organizzazione (sindacale o datoriale) e che, al contrario, consenta una convergenza che sappia mettere al di sopra di ogni cosa gli interessi del Paese.

Tu chiamalo, se vuoi, welfare dei consumi…

Difficile trovare chi passi una o più domeniche a osservare i frequentatori di un outlet o di un centro commerciale. Pero sarebbe particolarmente istruttivo  per comprendere le dinamiche sociali.

Così come sarebbe interessante imparare ad osservare i comportamenti dei frequentatori, spesso i più anziani, di un supermercato quando entrano in un punto vendita con un volantino spiegazzato in mano frutto di attente comparazioni su cui sono evidenziati le promozioni.

E come si dirigono con grande determinazione al lineare dove il prodotto è esposto per acquistarlo. E poi, lasciato il primo supermercato, raggiungano il concorrente meno distante dove trovano in promozione un altro prodotto. E così per ore. Il CENSIS lo chiama in modo un po’ borghese il “welfare dei consumi”.

Per le fasce più deboli è, da molto tempo, uno dei tanti modi per far quadrare i conti. Nei paesi dell’est, prima della caduta del muro, era normale partire alla mattina con la borsa vuota e girare alla ricerca di prodotti a buon mercato.

Succede, oggi, anche da noi. La GDO è quindi anche un grande ammortizzatore. Prodotti a buon mercato, luoghi di relazione e mete di relax domenicale. Molti, però, non lo vogliono vedere. Tutti i tentativi di innovazione del marketing nella Grande Distribuzione si sono arrestati davanti al “volantino” e alle tradizionali “raccolte a punti”. Ci sarà un motivo.

Certo ci sono innovazioni. Anche importanti ma il prezzo, la promozione, lo sconto sono ancora elementi importantissimi per molti. Osservare come un pensionato o una massaia capiscono, appena varcata la soglia del supermercato, se quel mese l’insegna punta a fare fatturato o a difendere i margini è fantastico.

Nel primo caso entra e compra nel secondo esce e va altrove. Intercetta tutti i trucchi che i manager commerciali dell’azienda mettono in atto per nascondere le loro politiche. Le stesse insegne vanno spesso in missione dai concorrenti per carpirne e anticiparne le mosse. In una importante catena milanese la vicinanza alle date di scadenza veniva talmente tenuta sotto controllo dai dipendenti stessi per accaparrarsi la merce che sono stati costretti a chiudere alla vendita interna.

Non sono solo i consumatori a tenere sotto controllo le promozioni. Anche i dipendenti cercano di inserirsi. Poi ci sono i furti. O come si preferisce chiamarle: “le differenze inventariali”. Protagonisti clienti e dipendenti stessi. Il numero è altissimo ma si preferisce non parlarne.

Esiste un mondo particolare che ruota intorno e dentro i punti di vendita. I centri commerciali sono, da un certo punto di vista, mete sempre ambite. D’estate per l’aria condizionata, d’inverno per guardare negozi. Nella stagione dei saldi per comprare cercando, a tutti i costi, l’affare.

Negli outlet si affiancano diverse tipologie. Italiani in gita festiva e stranieri portati con il pullman a cui non ha alcun senso spiegare che alcune date sarebbero off limits per i sindacati perché non ritorneranno più una seconda volta.

L’indagine del censis proposta da Di Vico sul corriere (  http://bit.ly/2uLvcYo ) ci racconta anche di una parte del Paese costretto alla sobrietà per necessità, in perenne movimento per scelta, attrezzato per evitare i prodotti civetta che cercano di distrarlo per portarlo fuori strada.

Mi viene da pensare ai tassisti prima dell’uso del navigatore. Conoscevano le vie di Milano con una precisione incredibile. Lo stesso vale per il consumatore costretto alla sobrietà dallo scarso reddito.

Si orienta tra migliaia di referenze, Sa dove acquistare il fresco e il freschissimo migliore, così come la carne e il pesce. Sa dove andare e come orientarsi nei differenti punti di vendita. Conosce tutti i punti deboli e le strategie delle diverse insegne. Ne segue le mosse. Spesso le anticipa.

È vero. Tradisce immediatamente l’insegna al primo segnale di modifica della politica commerciale. Domeniche, festività e h24 non sono fissazioni dei manager delle catene. Fanno parte ormai delle dinamiche dei comportamenti di acquisto.

E c’entra poco indagare su cosa succede nel resto del mondo. In giro per punti di vendita alla ricerca di occasioni si va quando si ha tempo. E se il reddito disponibile non è quello tedesco o quello francese la scelta è obbligata.

La Grande Distribuzione è in evidenti difficoltà. I costi crescono, i margini sono difficili da incrementare, i modelli organizzativi sono radicati, l’innovazione è complessa. Addirittura lo è più di quella possibile per un piccolo esercizio commerciale. Dai discount ai centri commerciali passando dai negozi di vicinato agli outlet e agli specializzati tutte le catene sono impegnate quotidianamente per rispondere ad un consumatore che, è vero come ha confermato il Censis, è tutto meno che fedele.

Però non conosco nessuna insegna che non investa in formazione, sviluppo e crescita del personale più di ogni realtà analoga in altri settori ben più quotati. E che direttamente o indirettamente non cerchi di rispondere a questa popolazione in perenne cammino con risposte concrete e politiche specifiche.

E questo nonostante la crisi dei consumi e la difficoltà a raggiungere i propri obiettivi di vendita.

Milano e la sindrome dell’Expo…

Dario Di Vico (estremamente acuto e mai banale come sempre) stimola una interessante riflessione sulle qualità della città di Torino. (http://bit.ly/2rc9Qow). D’altra parte il salone del libro appena concluso è lì a dimostrarle.

Torino è una città che sta cercando di riproporsi e di cambiare pelle. Sempre più terziaria, ben amministrata, lontana dagli scandali. Reagisce composta se sfidata sul suo modello, sui suoi valori, sulla sua capacità di immaginare il futuro.

E cerca di farlo coinvolgendo anche i suoi cittadini. In modo trasversale ma senza snaturarsi. Quando ha deciso di cambiare non si è rivolta all’usato sicuro rappresentato dal pur ottimo Piero Fassino né ha inseguito gli agitatori di paura. Ha saputo costruire, pur nel filone della nuova offerta politica, un suo candidato adatto al tipo di cambiamento scelto.

È come avesse trovato una sua modalità di approccio per essere globale nel suo proporsi ma anche locale, attenta ad evitare fughe in avanti. Le elites di Torino si riconoscono tra di loro, collaborano, pensano, convergono sobriamente su progetti e proposte, sanno, innanzitutto, di essere di quella città.

Milano, no. Il grande risultato dell’Expo sembra averle dato alla testa. Pretendiamo di essere l’ombelico del mondo senza però riuscire a costruire una identità vera, profonda, condivisa.

Le elites restano distratte e divise, trascinate nei progetti. Non promotrici. Human Technopole, ricordiamocelo sempre, non nasce a Milano. Le istituzioni culturali continuano a non dialogare tra loro così come le elites economiche. Assolombarda è in crisi, la Fiera, pure.

Resta Banca Intesa, la Camera di Commercio, l’azione importante delle associazioni del volontariato. Continua però a mancare un’anima. Un disegno vero.

Sembra che l’Expo abbia prodotto un effetto collaterale, una sorta di diritto divino a sentirsi primi e unici a prescindere e a fagocitare tutto ciò che è possibile generando un senso di antipatia e non ad essere riconosciuti come un vero punto di riferimento,  portatori di una sfida da condividere. Milano rischia la megalomania.

Un ex sindaco, Pisapia, vuole (addirittura) rifondare la sinistra. L’attuale sindaco, in carica da meno di un anno, indicato (spero non da se stesso) come futuro Presidente del Consiglio.

Sull’Agenzia del farmaco sembra che nessuno si accorga che Francia e Germania si stanno già accordando su Strasburgo così come sulle Olimpiadi del 2028 dove il messaggio sembra essere più finalizzato allo scontro politico in corso con i pentastellati che a un disegno di alto profilo.

Il grido di battaglia sembra essere:”Milan e pœu pú”. Milano che, quindi, basta a se stessa. Tutto il contrario di ciò che ci vorrebbe. Una città che, proprio mentre si sta trasformando, deve ritornare ad essere accogliente per i suoi cittadini ma anche per chi arriva, al centro come in periferia, che sa costruire ponti con altre culture e con altri mondi ma offre con generosità, a chi ha intorno, occasioni e strumenti per crescere insieme.

Che non fagocita ma promuove. Per questo, da milanese, non posso che essere contento dalla lezione di stile che ci viene da Torino e dal salone del libro.

È un segnale che ci indica una diversa direzione di marcia su cui riflettere. Speriamo sia colto da tutti.

Non sparare sul (nuovo) CNEL…

Nel far west faceva bella posta sul pianoforte nei saloon il cartello: ” non sparate sul pianista”. Si voleva metterlo al sicuro dalle risse e dai duelli che avvenivano quotidianamente.

Oggi, al contrario si spara su tutto ciò che si muove. Il CNEL così come l’abbiamo conosciuto prima del referendum abrogativo è morto. Non serve ricordarlo.

Il suo past President ha cercato di farlo rivivere provocatoriamente rivendicando addirittura il moto popolare che ne avrebbe impedito la sua abrogazione. Non scherziamo.

Quel CNEL è morto veramente. L’esito referendario ce ne ha riconsegnato i resti di quello che le parti sociali, almeno le più attente, avevano lasciato sul campo ritirandosi.

Indicarne Tiziano Treu come Presidente è una mossa del Governo, che condivido. Treu voleva abolire “quel” CNEL, non lo spirito positivo che lo aveva fatto inserire nella Costituzione.

Ha l’esperienza e una storia in grado di reggere l’onda d’urto dei leoni da tastiera. Certo, ha votato SI come più modestamente il sottoscritto e come tanti che volevano spazzare via un carrozzone costoso è inutile.

Non un luogo che, invece,  serve al Paese. Un luogo di confronto e di proposta per le parti sociali. Insieme.  Un luogo snello, senza costi eccessivi o inutili gettoni dove sperimentare concretamente forme di coinvolgimento e corresponsabilità nell’interesse del Paese.

Tiziano Treu è la persona giusta. Abbiamo veramente bisogno di luoghi seri, istituzionali, condivisi che offrano una chiave di lettura nuova e utile al futuro.

Per questo io gli auguro un grande in bocca al lupo per il suo lavoro. Ne avrà veramente bisogno.

Grande Distribuzione: una dannosa contrapposizione tra consumatori e lavoratori

Il sociologo Renato Curcio lo sostiene da molti anni. La persona resa “isterica” da un consumismo esasperato, soprattutto nei grandi centri commerciali, sarebbe diventata il nuovo nemico dei lavoratori del commercio del XXI secolo.

Dai nervosismi mentre fa la fila alle casse di un supermercato oppure quando si lamenta per il livello di servizio trovato o quando se la prende con la cassiera per un prodotto difettoso o scaduto.

La diagnosi è chiara. Consumatori e lavoratori del settore non possono che detestarsi. Il sindacato e le grandi imprese della distribuzione moderna ci hanno messo del loro, dagli anni 70 in poi, trasformando un negozio, piccolo o grande, poco importa, in una sorta di reparto intriso di cultura fordista con al centro il lavoro e il modello organizzativo, non il consumatore.

Personale valutato per il numero di pezzi passati alla cassa e non per la relazione con il cliente, provvedimenti disciplinari a getto continuo, pause indipendenti dall’afflusso di consumatori, tempo tuta, passaggi di livello automatici, mansionari e declaratorie studiati più per promuovere cause legali che per favorire la crescita professionale.

Un mondo autoreferenziale dove il cliente ha assunto, via via, un ruolo accessorio. L’espansione dei negozi e l’esasperata concorrenza sui prezzi e sui costi hanno ridato spazio di manovra alle imprese più attente, soprattutto multinazionali, spingendole alla creazione di un contesto nuovo, parallelo, completamente diverso fatto di giovani assunti inizialmente a tempo determinato e poi, confermati, flessibilità delle prestazioni, opportunità di carriera anche per giovani senza titoli di studio, formazione continua.

Un mondo nuovo che assumeva, via via, i valori e la filosofia delle aziende stesse e che tendeva, sempre più, a fare a meno del sindacato il quale, anziché comprendere il cambio di passo e accettare la sfida del cambiamento, si è limitato a difendere il perimetro dei propri iscritti tradizionali scavando così un solco profondo tra generazioni di lavoratori garantiti da regole sempre meno efficaci e di non garantiti fagocitati, su altri piani, dalle aziende stesse. Diventando così assolutamente marginale.

L’inutile contrapposizione sulle domeniche e sulle festività nasce in questo contesto. Oltre quattromila assunzioni, indotto escluso, hanno spinto i sindacati, locali e nazionali, a firmare decine di accordi aziendali in linea con le liberalizzazioni bersaniane e montiane poi con le formule più ardite in cambio di gettoni di presenza, assunzioni dedicate alle domeniche, volontariato, turnazioni, esenzioni per alcuni, ecc.)

Poi, però, è subentrato una sorta di ripensamento politico che ha disorientato gli stessi lavoratori del settore che, infatti, sono diventati sempre più impermeabili agli appelli alla mobilitazione sindacale.

Così come i consumatori. Il primo maggio l’autostrada Milano-Varese era al collasso all’uscita che porta al Centro commerciale di Arese. A Pasqua, l’outlet di Serravalle Scrivia ha raggiunto il top delle vendite nonostante le proteste di uno sparuto gruppo di sindacalisti alessandrini.

Media a parte, tutto sembrerebbe confermare, quello che ci dicono le survey sui consumatori e cioè che le aperture H24 e 365 giorni all’anno incontrano decisamente i favori del pubblico.

Quindi consumatori insensibili o lavoratori/consumatori anch’essi alla ricerca di opportunità di acquisto e di svago? Forse sarebbe il caso di riflettere.

Personalmente continuo a non afferrare cosa rende diversi un cinema, un parco di divertimenti, un outlet o un centro commerciale. Soprattutto quando queste opportunità convivono nello stesso luogo. E perché qualcuno mi dovrebbe dire quando e se andarci.

Trovo stravagante che il segretario generale della CISL suggerisca quando comprare un maglione, o i luoghi dove sarebbe meglio divertirsi come ha fatto in una recente intervista.

È veramente un Paese ben strano, il nostro. Se il problema fosse quello di regolamentare le chiusure, facciamolo dove ha senso farlo. Non certo in un outlet o in un centro commerciale che oggi hanno la stessa funzione (e dimensione) di un centro storico di una città: un luogo di divertimento e di relazione dove si fanno anche acquisti tradizionali.

Infine, la rete. Comprare al primo maggio “on the road” non sarebbe fair, “on line”, si. Non ho mai letto un solo invito del sindacato di categoria a non accendere il PC o il tablet nelle festività comandate. Laiche o religiose che siano. Sarebbe ridicolo.

In rete si fanno, legittimamente, promozioni, sconti e saldi h24 per 365 giorni all’anno da tutto il mondo. Zalando, ad esempio, ha in programma di aprire negozi fisici, Ikea ristoranti, Carrefour luoghi di intrattenimento innovativi. Starbucks, caffè. È un mondo in grande cambiamento.

È indubbio, però, che la rete resta un temibile concorrente della GDO. Non deve remunerare un investimento in immobili di decine di milioni di euro, promozioni e politiche commerciali complesse, negozi, spesso in franchising che devono smaltire prodotti e magazzini, lavoratori a cui va garantito un contratto nazionale. E soddisfare consumatori bombardati da offerte di ogni tipo.

Non c’è però alcuna ossessione da parte delle aziende, c’è la consapevolezza che occorre differenziarsi e differenziare brand e servizio. Alcune aziende hanno aperto a Pasqua e al primo maggio, altre no.

Più che obbligare le aziende ad aprire credo si debba lasciare loro la libertà di farlo. Così come il rapporto tra consumatori e lavoratori del settore in alcune realtà sta, fortunatamente, cambiando in profondità.

Ma, su questo, sono proprio le multinazionali che sperimentano i format più innovativi assumendosi anche i rischi conseguenti. Bisogna superare la logica che ha piegato le aziende solo sul versante dei costi che hanno fatto il loro tempo.

Manager sempre più qualificati, formazione comportamentale, addestramento continuo, crescita professionale e ricambio generazionale stanno portando i loro risultati.

Adesso è probabilmente arrivato il tempo in cui occorrerebbe intervenire sui modelli contrattuali per riportare al centro la qualità del servizio e del contributo che ciascun lavoratore può dare al successo della propria azienda offrendo al consumatore ambienti e opportunità di acquisto veramente innovativi.

Ma c’è un Macron in Italia?

Ad un passo dalle elezioni francesi e dopo il dibattito televisivo tra Le Pen e Macron i media italiani sembra abbiano rallentato la caccia all’identikit dei potenziali Macron e Le Pen italiani.

A destra il sosia c’è ed è Salvini. Anche lui, tra l’altro destinato ad un sostanziale ridimensionamento e ormai surclassato da una forma più moderna di populismo internettiano interpretata, sul suolo italico, dai pentastellati.

Per la maggioranza degli osservatori sono Renzi e Letta i due politici più segnalati per i loro punti di contatto con il probabile vincitore del ballottaggio francese.

Il primo come anticipatore di Macron attraverso l’idea (mai tramontata) del cosiddetto Partito della Nazione. Il secondo per la sua indubbia statura politica e la sua credibilità internazionale.

Entrambi però, a differenza di Macron, sono un prodotto della Politica le cui radici sono tutte nel 900. Quindi figli di una grande tradizione popolare che ne condiziona il pensiero ma, soprattutto, la conseguente incisività nell’azione di Governo.

Macron è, al contrario, un prodotto della globalizzazione sia per la sua provenienza che per il suo modo di pensare. È fuori dagli schemi destra/sinistra tradizionali, è un prodotto del nuovo capitalismo che guarda all’Europa in modo nuovo  ed è il segno della presenza di una diversa generazione di tecnocrati di nuovo conio e di spessore stanca della politica tradizionale e desiderosa di proporre un disegno riformista di grande respiro.

La Francia delle banlieu, delle contraddizioni etniche, del terrorismo e del declino industriale si trova a dover fare i conti con un profilo di manager e di politico diverso dal passato. E questa Francia sembra essersi convinta di aggrapparsi a questo progetto e non a farsi attrarre dalla vecchia politica litigiosa e inconcludente seppur rappresentata dai Melanchon, dai Fillon o dalla Le Pen stessa.

Un Paese in crisi di identità che sceglie di raddoppiare la posta anziché accomodarsi nelle braccia del demagogo di turno o di chi rappresenta una onesta continuità con il passato.

E in Italia? Forse dobbiamo partire dal fatto che la matrice del nuovo modello di candidato francese è rappresentata da tre caratteristiche fondamentali: essere di nuova generazione, non provenire dalla politica tradizionale e possedere un CV professionale significativo. Se questo è vero non è difficile individuare, anche da noi, chi ha quel profilo.

Innanzitutto dobbiamo scartare chi è partito troppo presto come Stefano Parisi. Ottimo candidato ma divisivo sia a destra che a sinistra.

Poi chi ha un ottimo CV ma non le altre caratteristiche richieste come, a suo tempo, Giannino, o Boeri, o Passera ma anche lo stesso Sala. Anche Renzi, pur essendo di nuova generazione, manca comunque degli altri elementi della matrice. Così come Letta per gli stessi motivi. Due candidati che possono certamente rientrare in campo. Ma non in questo giro.

A questo punto ne resta solo uno: Carlo Calenda. Esponente della nuova generazione, ministro, scarsi contatti con la politica tradizionale e ottimo CV ne fanno un profilo di grande interesse con una biografia familiare e professionale di tutto rispetto.

L’Italia non è la Francia, questo è vero però è anch’esso un Paese che deve rassegnarsi all’idea che la “ricreazione” sta finendo e presto suonerà la campanella. La vicenda Alitalia e la prossima legge di stabilità, a mio parere, segneranno lo spartiacque tra il ministro Calenda e il PD.

Renzi, che lo voglia o meno, dovrà reggere, fino alle elezioni, uno scontro durissimo con Grillo e con Salvini. Dovrà rassegnarsi a spostare un po’ più a sinistra l’asse interno del Partito per tenerlo unito quindi difficilmente potrà essere il candidato premier al prossimo giro.

Per questo Carlo Calenda ha fatto bene a declinare l’endorsement di Berlusconi. Io credo che presto si farà da parte dall’attuale Governo per poter giocare al meglio le sue carte.

Per chi crede nella nuova Europa e nell’irreversibilità, pur riveduta e corretta, della globalizzazione è un punto di riferimento con tutte le caratteristiche necessarie.

Dovrebbe solo essere un po’ meno confindustriale nell’atteggiamento e nei giudizi perché va bene accusare il management Alitalia per l’arroganza e gli errori compiuti consentendo così  ai sindacati confederali di rientrare in gioco ma dietro a quei manager c’era anche un Consiglio di Amministrazione che ha approvato sistematicamente tutte le decisioni. E, in quel CDA c’erano anche persone con cui lui ha condiviso una parte del suo percorso. E su questo non può che esserci un giudizio altrettanto netto che non c’è ancora stato. Vedremo comunque le prossime mosse.

Si è però aperta una fase indiscutibilmente nuova della politica italiana dopo le primarie del PD. La legge elettorale (qualunque essa sia) ci consegnerà un Paese a cui un popolo disorientato e preoccupato assegnerà, ad una classe politica che crede nell’Europa e nella globalizzazione (seppur corretta),  l’ultima chance di successo ma gratificherà  i suoi avversari con un forte risultato.

Lo stanno facendo, i nostri cugini in Francia e, sarà così, molto probabilmente, anche in Italia. Per questo bisogna prepararsi per tempo evitando le nostre ridicole beghe da cortile. E questa, credo, sia l’unica cosa che non possiamo più permetterci.

 

 

Perché sceglierei Mauro Moretti

Premetto che non ho alcuna voce in capitolo. O meglio. Pago le tasse e quindi la vicenda Alitalia mi riguarda direttamente visto che sarò chiamato, seppur indirettamente, a contribuire una volta trovata una possibile via di uscita.

Anche in questo caso, a mio parere, vale il consiglio dell’amico Becchetti che suggerisce di “votare con il portafoglio”. Personalmente è quello che vorrei fare.

Alitalia, così come l’abbiamo conosciuta, è morta. C’è una remota possibilità di rimettere in piedi un’azienda diversa ma utile al Paese? Se si, sei mesi di prestito non bastano. Però sono sufficienti per costruire un progetto serio, condiviso attraverso il quale confrontarsi con partner internazionali.

Oggi non è possibile così come non lo può essere con questo management vecchio o catapultato all’ultimo momento per gestirne l’agonia. Ma anche con un sindacato di categoria la cui credibilità è vicina allo zero.

Per ripartire da zero i messaggi devono essere chiari. Ai soci, ai lavoratori e al Paese. Soprattutto ai possibili investitori. Ci vuole un segnale di discontinuità molto forte. Mauro Moretti è, a mio modesto parere, la persona giusta.

Sa come si negozia con il sindacato, sa come affrontare i lavoratori soprattutto quelli che difendono privilegi improponibili, sa come affrontare i concorrenti. Soprattutto conosce il mondo dei trasporti e le possibili sinergie con Trenitalia.

Da quello che si legge il dissenso tra il segretario del PD Renzi e il ministro Calenda non sembra essere tattico. Il primo crede in un futuro di Alitalia come azienda. Il secondo, no.

Il primo sa che i sacrifici che devono essere chiesti sono molto pesanti e che per i sindacati non sarà facile seguirlo. Però ritiene che valga la pena giocare fino in fondo la partita. Anche per l’immagine del nostro Paese.

Il secondo, di scuola confindustriale, pensa che la partita sia già persa e quindi si preoccupa di gestirne i costi per il Paese per le possibili conseguenze economiche e sociali.

La scelta del commissario, credo, risentirà di queste posizioni. Renzi deve necessariamente riprendere in mano l’agenda politica e le priorità del Paese.

Di fronte ha Grillo che propone sostanzialmente che tutto resti com’è senza indicare chi dovrà pagarne il conto, l’attuale governo e i sindacati confederali che, senza un vero cambio di passo, possono solo balbettare.

Serve una svolta e serve chi può simboleggiarla. Altrimenti è meglio starne fuori. Nessuna partnership internazionale sarà possibile senza un forte committment politico.

Un eventuale nuovo progetto complesso travalica necessariamente i tempi di questo governo al contrario delle rassicurazioni ai lavoratori, ai clienti e agli investitori che devono essere immediate.

Certo non è un manager, seppur di qualità, che può, da solo, invertire la rotta di un’azienda ormai senz’anima e forse rassegnata ad un inevitabile destino.

Mi viene però in soccorso un vecchio proverbio arabo che recita: “tra morto e morto e sepolto c’è un’enorme differenza.” Forse è ancora il caso di provarci.

Politica e rappresentanza sindacale, due mondi profondamente diversi.

L’idea che i pentastellati possano lanciare un’OPA sul sindacato è tanto suggestiva quanto irrrealistica. E questo per una serie di ragioni oggettive.

Innanzitutto il nesso tra i successi dei grillini in politica e quelli che potrebbero ottenere nel mondo del lavoro, non regge. Sono due mondi che hanno, al di là delle suggestioni mediatiche, pochi punti di contatto. Basti pensare che sono rarissimi i dirigenti di un campo che riescono a imporsi nell’altro.

Ma c’è ben altro. Non tanto e non solo perché nel mondo del lavoro privato c’è un terzo incomodo, l’impresa (anche attraverso le sue associazioni), che non ha nessuna convenienza a privarsi del ruolo di un interlocutore che resta fondamentale, seppur fortemente ridimensionato rispetto al passato.

Lo dimostrano i contratti rinnovati in tutti i settori grazie (anche) alla lungimiranza delle aziende, e delle loro associazioni, che, proprio per contribuire ad evitare una rischiosa deriva populista, non hanno esitato a sottoscrivere cifre e testi impegnativi in momenti di crisi.

Lo dimostrano gli accordi firmati nelle singole imprese e le centinaia di intese che i sindacati definiscono nel loro linguaggio “difensivi” che di fatto consentono alle imprese di ristrutturarsi, riorganizzarsi e ridurre i costi. E ai lavoratori di mantenere, in tutto o in parte, i posti di lavoro. Un terzo incomodo che si è rivelato fondamentale quando non ha fornito sponde al cosiddetto sindacalismo di base in competizione perenne con quello confederale.

Un’altra dimostrazione viene, da un altro versante, dalla stessa vicenda FCA dove, la FIOM, pur essendo quasi riuscita a disintermediarsi da sola e dopo aver perso, non uno, ma una serie di referendum, può riproporsi e cercare di rientrare in campo. Come se nulla fosse successo.

Ha ragione Guglielmo Loy della UIL, sconfitte ed errori nel sindacato hanno un peso e una influenza molto diversa rispetto alla politica. Così come il rapporto con la propria base di riferimento.

Se dovessimo osservare la realtà con gli occhi di un Giorgio Cremaschi è indubbio che osserveremmo che  il sindacato confederale raccoglie gravi sconfitte dalla svolta dell’EUR del 1978 ad oggi. Fortunatamente non è così. Senza il sindacato, dobbiamo avere la serietà di ammetterlo, i lavoratori oggi starebbero molto peggio. Non rispetto agli anni 50, ma rispetto a venti anni fa. E non è detto che le imprese starebbero molto meglio. Vedi il nero o il dumping contrattuale in alcuni settori.

E questo nonostante moltissimi lavoratori siano già oggi in grado di difendersi da soli. Ma restano comunque una esigua minoranza. Tutto bene, quindi? No, affatto.

Partiamo da Alitalia. Se fosse stata un’azienda percepita veramente come privata dalla politica e dagli stessi lavoratori le cose sarebbero andate molto diversamente. È vero, come sostiene Dario Di Vico sul Corriere, che i sindacati confederali hanno subito una dura sconfitta.

A mio parere per una dose eccessiva di arroganza ma anche di ingenuità. Lo stesso era appena successo all’outlet di Serravalle. La differenza è che nel caso di Serravalle i sindacalisti sono riusciti a scaricare la colpa sulla paura dei lavoratori, all’Alitalia sulla rabbia e il disorientamento. Mai ammettendo i propri errori o quelli delle rispettive categorie che anziché orientare i lavoratori ne seguono da tempo gli umori di una  parte degli attivisti.

De Masi. Le tesi contenute nel suo ultimo libro sono in gran parte provocazioni intellettuali. C’è di tutto e di più. Nulla del contenuto può essere messo a terra. Fanno il verso ad un altro sociologo, Renato Curcio, meno letto ma altrettanto arguto e provocatorio. Appassionano perché ripropongono, in chiave moderna, l’eterna lotta di Davide contro Golia. Se i grillini vogliono adottarne i contenuti, facciano pure. Non andranno, però, da nessuna parte.

Infine l’unico tema che condivido nell’analisi proposta da Dario Di Vico. La debolezza della leadership confederale. A mio parere molto più marcata in CISL e UIL dove lealtà e fedeltà sono, negli anni, diventati sinonimi con tutti i guasti che questo ha comportato e comporta sulla ricchezza del dibattito interno e sulla crescita di nuovi gruppi dirigenti.

Nonostante questo ci sono interessanti segnali di ripresa di iniziativa che lo stesso Di Vico, molto attento a ciò che si muove nel sociale, sottolinea con grande precisione. Come votano alle elezioni  i lavoratori o gli imprenditori, piccoli o grandi che siano, è cosa diversa da come si comportano nelle relazioni sindacali o nel tutelare i propri diritti. Era già successo in Lombardia con la Lega. Prima ancora con la DC e il PCI. Tutti (e sottolineo tutti) hanno provato a mettere la “mordacchia” al sindacato. Bruno Manghi ha ragione: tempo perso.

Il vero rischio è la marginalizzazione dai processi veri di cambiamento e innovazione. Poi che in un’azienda pubblica, parapubblica, o vissuta come tale, la politica (di ogni colore, purtroppo) strumentalizzi i risultati del referendum è solo la dimostrazione del degrado che ha raggiunto.

Fossi un dipendente di Alitalia avrei più paura di questo per il mio futuro che delle dichiarazioni estemporanee di qualche sindacalista.

Un Primo maggio insieme? Perché no!

Questa ci mancava. In occasione del primo maggio, festa del lavoro, la FIM CISL, a Muccia, in provincia di Macerata, quindi nel cratere del terremoto, premierà quelle aziende che mettono al centro della loro azione il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, che promuovono una cultura dell’economia, della partecipazione e del benessere dei loro dipendenti, e che danno un contributo al miglioramento della società.

Non è l’unico riconoscimento ma, indubbiamente, è molto diverso da altri importanti appuntamenti come, ad esempio,  “Best place to Work” che premia le imprese che rispettano alcuni specifici parametri internazionali oppure lo stesso Premio eccellenza di Manageritalia e Confcommercio che premia, ogni due anni, i migliori manager e le aziende del terziario più innovativi, insieme.

Motivazioni, data scelta e valutatori sono un elemento caratterizzante. In genere i sindacati cercano buone ragioni per non parlare positivamente dell’aziende. È una cultura che viene da lontano. Così come per la stragrande maggioranza delle aziende il sindacato è visto solo come un procacciatore di problemi. Spesso campati per aria.

Dare un senso nuovo, non antagonista ma partecipativo è un atto di intelligenza ma anche di innovazione. A Roma c’è il concertone, che pur frequentatissimo, ha snaturato da anni la sua funzione originaria trasformandosi in un brand di un evento in sé, lontano dal sindacato.

In alcune parti del Paese ci sono poi aziende occupate o con gravi vertenze aperte che sottolineano il permanere di un clima di contrapposizione di interessi evidente ma, sotto traccia e poco visibili, ci sono anche migliaia di imprese dove il confronto, il rispetto e il dialogo tra imprenditori e lavoratori c’è ed è importante e costruttivo. La vulgata comune, purtroppo, non registra tutto questo.

Per questo la FIM fa bene a dichiarare la sua volontà di essere protagonista di un percorso nuovo, diverso, positivo. Qualche mese fa, sollevando non poche perplessità in alcuni ambienti, avevo condivido la proposta di creare di uno strumento tipo “trip advisor” per le imprese (ma anche per i sindacati). Uno strumento di valutazione semplice, efficace, trasparente. Le aziende sane non avrebbero nulla da temere e, le altre, ampi spazi di miglioramento.

Oggi i giovani in cerca di lavoro sono spesso attratti solo dalla notorietà del marchio delle aziende stesse. Non da cosa, né da come, si lavora concretamente. Ma neanche se sono luoghi di apprendimento vero,  e se si può crescere professionalmente in modo sano. Non guardano l’azienda per il suo valore sociale che porta nel territorio in cui opera, per l’occupazione che crea, per la formazione che offre, per il suo clima interno. Rischiano di essere  attratti esclusivamente dalla capacità che quella data azienda ha di parlare di sé. Ovviamente la mancanza di offerta di lavoro rischia di rendere, poi, molte di queste riflessioni superflue.

È evidente che per molti il problema non si pone neppure. Si lavora dove si può e alle condizioni proposte. Però nel processo di maturazione professionale e personale è importante sviluppare un senso critico. Occorre potersi dotare di una visione oggettiva e responsabile del contesto in cui si opera.

Per questo è importante lavorare insieme, aziende e lavoratori, per superare la concezione che ci siano solo mondi diversi, divisi da un cancello di ingresso. Il mondo delle imprese ha bisogno di condivisione e di collaborazione per affrontare il futuro.

Di creatività, intelligenza e proattività e quindi di senso critico e libertà di pensiero. Le aziende migliori del terziario sono già lì. Luoghi di lavoro innovativi, welfare interessante, responsabilità sociale, ruoli gerarchici rimessi in discussione da millenials che dal lavoro cercano soddisfazioni diverse dalle generazioni precedenti, tipologie di rapporti che mettono al centro il rispetto, le opportunità di crescita professionale e la qualità della vita più che garanzie ormai inesigibili.

Essere vicini e protagonisti in questo mondo che cambia è difficile per chi ne accompagna, da fuori, l’evoluzione. Però riconoscere il cambiamento, premiarlo e valorizzarlo non può essere solo un elemento di discussione nei convegni. Bisogna rendersene conto ogni giorno.

Mi ricordo lo scandalo che fece la prima volta che alcune imprese e le loro associazioni furono invitate a festeggiare insieme ai sindacati, la festa del lavoro. Per i fautori della tradizione di entrambe le parti, era una cosa da evitare assolutamente. Tutti presi a guardare il dito che indicava la luna… Però il mondo, fortunatamente, sta cambiando.

E tutto questo può spingere imprese, istituzioni e persone ad essere più responsabili. Ma questo non può avvenire in un contesto di continuo scontro di interessi contrapposti. C’è chi se ne accorge, e si attrezza, e chi resta purtroppo prigioniero della cultura del passato.

Alitalia e dintorni, il fascino indesiderato del NO

C’è una grande differenza tra condividere un progetto, un’idea, una decisione o respingerla. Nel primo caso ci si assume in prima persona la responsabilità delle conseguenze. Nel secondo caso, no.

Bocciare una proposta consente di unificare tutti gli stati d’animo negativi. Di qualunque tipo. Da corpo ad ogni sorta di alibi. Produce la sensazione apparente che tutto possa restare come sempre anche se non sarà comunque così.

La logica NIMBY(acronimo inglese per Not In My Back Yard, letteralmente “Non nel mio cortile”) nasce così. Il NO, privo di proposta alternativa praticabile si limita a scaricare su altri gli effetti. Sui vicini, sui colleghi, sui cittadini, sui contribuenti, sulle successive generazioni.

Il NO ha un suo fascino. Mostra, a chi preferisce stare alla finestra, la voglia di resistere, la volontà di non piegarsi al più forte, la volontà di tutelare il “qui e ora”. Chi pronuncia o sostiene il NO passa, quasi sempre, per essere un paladino del più debole.

Gli anchormen e i media in generale privilegiano chi dice NO. Chi dice SI è, al contrario, banale, scontato, subalterno. Ne sanno qualcosa i sindacalisti che difendono i compromessi possibili con gli accordi aziendali, cosiddetti difensivi, che però salvano migliaia di posti di lavoro.

C’è sempre chi pensa di spostare l’asticella in su. O chi invita a votare NO ad un referendum. Nel film “La classe operaia va in Paradiso” del 1971 il grande Gian Maria Volontè interpreta magistralmente l’operaio che si fa coinvolgere dal giovane studente estremista e perde il posto di lavoro restando solo con i suoi problemi.

All’Alitalia i campioni del “abbiamo già dato” in questi giorni sfilano come prime donne sui giornali. Personaggi come Riccardo Canestrari dell’ANPAC o Francesco Staccioli di USB presentano con nonchalance il conto che dovranno pagare i contribuenti italiani per dare senso e sostanza ad un grave quanto inutile NO. Non accennano minimamente alle conseguenze di medio e lungo termine per i lavoratori di Alitalia. Né a ciò che pagheranno i contribuenti. Non è affar loro.

I sindacati confederali si sono incastrati (o fatti incastrare) in un meccanismo che non c’entra nulla con la democrazia. È una finzione di democrazia scaricare un decisione senza alternative.

Per chi straparla, dopo, di mancanza di rappresentatività dei confederali ricordo che Pierre Carniti raccontava spesso che Napoleone sosteneva che “tutto puoi chiedere ai tuoi soldati tranne che sedersi sulla punta delle baionette”.

Hanno affrontato un negoziato in una situazione di grave emergenza, in una categoria corporativa e aziendalista di vecchio stampo senza nemmeno riuscire a costruire un rapporto vero con i rispettivi iscritti (che sono la maggioranza) limitandosi a sottoscrivere, con grande senso di responsabilità, un’ipotesi di accordo con un azionista poco credibile, un management raffazzonato, i creditori alle porte e con un Governo in evidenti difficoltà a sostenere il negoziato tra vicoli europei e risorse oggettivamente scarse. Sparare contro di loro è come sparare sulla Croce Rossa. Hanno fatto l’impossibile e di questo gliene va dato atto.

Adesso vedremo se sapranno tenere il punto o cercheranno di accodarsi alla logica del “penultimatum” tanto in voga nei settori parapubblici o ritenuti ancora tali dove la Politica mette, a proposito, ma anche a sproposito, troppo spesso il becco.

In altre situazioni i “benaltristi” e i cosiddetti “finestraioli” sono rimasti a bocca asciutta. Alla FIAT, senza la FIM e la UILM, Pomigliano forse avrebbe seguito la sorte di Termini Imerese. Oggi è facile scriverlo.

Allora, media e intellettuali pronosticavano la fine di Marchionne e della FIAT, discettando sulla subalternità dei due sindacati estromessi manu militari dai salotti televisivi e dalla possibilità di informare correttamente. Il NO faceva audience, come oggi. Non però tra gli operai napoletani, soprattutto tra quelli che, dalla CIGS, speravano di rientrare in azienda. Incredibile.

Su questo punto ci viene in soccorso, la trasmissione otto e mezzo, dove Marco Bentivogli della FIM ha affrontato con la forza di chi ha dovuto dimostrare di aver ragione, un titolato rappresentante del NO a tutti i costi: Giorgio Cremaschi.

Non poteva che finire 4-0. Il fascino del NO e del benaltrismo a tutti i costi si è schiantato davanti alla cruda realtà che irrita gli amici del NO a tutti i costi. Alitalia rappresenta, ed è qui la sua vera pericolosità, una sorta di vaso di Pandora.

Da una parte l’aggressività dei populisti vecchi e nuovi che non hanno niente da perdere perché all’opposizione. Dall’altra l’arte difficile di governare tra un passato di un’azienda tutto da dimenticare e un futuro da costruire giorno per giorno.

In mezzo un vulcano che rischia di esplodere e di incendiare così l’intera prateria. Per questo va tenuto con forza il punto. Se l’accordo non ha alternative si proceda senza tentennamenti nominando un commissario all’altezza del compito.

Pensare di risolvere un problema di questa gravità con possibili ripercussioni sociali imprevedibili fidandosi della buona volontà dei diretti interessati, ormai disorientati e rabbiosi con tutti, è stato un errore. Non ne va commesso un altro ancora più grave. Accettare la logica insita nel risultato di quel voto e cioè che un NO basta e avanza e che, adesso, il problema è dell’azienda e del Governo.

Il problema è, al contrario, di tutti noi.